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IL CORSIVO. Tassa sui rifiuti, se la campagna di boicottaggio del trio Sturniolo, Lo Presti e Notarianni è fondata sul nulla

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I consiglieri Lo Presti e Sturniolo

I consiglieri Lo Presti e Sturniolo

In una città in cui a centinaia lasciano l’auto sui marciapiedi o agli angoli degli incroci per non pagare pochi centesimi all’ora di parcheggio, prospettare ai cittadini che ci si può esimere dal mettere mano al portafoglio e pagare solo il 20% della tassa per il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti è come invitare le volpi ad entrare in un pollaio. Specie se si sostiene, con  tanto di legale al fianco, che “è la legge a consentirlo”, benché la legge, la stessa legge citata dai pifferai di vane illusioni, stabilisca cose ben diverse.

Propagandata da conferenze stampa (sempre più esempio del giornalismo al servizio di chi parla e racconta stupidaggini e non del lettore) l’allettante opportunità di risparmio se lo sono inventati due consiglieri comunali di quelli tosti, Nina Lo Presti e Gino Sturniolo. La campagna di boicottaggio della tassa sui rifiuti si è tradotta in un modulo che sta facendo il giro della città proprio alla vigilia della scadenza della prima rata. Il risultato, se la campagna avrà seguito, è facile da prevedere persino per un giornalista: uffici comunali sommersi dai moduli e in tilt, ritardi negli incassi del Comune (con il conseguente rischio nel futuro di vere interruzione del servizio) e cittadini esposti a sanzioni e interessi moratori.

Di tutto questo, però, i due consiglieri (e l’avvocato che offre loro supporto giuridico) non si curano, totalmente assorbiti dalla loro missione. Eletti nelle lista del sindaco Renato Accorinti, del quale avevano una conoscenza personale lunga decenni, qualche giorno dopo l’elezione Lo Presti e Sturniolo sono passati all’opposizione: su tutto e per tutto. Accorinti – stando a loro – non ne azzecca neppure una, neppure per sbaglio. I due, reduci da due anni di (stucchevoli) interviste e da un (inutile) tour per la città in cui hanno spacciato i debiti potenziali (e sicuramente inesistenti) del Comune per debiti certi, attaccando così certi imprenditori e certi professionisti (e dimenticando le vere cause del dissesto del Comune), hanno deciso di alzare il tiro.  E pur essendo uomini delle Istituzioni, retribuiti dal Comune, hanno indossato i panni  che si addicono a esponenti delle associazioni dei consumatori. A loro fianco Aurora Notarianni, un’avvocata di grido con la passione (oltre ovviamente che per il diritto) anche per le conferenza stampa, le trasmissioni televisive  e per la politica. In lizza per anni a ricoprire il ruolo di difensore civico di Messina, l’avvocata del Wwf alla vigilia dell’ultima campagna elettorale frequentò lungamente la villa di Tusa del mecenate Presti, quartier generale del Governatore Rosario Crocetta. Fu così data dalla stampa più accreditata come possibile candidata a sindaco; svanita questa possibilità, autorevoli fonti la indicarono come assessore in pectore dei candidati a sindaco risultati poi perdenti: prima di Felice Calabrò (del centro sinistra) e poi di Vincenzo Garofalo del centro destra;  infine dopo le elezioni, fu indicata come possibile assessore della Giunta Accorinti.

Confortati dalla sua sapienza giuridica, i due consiglieri comunali si sono avveduti che – come si legge nello stesso modulo da inviare all’Ufficio Tributi del Comune per chiedere di non pagare –  “il servizio di gestione dei rifiuti in città non viene svolto o viene svolto in grave violazione della legge come è documentato da segnalazioni dell’Asp 5 agli uffici competenti”. Dunque – sempre a seguire il ragionamento dei tre –  “il tributo è dovuto nella misura massima del 20%” come stabilisce l’articolo 1 comma 656 della legge 147 del 2013”. Peccato, però, che la legge non dice quanto sostenuto dai due consiglieri e dall’avvocata. La norma, infatti, non richiede come presupposto le segnalazioni dell’Asp; richiede (e non potrebbe essere altrimenti già solo per logica) che l’Azienda sanitaria abbia “riconosciuto e dichiarato  una  situazione  di danno o pericolo di danno alle persone o all’ambiente”, come conseguenza della gestione irregolare del servizio dei rifiuti.

Ora questa certificazione non esiste. Mai il direttore generale dell’Asp 5 ha riconosciuto una situazione di danno o pericolo di danno alle persone o all’ambiente.

Agli atti degli uffici dell’Asp 5 di Messina esiste solo una relazione datata 6 luglio del 2015 e inviata al prefetto e al sindaco in cui si segnalavano situazioni di criticità e la necessità di porre subito rimedio.

Segnalazioni dello stesso tenore e natura sono state allegate al ricorso che l’Unione nazionale consumatori (non certo due consiglieri retribuiti dal Comune), ha proposto dinanzi al Tribunale amministrativo per boicottare la Tari della dirimpettaia Reggio Calabria e far pagare ai cittadini solo il 20%.

Il Tar il 24 settembre del 2014 ha rigettato e, sul punto, ha in maniera chiara motivato: “nel caso di specie non è stata rilasciata una certificazione ufficiale – promanante dall’autorità competente che se ne assume le relative responsabilità – che attesti la sussistenza della situazione di grave danno o pericolo di danno. Non hanno un rilievo equipollente e non possono rilevare, a tale effetto, né l’attestazione del Ministero dell’Interno, né le due ordinanze versate in atti da parte ricorrente, che danno conto solo di misure di organizzazione straordinaria del servizio di smaltimento, ma che non dichiarano alcunché in ordine alle condizioni di pericolo per la salute dei cittadini, come conformata dalla norma”.

Renato Accorinti doveva cambiare Messina dal basso. Una volta eletto, il basso se l’è dimenticato. Messina non l’ha cambiata sinora neppure dall’alto dell’ufficio di Palazzo Zanca in cui si è (rin) chiuso dimenticando bicicletta e zainetto da proletario per riapparire solo quando c’è da farsi inquadrare dalle telecamere. Ma il suo più grosso demerito non è questo. Il sindaco in t-shirt e sandali ha una colpa ancora più grande: ha generato e nutrito una serie di personaggi che dapprima lo attorniavano festanti in cerca di incarichi e poi sono diventati i suoi più grossi nemici. E pur di colpirlo non si curano di assestare il colpo finale alla credibilità e autorevolezza di Palazzo Zanca, già erose da anni di non governo.

