Genovese, la protervia di un potente e il mercimonio delle funzioni pubbliche

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Si è costituito. Ha varcato il portone del carcere di Gazzi qualche ora dopo che la Camera dei deputati aveva concesso l’autorizzazione a procedere. Francantonio Genovese, l’uomo più potente di Messina, è in carcere. Il suo arresto è l’immagine di una città “corrotta”, sull’orlo del baratro, in cui l’attività imprenditoriale più in voga sono la truffa, l’evasione fiscale e contributiva.

Insieme al Supremo in carcere finiscono idealmente tutti coloro che negli anni hanno foraggiato il suo potere; hanno fatto la fila nell’anticamera della sua segreteria; si sono sottomessi ai suoi voleri in cambio di un posto di lavoro; hanno ostentato (e usato) la sua amicizia, talvolta coltivata a colpi di aperitivo; non hanno controllato e denunciato (politicamente o solo giornalisticamente) le perversioni su cui poggiava il suo potere e i suoi conflitti di interesse.

Vedere una persona entrare in carcere è un evento che intristisce e colpisce chiunque abbia un minimo di coscienza e sensibilità.  A maggior ragione se l’indagato ci entra senza aver subito un processo. Ma ciò vale sia se si tratta di un potente, che arriva al carcere in Suv accompagnato da un elegantissimo avvocato, e dovrebbe valere ancora di più quando dietro le sbarre ci finisce un immigrato, un tossicodipendente o un ladro di rame: ovvero il 90% della popolazione carceraria.

Perché il deputato del Pd è pur sempre un privilegiato.  Ha uno stuolo di avvocati a sua disposizione. E in carcere non è stato recluso in otto metri quadri insieme ad altri tre, quattro o cinque compagni di avventura, come capita a chi è accusato di reati molto meno gravi e non ha il titolo di onorevole.

Francantonio Genovese finisce in carcere non tanto e non solo perché ci sono gravi indizi di colpevolezza a  suo carico e sussistono le esigenze cautelari del pericolo di reiterazione del reato (di quelli già contestati e di altri della stessa natura).

Il deputato del Pd finisce dietro le sbarre per la sua protervia, il senso di impunità, il delirio di onnipotenza e la certezza, fondata su anni e anni di esperienza politica e di flirt con giornalisti e funzionari pubblici, di poter comprare tutti senza (il più delle volte) pagare nessuno. Sapeva di essere nel mirino della magistratura e ha continuato a fare ciò che faceva come se nulla fosse.

L’esponente politico figlio e nipote d’arte si è difeso davanti ai colleghi della Camera gridando al complotto, dicendosi vittima della persecuzione della Procura e di un Giudice per l’indagini preliminari che ha accolto la richiesta di arresto: l’unico motivo, il fumus persecutionis, che può fondare il rigetto della richiesta di autorizzazione agli arresti per un parlamentare. Il Parlamento non può sindacare la fondatezza delle esigenze cautelari, né tantomeno si può sostenere, come qualche commentatore (sprovveduto) ha fatto che poiché dal momento della richiesta di autorizzazione alla Camera al momento della decisione Genovese non è fuggito, non ha inquinato le prove e non ha commesso altri reati allora le esigenze cautelari non ci sono più. Sarebbe come dire che i parlamentari oltre che privilegiati sono sottratti alle misure cautelari.

Si. Il giudice Giovanni De Marco, se gli insegnamenti di Piero Calamandrei non fossero sconosciuti ai magistrati e alla cultura giuridica, non avrebbe mai dovuto decidere sugli arresti di Genovese e dei familiari di quest’ultimo.

La moglie di De Marco è stata assunta (insieme ad altre 15 persone) all’Ato di Messina, senza concorso e grazie ad una stabilizzazione (benedetta dall’allora sindaco Genovese) in zona Cesarini che fece gridare allo scandalo giornali locali e nazionali (e non perché se n’era avvantaggiata la moglie di un magistrato, neanche citata, salva una sola eccezione, dalle cronache). E il fratello della moglie del magistrato nel periodo delle indagini lavorava nella segreteria dell’assessore alla Formazione Mario Centorrino, uomo di Genovese.

Giovanni De Marco non avrebbe mai dovuto occuparsi del caso Formazione/Genovese e non tanto perché un giudice debba essere imparziale ma perché deve anche apparire di esserlo.Cosa sarebbe accaduto se al contrario non avesse accolto le misure cautelari prima richieste per i familiari di Genovese e poi per il deputato?  Non si sarebbe detto: ecco il solito giudice amico che protegge il potente?

Ma invece di gridare allo scandalo sui giornali, attraverso veline non firmate, perché i legali di Genovese non hanno presentato un’istanza di ricusazione di quel giudice?

La tesi di vittima che Genovese ha cercato fumosamente di veicolare, fuori dai confini della Sicilia non poteva mai fare breccia: quale collega deputato poteva credere che Genovese fosse perseguitato da un giudice non imparziale perché “suo amico”?

Il Genovese imprenditore subirà un processo e qualsiasi cittadino, specie le migliaia che l’hanno votato, deve augurarsi che sia assolto. Ma il Genovese politico ha perso ogni legittimazione a farsi portatore in futuro degli interessi collettivi.

Le carte dell’inchiesta “Corsi d’oro” mostrano che il leader politico ha asservito il potere che i cittadini gli hanno delegato per fare business privato, ha usato i soldi della formazione per comprarsi i palazzi, per ampliare i suoi possedimenti. Evidenziano che lui che fa parte di un partito che fa della lotta all’evasione fiscale uno dei cavalli di battaglia, stacca fatture di comodo per abbattere gli utili delle sue società e non pagare tasse.

Gli atti di indagine dimostrano che pretendeva di piazzare i suoi fidatissimi uomini nei punti nevralgici della macchina amministrativa o a capo degli assessorati per orientare le decisioni nel senso favorevole ai suoi personalissimi interessi. Com’è accaduto con Salvatore La Macchia, con il dirigente generale Ludovico Albert; e con l’assessore alla Formazione Mario Centorrino.

L’economista nelle interviste (finte) che ha rilasciato nei giorni scorsi ha preso le distanze da Genovese e ha difeso il suo operato di assessore giurando e spergiurando di averlo svolto in assoluta autonomia. Le risultanze delle indagini  e le intercettazioni dicono, però, altro.

 

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