 

Il funerale del padre occasione di infondato vittimismo: la strategia difensiva di Francantonio Genovese sempre meno giuridica e sempre più mediatica. L’invenzione dei “ferri ai polsi”

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Francantonio Genovese e Nino Favazzo

Francantonio Genovese e Nino Favazzo

Secondo una legge dello Stato italiano risalente al 1992, “l’uso delle manette ai polsi è vietato salvo che non lo richiedano la pericolosità del soggetto o il pericolo di fuga o circostanze di ambiente che rendono difficile la traduzione”.

Eppure, secondo quanto riferito dalla testata messinaoggi.it diretta da Davide Gambale(giornalista al tempo stesso addetto stampa di Confcommercio Messina), l’ex leader del Pd siciliano Francantonio Genovese, da 8 mesi in custodia cautelare in carcere, ha rinunciato a presenziare ai funerali del padre, Luigi Genovese, per evitare di mostrarsi con i ferri ai polsi, che gli erano stati posti come condizione dall’autorità giudiziaria.

La notizia, veicolata sempre attraverso la stessa penna di Gambale anche dalla nota testata regionale LiveSicilia, è stata ripresa (al solito senza alcun controllo) da altri giornalisti che si sono prodigati in sperticati commenti colmi di indignazione. Non solo per le manette ma anche per il fatto che l’onorevole Genovese, è in carcere da mesi pur essendo solo in attesa di giudizio, condizione questa che condivide con altre 24mila persone. 

Naturalmente la notizia era falsa. Di più, la notizia era totalmente inventata, nel senso che neppure esisteva.

Francantonio Genovese non ha mai fatto istanza per partecipare ai funerali del padre. Se l’avesse fatta nessuno gli avrebbe imposto le manette: ma non perché i giudici di Messina siano particolarmente illuminati e garantisti, ma solo perché lo vieta la legge e, infatti, decine di detenuti, alcuni accusati di reati gravissimi, partecipano ai funerali di familiari e mai se n’è visto qualcuno con le manette.

E’ lo stesso legale di Genovese, Nino Favazzo, a rivelare che la notizia neppure c’è: “Non ho inoltrato alcuna istanza – afferma il legale – perché, conoscendo l’ordinamento penitenziario, so bene che non poteva essere concesso al detenuto di recarsi ‘libero e senza scorta’ a porgere l’ultimo saluto al padre deceduto. Non potevo infliggere al mio assistito, che non avrebbe accettato, anche questa ulteriore umiliazione”.

L’avvocato Favazzo di manette non parla. Parla di rinuncia per evitare l’umiliazione di una scorta. Parla cioè del nulla, posto che sa benissimo che ancora la legge italiana non prevede la possibilità di concedere ad un detenuto, per quanto facoltoso, il privilegio di potersene andare a zonzo per le chiese della città.

Ma allora la “non notizia” della prescrizione delle manette, vietata dalla legge, a Gambale, che per indicare la fonte usa l’espressione “dicono dal carcere di Gazzi”, chi l’ha data? Se l’è inventata, o gli è stata suggerita nell’ottica di una strategia difensiva vittimistica (vedi articolo precedente) da tempo in corso nonostante gli scarsissimi risultati?

Il legale di Genovese, Favazzo, non si è risparmiato ed è andato oltre, “tradendo” la strategia: “Sono altrettanto convinto che una carcerazione preventiva palesemente ingiusta, perché protratta oltre ogni ragionevole limite, ha impedito a Francantonio di poter abbracciare per l’ultima volta il padre e gli impedirà di condividere il proprio dolore con i suoi cari, con la riservatezza che il caso richiede! Può esistere pena più grande?”.

La Procura e il Dipartimento amministrazione penitenziaria hanno impiegato qualche secondo a smentire: “Ferma restando la competenza del Tribunale a decidere sulla eventuale partecipazione, si rileva come in virtù del preciso divieto di legge risulti fantasiosa e priva di ogni fondamento l’ipotesi di una possibile partecipazione al rito con mezzi di coercizione fisica, mezzi che peraltro non sono mai stati utilizzati nei confronti della persona in oggetto in occasione dei due precedenti arresti”.

IL CORSIVO: La consigliera Sindoni grida al complotto e si vanta di scoprire e denunciare il malaffare, ma sulla sua ineleggibilità scambia lucciole per lanterne. E il suo legale Antonio Catalioto le dà una mano

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Donatella Sindoni e Santi Zuccarello

Donatella Sindoni e Santi Zuccarello

L’ineleggibilità di Donatella Sindoni? E’ frutto di un complotto teso a zittire una consigliera comunale che dà troppo fastidio. Di più, è opera dei suoi avversari politici all’interno del Pd (e del primo dei non eletti Giovanni Cocivera ridestatosi  a distanza di due anni dalle elezioni), che per toglierla di mezzo usano “comportamenti discutibili”. A sostenerlo è la stessa biologa prestata alla politica, in una nota inviata a tutta la stampa dal collega Santi Zuccarello.

I comportamenti “discutibili” – pare di capire – coinvolgono come attore il giornalista autore del servizio “ad orologeria” – per usare le parole della consigliera del gruppo Missione Messina – con cui è stato sollevato il tema della sua ineleggibilità (vedi articolo), inducendo Cocivera a chiedere al presidente del Consiglio comunale di verificare se quanto raccontato nell’articolo sia vero.

Volendo semplificare, secondo la consigliera il giornalista è stato imbeccato e ha scritto per fare una cortesia a suoi avversari: come se per chiedere la decadenza ci fosse bisogno di un articolo di giornale.

Simile insinuazione, perché di questo di tratta, aggravata dall’essere espressa in maniera indiretta e subdola, è smentita dalla logica e non meriterebbe neppure un rigo di commento, tanto è penosa.

Ma poiché più che il giornalista chiama in causa l’intera professione giornalistica (o quel che ne rimane) qualche rigo è bene sprecarlo. Almeno per rassicurare e i lettori.

Donatella Sindoni e i signori che la (mal) consigliano possono stare tranquilli.

L’autore del servizio indigesto non conosce le dinamiche interne al Pd; non è informato dei giochetti  di corrente; non frequenta nessun esponente politico (di nessuna formazione); non ha nemmeno i loro numeri di cellulare. Non l’ha mai avuto neppure del signore che sul Pd ha regnato incontrastato per un decennio, nella cui segreteria non ha mai fatto anticamera. Non sapeva neppure chi si sarebbe avvantaggiato dell’ eventuale decadenza della Sindoni. Non ha mai avuto rapporti di nessun tipo, né diretti né indiretti, con Giovanni Cocivera, che per puro caso ha incrociato per qualche secondo a Palazzo Zanca, l’ultima volta non meno di 4 anni fa.

Si può capire che tutto questo, visti gli esempi mirabili di giornalismo che ogni giorno toccano con mano, per la consigliera comunale e per i suoi accoliti, sia molto difficile da credere. Ma, purtroppo per loro, è la pura e semplice verità.

Il giornalista aveva avuto l’intuizione dell’ineleggibilità al momento delle amministrative ma non fu lui ad occuparsene per il giornale per cui scriveva e quindi non approfondì la vicenda; gli tornò in mente occupandosi del contenzioso tra la Regione e i laboratori di analisi; controllò l’intuizione almeno 8 mesi fa e, libero da mesi da impegni di lavoratore dipendente, l’ha scritta sul suo blog 10 dieci giorni fa, giusto perché è riuscito a concentrarsi per due giornate di fila. Con un unico obiettivo, il solo che ha sempre avuto: informare i pochissimi che lo leggono.

Donatella Sindoni grida ai complotti e perde tempo in vacue elucubrazioni, pensando così di eludere la sostanza del tema che rimane sul tappetto.

Era o non era ineleggibile?

La biologa si dice serena perché il suo legale le ha detto che “era perfettamente eleggibile”.

Chi è il suo legale? Lei non lo vuole dire, ma scoprirlo è un gioco da ragazzi: Antonio Catalioto, l’avvocato che sollevò con successo l’illegittimità costituzionale del cumulo di incarichi di sindaco e deputato regionale di Giuseppe Buzzanca. 

Più precisamente, la Sindoni scrive che la norma ostativa alla sua elezione è stata dichiarata incostituzionale, quindi non esiste nell’ordinamento giuridico.

Se è così, dunque, il giornalista ha preso una cantonata e il problema è risolto. Di cosa si deve ancora discutere?

Fatta da chi si vanta di andare spesso in Procura (in compagnia del collega Zuccarello) a denunciare il malaffare, questa affermazione preoccupa. E non poco.

Leggere e comprendere una norma e, soprattutto, verificare se la Corte costituzionale l’abbia annullata per un esponente politico normodotato e abituato come la Sindoni a studiare atti amministrativi con tale perizia da trovarvi il marcio, non dovrebbe essere così difficile.

Eppure, la Sindoni non è riuscita nell’impresa di fare questa cosa semplicissima (a dispetto della straordinaria attività ispettiva quotidiana). E non ci sono riusciti neppure i giornalisti (o meglio, addetti stampa) che hanno portato-voce a simile sciocchezza senza controllarne la fondatezza, come pure richiede (rebbe) la legge professionale.

La norma della legge regionale 31 del 1986 (articolo 9), che stabilisce “l’ineleggibilità del rappresentate legale della struttura (non della responsabile, come scrive la Sindoni) convenzionata con l’Asp” è assolutamente vigente come un qualunque studente delle scuole medie può verificare (vedi norma).

Non c’è stata nessuna sentenza della Corte costituzionale che l’abbia annullata.

Antonio Catalioto, invece, da quanto riferisce lo stesso avvocato telefonicamente, ha tranquillizzato la Sindoni con argomentazioni diverse. Ad essere annullata nel 2009 dalla Corte Costituzionale è stata la norma nazionale, recepita integralmente da quella regionale; dunque, quest’ultima, egualmente in contrasto con la Carta costituzionale, a cascata – secondo il legale – finirebbe per essere caducata. Non solo: la norma, emanata negli anni 80′, quando i Consigli comunali nominavano i componenti del comitato di gestione delle Ausl, avendo come ratio evitare i conflitti di interesse in capo ai consiglieri/titolari di strutture sanitarie convenzionati con le stesse aziende sanitarie,  non ha più ragione d’essere da quando quest’ultime hanno cambiato forma giuridica e nulla hanno a che fare con i Comuni.

Tuttavia, se la tesi tranquillizzante è questa, la Sindoni ha molto da agitarsi.

La norma nazionale (articolo 60,co 1,n°9 Testo unico Enti locali ) che disciplina l’ineleggibilità dei consiglieri comunali nel resto d’Italia, infatti, è perfettamente vigente.

Una pronuncia della Corte costituzionale, in effetti, nel 2009 c’è stata. La sentenza numero 27 , però, ha soltanto dichiarato la norma nazionale (articolo 60, appunto) incostituzionale nella parte in cui era prevista l’ineleggibilità anche “del direttore sanitario delle strutture sanitarie convenzionate con l’Asp”. Causa di ineleggibilità questa, che la norma regionale mai ha previsto.

Ma c’è di più. Secondo l’ultima giurisprudenza della Cassazione la ratio della norma non è quella declinata dal legale Catalioto. Come scrivono gli ermellini nella sentenza 13878 del 2001, che ha ritenuto legittima la decadenza del primo degli eletti al Consiglio del comune di Guidonia Montecelio titolare di 4 laboratori di analisi convenzionati, la ratio è ” la captatio voti da parte del titolare di strutture private, che la condizione di ineleggibilità in esame tende ad evitare”. Scrivono ancora i giudici, rendendo ancora più fragile la tesi del legale della Sindoni: “(….) è stato del resto già sottolineato come l’ineleggibilità dei rappresentanti delle strutture private convenzionate trovi precipua ragione nel fatto in sè della operatività territoriale della concessione, in correlazione alla operatività “locale” della struttura sanitaria (che è rimasta, a sua volta, immutata anche nel quadro della nuova organizzazione delle U.S.L., che le ha convertite in aziende che agiscono come entità strumentali della Regione (…)”.

Donatella Sindoni era azionista di maggioranza (95% delle quote), legale rappresentante e direttore del laboratorio di analisi “Studio diagnostico Sindoni di Donatella Sindoni Snc” convenzionato con l’Asp 5. E non solo nel 2013, al momento dell’ultima tornata elettorale, ma anche tra il 2005 e il 2008, quando occupò la poltrona a palazzo Zanca benché fosse egualmente ineleggibile.

Forse la Sindoni ha fatto confusione, forse ha fatto confusione il suo legale. Quello che è certo è che i cittadini, da coloro che hanno eletto e retribuiscono, più che denunce in Procura, conferenze e comunicati stampa veicolati acriticamente da (pseudo) giornalisti più o meno amici e videoreportage populistici, si aspettano fatti concreti e comportamenti coerenti.   

IL CORSIVO: Barrile e Ferlisi due facce della stessa medaglia nella città ostaggio delle auto. Dove i vigili parcheggiano negli stalli per disabili

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“Perché alla mia auto la multa si e alle altre parcheggiate sul marciapiedi no?”.

Il presidente del Consiglio comunale di Messina, Emilia Barrile, quando ha visto che i vigili urbani le avevano fatto la multa ha preso il telefono e ha chiamato la centrale operativa. Riteneva che la sanzione le fosse stata fatta ad arte perché nei giorni precedenti aveva osato rimproverare il comandante Calogero Ferlisi dell’assenza totale di vigilanza alle sedute del Consiglio comunale, caratterizzate dalla presenza di cittadini infuriati.

Non è stata ritorsione, c’era stata infatti la denuncia di un cittadino che aveva trovato gli stalli per disabili occupati impropriamente. Ma Emila Barrile con la sua telefonata ha dato l’occasione perché la ritorsione scattasse. E’ bastato rivelare ai giornalisti la notizia della telefonata (la conosceva lei e i pubblici ufficiali tenuti al segreto d’ufficio), condita da particolari che si sono rivelati falsi, perché il presidente del Consiglio comunale finisse nella bufera, con i colleghi consiglieri pronti a chiedere le sue dimissioni.

L’audio delle telefonate ha però molto ridimensionato la vicenda. Emilia Barrile, precisando più volte che la multa che le era stata comminata era giusta, non ha inveito, né tantomeno oltraggiato nessuno. Certo ha fatto valere il suo peso di presidente del Consiglio comunale, voleva il nome del vigile autore dell’intervento e ha poi con protervia evocato la Digos . Ma ha ammesso che la multa era giusta: con nonchalance.

Il problema è proprio questo.

Emilia Barrile rappresenta l’automobilista messinese medio. Che ignora i parcheggi pubblici costati milioni di euro (come quello di Villa dante) e per non pagare 50 centesimi parcheggia in doppia fila o, sempre per sfuggire al Gratta e sosta, lascia l’auto agli angoli della Ztl lì dove gli ausiliari del traffico nulla possono.

Rappresenta tutti coloro che sono certi che i vigili non passeranno mai.

La Barrile, infatti, pensava alla ritorsione perché non poteva credere le fosse stata fatta una multa a seguito di normali controlli della polizia municipale. Perché questi controlli non esistono. Se esistessero, non si spiegherebbe come mai tutti i giorni, a tutte le ore, su viale San Martino, su corso Cavour, su via Tommaso Cannizzaro, su via Cesare Battisti, per non parlare di via La Farina (solo per fare degli esempi), ci sono automobili parcheggiate dappertutto. Pure sugli stalli per disabili: riservati, per la verità, dalla legge non ai familiari del disabile ma al (vero) disabile).

Ciascuno parcheggia dove capita con la certezza di farla franca.

Un dato allarmante per Calogero Ferlisi, come quello della violazione del segreto dell’ufficio, da lui diretto, di cui è stata vittima Emilia Barrile.  

Il comandante (da 15 anni) dei vigili urbani ha accolto festante Renato Accorinti a Palazzo Zanca il giorno dell’elezione a giugno 2013. Ma di cambiamenti per le strade se ne sono visti davvero pochi. E i primi a dare il cattivo esempio sono (talvolta) proprio coloro che dovrebbero fare controlli e multe. Come chi ha occupato uno stallo per disabile a due passi dal Tribunale lasciando in evidenza sul cruscotto il distintivo di “Comune di Messina- Vigili Urbani”, come mostra il video.

 

L’isola sommersa: Accorinti ostaggio di Trischitta e company nella commedia del non governo

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La manifestazione pro isola pedonale con Accorinti

La manifestazione pro isola pedonale con Accorinti

L’isola pedonale della città di Messina non c’è più. Formalmente è stata eliminata dal Tribunale amministrativo regionale. Ma sono stati alcuni consiglieri comunali, indifferenti agli interessi della comunità, a fornire l’estate scorsa ai giudici l’assist per spazzare via una (e forse l’unica) cosa buona realizzata, sia pure in maniera giuridicamente confusa, da Renato Accorinti in un anno di governo. Tanto che viene da chiedersi: è ancora opportuno che il sindaco pacifista rimanga alla guida della città se non è capace di trovare la maggioranza in Consiglio nemmeno su un tema che sta a cuore a tutta la cittadinanza? Non è meglio se ne torni a scuola, a fare l’insegnante di educazione fisica, e con lui, tutti i suoi assessori. Dopo qualche tempo se ne tornerebbero a casa così i consiglieri comunali, molti dei quali costano alla collettività non meno di 5mila euro al mese ma, per la collettività, salvo poche eccezioni, fanno poco o niente: per rendersene conto basterebbe assistere a 10 minuti delle sedute del civico consesso. Chi lo fa, non sa se ridere o piangere. Ma il narcisismo che anima ogni suo gesto, consentirà ad Accorinti di capire che è ostaggio del Consiglio comunale e di “consigliori” portatori di interessi di bottega e non certo di quelli che Accorinti andava e va ancora declamando come un disco rotto? Read more

“Chiuso per ferie”: i venditori (indigenti) di Minissale dopo aver messo a ferro a fuoco la città si riposano

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MESSINA. Hanno messo a ferro e fuoco la città bloccando per ore l’unica arteria che collega la zona sud con il centro città. Il 26 giugno hanno protestato sulla pelle di migliaia di persone sbarrando la strada Statale all’altezza di Minissale, rovesciando sull’asfalto centinaia di chili di pomodori, melanzane, cetrioli e zucchine. Trovati privi di licenza e completamente fuorilegge, la Polizia municipale si era permessa di fare loro una multa. Sostenevano che dovevano sfamare i loro figli e non sapevamo come mettersi in regola con la legge. Se si sono messi in regola nei giorni successivi non è dato saperlo. Di sicuro hanno ripreso la loro normale attività di venditori di frutta e verdura. Ma solo per il mese di luglio. Da qualche giorno, infatti, un vistoso cartello annuncia che il loro esercizio è “Chiuso per ferie”: diritto costituzionalmente garantito evidentemente non solo ai lavoratori dipendenti ma anche a chi, commerciante autonomo, non ha “come sfamare i figli e non può pagare le tasse”. Read more

Tir in città, l’inutile sceneggiata del sindaco Accorinti, sceriffo per far rispettare un’ordinanza nel fattempo divenuta carta straccia

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“Non sono io, sono il diritto”. Renato Accorinti, il sindaco di Messina, indosso la fascia tricolore, ha fermato i 30 Tir che mercoledì 23 luglio erano appena sbarcati dalla Cartour proveniente da Salerno sul molo Norimberga  con le mani. E con la (pre)potenza di un sindaco che si dice pacifista, ormai abituato a fare finta di risolvere i problemi della città con inutili sceneggiate, a uso e consumo delle telecamere che gonfiano ancora di più il suo già esorbitante ego. Li ha bloccati per tre ore, sotto il sole, sul cavalcavia, all’imbocco di via La Farina, inibita ai Tir in forza di un’ordinanza in vigore da lunedì e sospesa automaticamente da un ricorso giunto al protocollo di Palazzo Zanca poco prima delle 13, mentre Accorinti altercava con gli autotrasportatori. Nel frattempo, si è prodotto in varie interviste. Non senza compiacersi di quanto potere ha adesso da  sindaco rispetto a quando faceva il contestatore. Domanda: ma se un cittadino normale, facciamo un nipote di Renato Accorinti, vìola un divieto d’accesso e viene beccato dalla polizia che succede? Gli si fa la multa, prevista dalla legge, che gli viene contestata sul posto oppure per posta e viene lasciato libero di tornare velocemente a casa dove ci sono la mamma, i figli, gli amici ad aspettarlo. Com’ era accaduto lunedì, presente solo la polizia municipale e assente Accorinti, ai camionisti che avevano violato l’ordinanza. L’ordinamento non prevede sanzione ulteriore. Se invece (il nipote di Accorinti) fosse pure tenuto bloccato dalla polizia per tre ore, tutti gli attivisti attenti ai diritti umani griderebbero indignati allo scandalo e invocherebbero l’intervento della Procura. Se non del capo dello Stato. Accorinti, in versione sceriffo, ha fatto esattamente ciò che hanno fatto gli ipotetici poliziotti. Invece dell’intervento della Procura  si è guadagnato la ribalta delle cronache, ciò che più ama. Ma non ha certo risolto il problema. I camionisti hanno perso qualche ora di lavoro ma sono passati comunque dal centro della città. Dove ogni giorno ciascuno può osservare il passaggio continuo di Tir. Da sempre. Anche da quando (era il 20 ottobre 2013) lo stesso Accorinti ha adottato un provvedimento , accompagnato da proclami ed interviste, per inibire il passaggio in città (non dei trenta della Cartoor) ma delle centinaia di Tir che ogni giorno si imbarcano e sbarcano dalla Rada San Francesco o (in misura molto minore) dal porto storico, concentrandoli sul ballerino porto di Tremestieri. Un provvedimento vanificato in partenza dalla previsione di deroghe affidate non alla polizia municipale ma alla stessa società che si avvantaggia economicamente dal continuare a far convergere il bastioni della strada nel centro città. Il sindaco, fascia tricolore indosso, nei mesi passati è andato mai a controllare come e perché in questi mesi sono state accordate le deroghe a questa ordinanza in misura così alta da farla diventare carta straccia? Così come ora, per effetto di un ricorso gerarchico al ministero dei Trasporti, è diventata carta straccia l’ordinanza brandita dal primo cittadino.  

Certo, qualcuno dirà, a furia di bloccarli all’uscita dal cavalcavia i camionisti, imparata la lezione, non saliranno più sulla Cartoor che nei prossimi giorni arriverà vuota a Messina. I Tir però in Sicilia non ci vengono in vacanza e arriveranno via autostrada a Villa S. Giovanni. E dove approderanno comunque? A Messina, in centro città, alla rada San Francesco, con le navi della stessa società.

Nessuno più di chi si muove in bicicletta e rischia in ogni momento di finire sotto le ruote di un Tir può essere favorevole a bandirli dalla città: completamente, per sempre. A Messina il potere economico, politico, mediatico dei Franza, interessati a concentrare il traffico marittimo sulla rada San Francesco, ha sempre ostacolato la liberazione della città dai Tir, ma l’inefficienza della pubblica amministrazione, incapace di costruire un porto alternativo e di sanzionare davvero i camionisti,  ha sempre dato loro una mano. Accorinti non è stato eletto per  prodursi in sceneggiate ma per fare il sindaco e far funzionare la pubblica amministrazione. Se dopo aver “rilasciato” i Tir avesse fatto un giro su via La Farina avrebbe visto centinaia di automobili parcheggiate in doppia fila, molte di queste sui marciapiedi. Così come accade in ogni zona della città, grazie ad automobilisti certi di non subire alcuna multa. Da domani Accorinti che fa? Visto che non potrà tornare sul cavalcavia a bloccare i Tir, andrà personalmente a multare gli automobilisti indisciplinati e poi li terrà fermi tre ore, così imparano l’educazione?

 

Test nullo e risarcimento danni: l’ateneo di Messina se la prende con il ministero e fa un autogol

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prorettori

MESSINA. Invece di fare mea culpa e sperare che non arrivino altre sentenze dello stesso segno ha scaricato le responsabilità sul Ministero dell’Università. E’ questa la reazione dell’ateneo di Messina guidato da Pietro Navarra alla sentenza del Consiglio di Stato (vedi articolo correlato in basso) che, fissando un principio nuovo e rivoluzionario e dagli effetti dirompenti, l’ha condannata  pagare 10mila euro a testa (più spese legali di 5mila euro) a due aspiranti medici bocciati al test di accesso al corso di laurea a numero chiuso dichiarato invalido per violazione dell’anonimato.

“Siamo parte lesa, l’errore rilevato dal Consiglio di Stato  è frutto di un ordine del Miur ricevuto da tutte le commissioni italiane. Sia il ministero a farsi carico dei danni”, ha scritto l’ateneo in un comunicato stampa ufficiale diramato non appena le agenzie di stampa hanno ripreso e rilanciato la notizia pubblicata da corriere.it.

Il comunicato è stato (acriticamente) ripreso da tutti i giornali locali e la verità dei fatti è stata travisata. Le cose, infatti, non stanno per nulla come sostiene l’ateneo messinese e chi ha scritto il comunicato stampa condiviso – da quanto ha specificato l’ufficio stampa – da tutti (rettore, prorettori, alcuni di questi professori di diritto e avvocati, dirigenti generale e non) o non ha letto la sentenza o non l’ha bene compresa. E ha confuso la nullità delle prove di ammissione a Medicina tenuti in tutt’Italia il 9 settembre del 2013 e viziati per “disposizione ministeriale”(nel senso che le istruzioni date alle commissioni locali dal dirigente generale del Miur Daniele Livon sono state ritenute dagli organi di giurisdizione amministrativa lesive dell’anonimato), e i test tenuti negli anni precedenti e dichiarati nulli per violazione dell’anonimato solo a Messina, a causa di procedure di identificazione dei candidati anomale praticate solo nell’ateneo allora guidato da Franco Tomasello, di cui l’attuale rettore Navarra era il braccio destro.

Ebbene, il Consiglio di Stato ha accordato il risarcimento ai due studenti che avevano partecipato alle prove del 2008 per l’ammissione all’anno accademico 2008/2009: basta leggere la sentenza numero 2935 del 2014 dell’organo di giustizia amministrativa d’appello.

Era stata l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la Cassazione a sezioni unite in materia amministrativa, infatti, il 20 novembre 2013, ad attestare la nullità delle prove tenute all’Ateneo di Messina dal 2001 al 2010: tanto che l’ateneo mise sotto procedimento disciplinare il presidente della Commissione, costretto a dimettersi da presidente del corso di laurea.

Con la stessa sentenza l’Adunanza plenaria aveva stabilito un altro principio rivoluzionario in materia di pubblici concorsi: perché le prove siano annullate non è necessario che si scopra, per uscire dai tecnicismi giuridici, che nel viaggio dall’ateneo al Cineca a Bologna per la correzione, qualcuno potendo individuare (a causa della violazione dell’anonimato, appunto) la scheda di risposte del candidato preferito lo abbia poi davvero favorito con la correzione postuma. Basta soltanto che questa possibilità, in astratto, ci sia.

Ora, dopo che il Consiglio di Stato ha sancito il principio secondo cui “a causa delle illustrate inadempienze riscontrate nell’attività dell’amministrazione (violazione dell’anonimato), le ricorrenti sono state illegittimamente private della possibilità di iscriversi alla facoltà cui aspiravano e hanno subíto di conseguenza danni, anche economici, determinati dal ritardato ingresso nel mondo del lavoro con perdita di chance”, su tutt gli atenei di Italia potrebbero abbattersi decine di sentenze di condanna a favore dei ricorrenti bocciati al test 2013 che ancora aspettano un verdetto degli organi giurisdizionali. L’ateneo di Messina, i cui test sono stati dichiarati invalidi dal 2001 al 2010, rischia in più di pagare i risarcimenti agli studenti che avevano partecipato alle prove in questo decennio e si sono rivolti alla giustizia amministrativa ottenendo una sentenza di ammissione che comunque ha fatto perdere loro almeno un anno di studi.

 

Genovese, la protervia di un potente e il mercimonio delle funzioni pubbliche

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Si è costituito. Ha varcato il portone del carcere di Gazzi qualche ora dopo che la Camera dei deputati aveva concesso l’autorizzazione a procedere. Francantonio Genovese, l’uomo più potente di Messina, è in carcere. Il suo arresto è l’immagine di una città “corrotta”, sull’orlo del baratro, in cui l’attività imprenditoriale più in voga sono la truffa, l’evasione fiscale e contributiva.

Insieme al Supremo in carcere finiscono idealmente tutti coloro che negli anni hanno foraggiato il suo potere; hanno fatto la fila nell’anticamera della sua segreteria; si sono sottomessi ai suoi voleri in cambio di un posto di lavoro; hanno ostentato (e usato) la sua amicizia, talvolta coltivata a colpi di aperitivo; non hanno controllato e denunciato (politicamente o solo giornalisticamente) le perversioni su cui poggiava il suo potere e i suoi conflitti di interesse.

Vedere una persona entrare in carcere è un evento che intristisce e colpisce chiunque abbia un minimo di coscienza e sensibilità.  A maggior ragione se l’indagato ci entra senza aver subito un processo. Ma ciò vale sia se si tratta di un potente, che arriva al carcere in Suv accompagnato da un elegantissimo avvocato, e dovrebbe valere ancora di più quando dietro le sbarre ci finisce un immigrato, un tossicodipendente o un ladro di rame: ovvero il 90% della popolazione carceraria.

Perché il deputato del Pd è pur sempre un privilegiato.  Ha uno stuolo di avvocati a sua disposizione. E in carcere non è stato recluso in otto metri quadri insieme ad altri tre, quattro o cinque compagni di avventura, come capita a chi è accusato di reati molto meno gravi e non ha il titolo di onorevole.

Francantonio Genovese finisce in carcere non tanto e non solo perché ci sono gravi indizi di colpevolezza a  suo carico e sussistono le esigenze cautelari del pericolo di reiterazione del reato (di quelli già contestati e di altri della stessa natura).

Il deputato del Pd finisce dietro le sbarre per la sua protervia, il senso di impunità, il delirio di onnipotenza e la certezza, fondata su anni e anni di esperienza politica e di flirt con giornalisti e funzionari pubblici, di poter comprare tutti senza (il più delle volte) pagare nessuno. Sapeva di essere nel mirino della magistratura e ha continuato a fare ciò che faceva come se nulla fosse.

L’esponente politico figlio e nipote d’arte si è difeso davanti ai colleghi della Camera gridando al complotto, dicendosi vittima della persecuzione della Procura e di un Giudice per l’indagini preliminari che ha accolto la richiesta di arresto: l’unico motivo, il fumus persecutionis, che può fondare il rigetto della richiesta di autorizzazione agli arresti per un parlamentare. Il Parlamento non può sindacare la fondatezza delle esigenze cautelari, né tantomeno si può sostenere, come qualche commentatore (sprovveduto) ha fatto che poiché dal momento della richiesta di autorizzazione alla Camera al momento della decisione Genovese non è fuggito, non ha inquinato le prove e non ha commesso altri reati allora le esigenze cautelari non ci sono più. Sarebbe come dire che i parlamentari oltre che privilegiati sono sottratti alle misure cautelari.

Si. Il giudice Giovanni De Marco, se gli insegnamenti di Piero Calamandrei non fossero sconosciuti ai magistrati e alla cultura giuridica, non avrebbe mai dovuto decidere sugli arresti di Genovese e dei familiari di quest’ultimo.

La moglie di De Marco è stata assunta (insieme ad altre 15 persone) all’Ato di Messina, senza concorso e grazie ad una stabilizzazione (benedetta dall’allora sindaco Genovese) in zona Cesarini che fece gridare allo scandalo giornali locali e nazionali (e non perché se n’era avvantaggiata la moglie di un magistrato, neanche citata, salva una sola eccezione, dalle cronache). E il fratello della moglie del magistrato nel periodo delle indagini lavorava nella segreteria dell’assessore alla Formazione Mario Centorrino, uomo di Genovese.

Giovanni De Marco non avrebbe mai dovuto occuparsi del caso Formazione/Genovese e non tanto perché un giudice debba essere imparziale ma perché deve anche apparire di esserlo.Cosa sarebbe accaduto se al contrario non avesse accolto le misure cautelari prima richieste per i familiari di Genovese e poi per il deputato?  Non si sarebbe detto: ecco il solito giudice amico che protegge il potente?

Ma invece di gridare allo scandalo sui giornali, attraverso veline non firmate, perché i legali di Genovese non hanno presentato un’istanza di ricusazione di quel giudice?

La tesi di vittima che Genovese ha cercato fumosamente di veicolare, fuori dai confini della Sicilia non poteva mai fare breccia: quale collega deputato poteva credere che Genovese fosse perseguitato da un giudice non imparziale perché “suo amico”?

Il Genovese imprenditore subirà un processo e qualsiasi cittadino, specie le migliaia che l’hanno votato, deve augurarsi che sia assolto. Ma il Genovese politico ha perso ogni legittimazione a farsi portatore in futuro degli interessi collettivi.

Le carte dell’inchiesta “Corsi d’oro” mostrano che il leader politico ha asservito il potere che i cittadini gli hanno delegato per fare business privato, ha usato i soldi della formazione per comprarsi i palazzi, per ampliare i suoi possedimenti. Evidenziano che lui che fa parte di un partito che fa della lotta all’evasione fiscale uno dei cavalli di battaglia, stacca fatture di comodo per abbattere gli utili delle sue società e non pagare tasse.

Gli atti di indagine dimostrano che pretendeva di piazzare i suoi fidatissimi uomini nei punti nevralgici della macchina amministrativa o a capo degli assessorati per orientare le decisioni nel senso favorevole ai suoi personalissimi interessi. Com’è accaduto con Salvatore La Macchia, con il dirigente generale Ludovico Albert; e con l’assessore alla Formazione Mario Centorrino.

L’economista nelle interviste (finte) che ha rilasciato nei giorni scorsi ha preso le distanze da Genovese e ha difeso il suo operato di assessore giurando e spergiurando di averlo svolto in assoluta autonomia. Le risultanze delle indagini  e le intercettazioni dicono, però, altro.

 

Gugliotta alla gogna, le carte di “Corsi d’oro” smentiscono le veline al vetriolo contro il giornalista

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MESSINA.  “Giornalista al soldo di Francantonio Genovese”. Mentre alla Camera dei deputati si decide se arrestare l’uomo più potente di Messina, i media locali spostano l’attenzione dalla vicenda e danno addosso ad un giornalista, affibbiandogli un’accusa infamante. E ingiusta. Basta leggere (davvero) le carte (attività faticosa soprattutto per chi non le capisce o peggio non le vuole capire).

Non è certo Michele Schinella la persona più indicata a difendere Roberto Gugliotta, non foss’altro perché non lo saluta da tre anni e mezzo. Da quando scoprì che aveva fornito l’assist ad un ufficiale di polizia giudiziaria (suo amico) per approntare una sorta di dossier, infarcito di falsità, teso a delegittimarlo preventivamente e ad impedirgi di scrivere un pezzo in cui avrebbe raccontato che il maresciallo mentre indagava sulle vicende di una ditta si faceva assumere da una signora (che nel frattempo commetteva reati) il padre del suo nipotino: vicenda che ovviamente ha nonostante ciò raccontato sul giornale Centonove.

 

LA VERITA’ DEI FATTI

Ma in questo caso non si tratta di avere in antipatia o in simpatia, in stima o disistima Gugliotta. Si tratta di avere a cuore la verità dei fatti: obbligo giuridico oltre che etico per un giornalista, nel rispetto dei lettori.

I fatti, ovvero le intercettazioni, dicono che non è vero che “un professionista dell’informazione”, per usare le parole del giornale on line Messinaoggi, abbia chiesto soldi (un’offerta) per scrivere un articolo a favore del leader del Pd Francantonio Genovese e del cognato deputato regionale Franco Rinaldi. E’ assolutamente falso. E’ vero semmai il contrario.

C’è da domandarsi se il direttore di Messinaoggi, il giornalista professionista Davide Gambale, che nel pezzo si guarda bene dall’usare nomi e cognomi violando già solo per questo una precisa regola e gettando ombre su tutti i giornalisti messinesi, abbia mai letto le intercettazioni o l’ordinanza di misure cautelari in cui – da quanto scrive – sarebbe stata raccontata la vicenda. Pare proprio di no: nell’ordinanza di questa vicenda non c’è traccia. C’è da sperare non l’abbia fatto. E si sia fidato, invece, colpevolmente, di una fonte inattendibile, il cui scopo recondito è gettare fumo sull’inchiesta giudiziaria sulla formazione e nel contempo colpire Gugliotta, che visti gli argomenti di cui si è occupato negli anni (il giudizio sul come, spetta ai lettori), di nemici non ne ha pochi. Perché, nonostante la “prudenza” di Gambale, anche alla luce di una analoga notizia apparsa sul settimanale della città, è chiaro a tutti gli addetti ai lavori che “il professionista dell’informazione” altri non sia che il titolare di Imgpress.

Eppure, l’intercettazione dell’8 novembre 2012 tra Elena Schirò (moglie di Rinaldi e sorella della moglie di Genovese) e Gugliotta, e le intercettazioni tra la stessa Schirò e il commercialista Dario Zaccone dello stesso giorno e del 13 novembre del 2013 dicono l’esatto contrario di quanto rappresentato nell’articolo di Messinaoggi: “Corsi d’Oro. “Offerta libera per un articolo” Da una intercettazione emerge anche il nome di un professionista dell’informazione che chiedeva soldi in cambio di un servizio”.  

 

LE INTERCETTAZIONI.

Innanzitutto “l’articolo” o “il servizio” non c’entrano nulla. L’oggetto della discussione verte sulla pubblicità elettorale a favore di Franco Rinaldi che Roberto Gugliotta aveva messo sul suo sito Imgpress in occasione delle consultazioni elettorali regionali di autunno del 2012.

Elena Schirò chiama Gugliotta perché vuole pagare, dice “per motivi di rendicontazione delle spese elettorali”, e ha bisogno le venga fatta una fattura. Nell’occasione, lo ringrazia pure per un articolo (“mi è piaciuto molto”) che il giornalista aveva scritto qualche giorno prima. Articolo che non c’entra nulla con la fattura. Gugliotta rifiuta il pagamento dicendo che è un omaggio e che lui è libero sul suo giornale di offrire pubblicità gratis. Dietro le insistenze di Elena Schirò perché venga staccata la fattura, Gugliotta propone che ne venga fatta una di un euro, un prezzo simbolico. Alla fine, grazie all’intercessione di Dario Zaccone, commercialista del gruppo Genovese e dello stesso Gugliotta, ci si accorda per una fattura di 50 euro. Elena Schirò, al telefono qualche giorno dopo (ore 20 e 18 del 13 novembre del 2011) con Dario Zaccone non si lamenta (come scrive Messinaoggi) delle pressioni di Gugliotta, si lamenta invece che Gugliottta non vuole essere pagato. “Sai questa è stata, la scusa per noi, abbiamo detto che non potevamo farlo così gratis perché la dovevamo rendicontare”, dice Elena Schirò. “Però io non… non volevo! Perché mi fa paura il suo modo di agire, perché poi… siccome è una mina vagante, se questo domani si sveglia che non so che cosa sogna…”. Dario Zaccone, la tranquillizza: “Si però, se tu… se tu noti… si è notevolmente tranquillizzato, quindi non ha più…”.  Gugliotta in passato è stato autore del libro “Franzantonio, il principe dei conflitti”, non proprio gradito alla famiglia Genovese, Rinaldi, Schirò e Franza, quest’ultima in affari con Genovese.

 

GENEROSITA’ INTERESSATA… AL CUS.

In verità, la generosità di Roberto Gugliotta non è del tutto fine a se stessa: Gugliotta all’epoca era impegnato anima e corpo (come allenatore delle giovanili retribuito 800 euro al mese per 10 mesi all’anno) con il Cus Messina di Basket, squadra approdata nel 2013 in Serie B (prima di essere travolta dal fallimento del Cus). Come emerge dalle stesse intercettazioni cercava di coinvolgere la famiglia Schirò-Genovese perché aiutasse il progetto di sviluppo della pallacanestro, cosa che ha fatto anche con altri politici ed imprenditori di Messina e provincia e con l’ex rettore Franco Tomasello.

Certo, è tutt’altro che regolare che un giornalista usi il suo potere per blandire o sottoporre comunque a pressioni il potente di turno (benché nel caso di specie non per un tornaconto direttamente personale).

Ma Gugliotta non è certo l’unico e ha almeno a sua parziale giustificazione il fatto che da tempo esercitava il mestiere di giornalista sporadicamente e si era dedicato giorno e notte alla passione sportiva.

LO STATO DELL’INFORMAZIONE.

E’ davvero un peccato che Francantonio Genovese nel periodo delle indagini sulla Formazione (2011/2013) non fosse intercettato. I lettori (forse) avrebbero potuto avere la prova provata di come una parte dei giornalisti messinesi, al di là delle finte, siano al servizio (per motivi di convenienza) dei potenti. Giornalisti di nome ma non di fatto.

Non che servano le intercettazioni.

Basta osservare quelli che la mattina fanno gli addetti stampa di un politico, il pomeriggio scrivono su un giornale e la sera fanno gli opinionisti o i conduttori in televisione. Magari per censurare i conflitti di interesse. Basta valutare coloro che in corsa per un posto di insegnamento all’Università o al Policlinico scrivono articoli sgraditi (o graditi) ai vertici degli stessi enti. O, per contro, si avventurano in sperticati elogi a favore di politici che hanno avuto il merito di affidare loro incarichi di ufficio stampa a carico delle casse pubbliche. Basta guardare, ancora, ai giornalisti che interloquiscono direttamente con politici e imprenditori per ottenere contratti di pubblicità. E’ sufficiente “ammirare” quei giornalisti che dopo avere ricevuto un “no” all’offerta di pubblicità si scatenano pretestuosamente in articoli di attacco agli imprenditori o politici colpevoli di non aver accondisceso alle loro richieste. E poi ci si lamenta che i giornali perdono lettori e quest’ultimi non vogliano sborsare nemmeno un euro per informarsi.