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Aula di giustizia? Non solo, anche sala rinfresco. Al Tribunale di Messina si susseguono le feste di pensionamento in orario di lavoro. La segnalazione del giudice Massimiliano Micali ai Presidenti del Tribunale e della Corte d’appello

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L’udienza era stata fissata per le ore 11 del 16 aprile del 2018 nell’aula della Corte d’assise. Il processo era quello denominato “Dominio”, che vede alla sbarra i presunti affiliati al clan mafioso capeggiato da Domenico La Valle.

Gli avvocati difensori, gli imputati non detenuti e i loro parenti: tutti all’ora prefissata si stavano avvicinando all’aula.

A palazzo Piacentini erano stati tradotti pure gli imputati detenuti e quelli ai domiciliari.

D’improvviso è arrivato il contrordine, concretato in un avviso apposto alla porta dell’aula: “L’udienza è stata spostata alle ore 14 e 30”.

Il motivo non è stato spiegato.

Ma è bastato aprire la porta per vedere che l’aula era impegnata per un rinfresco.

Una dipendente è andata in pensione e i colleghi sono stati chiamati a condividere il momento con rustici, dolci e bevande.

Alle 14 e 30  i segni della festa erano evidenti: pezzi di pitone e vettovaglie per terra, briciole sui tavoli.

Insomma, i normali resti di una festa, tenuta non in un sala di un ristorante o in un luogo privato ma in un’aula di Giustizia.

Il presidente del Tribunale collegiale Massimiliano Micali non l’ha presa per niente bene.

All’inizio dell’udienza ha fatto mettere a verbale che “l’aula era stata lasciata in condizioni indecorose sotto il profilo igienico, le quali avrebbero imposto al presidente di ordinare il trasferimento del processo in altra aula se non fosse stato che questa è l’unica dove ci sono le gabbie per gli imputati detenuti”.

Micali ha disposto la trasmissione dello stesso verbale al presidente del Tribunale, Antonio Totaro, e della Corte d’appello, Michele Galluccio.

Ma l’iniziativa del giudice è servita a nulla.

Nella mattinata di ieri 8 maggio si è assistito alla replica.

L’ aula dedicata ai festeggiamenti era diversa, la C, quella posta a destra subito dopo l’atrio. L’orario sempre quello d’ufficio, le 13 circa.

Nutrita la presenza di lavoratori, che hanno sospeso per l’occasione la loro attività.

Il tavolo riservato di solito agli avvocati è stato coperto da una tovaglia e sopra sono state sistemate le vivande.

Mentre si festeggiava, nell’aula di fronte, la A, il giudice onorario Maria Grazia Mandanici ha sospeso l’attività processuale per una decina di minuti: “Facciamo una breve pausa”, ha detto..

Gli avvocati e le parti hanno atteso la ripresa e l’assistente del giudice si è spostata a festeggiare nell’aula di fronte.

“Lei non può fare foto. Sta violando la privacy”, arringa una delle dipendenti festaiole che si accorge che qualcuno sta immortalando l’allegria del momento.

Mette la mano sulla fotocamera e chiede: “Lei chi è? Non è autorizzato. Le faccio sequestrare il cellulare dai carabinieri”, afferma.

“Stiamo festeggiando il pensionamento di due colleghe. Che c’è di male?”, aggiunge qualche secondo dopo un’altra collega.

Un carabiniere in servizio a Palazzo Piacentini spiega: “Queste feste di pensionamento sono usuali. Noi sappiamo siano autorizzate”.

 

Gettonopoli, pesanti condanne in primo grado per i sedici consiglieri comunali. Resiste l’accusa di falso e truffa, cade l’abuso d’ufficio contestato a sei di loro. Che così dribblano la legge “Severino” e mantengono lo scranno a palazzo Zanca

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Il Tribunale di Messina

Il Tribunale di Messina

 

Resiste al vaglio del giudizio di primo grado l’accusa di falso e truffa, contestata ai 16 consiglieri comunali imputati nel processo Gettonopoli, che rimediano pesanti condanne.

Ma cade per sei di loro l’accusa di abuso d’ufficio (contestata insieme a quella di falso e truffa) che avrebbe portato in base alla legge Severino alla sospensione della carica e alla sostituzione con i primi dei non eletti.

E’ questa la sintesi della sentenza emessa dopo 9 ore di camera di consiglio dal Tribunale presieduto da Silvana Grasso alle 22 e 30 di questa sera.

 

I consiglieri erano accusati di truffa e falso per aver incassato i gettoni di presenza per un massimo di 2 mila euro mensili, apponendo una firma di presenza alle sedute della commissioni consiliari e andando via dopo pochi minuti (se non secondi).

Il risultato – secondo l’accusa – è stato conseguito ingannando (elemento fondamentale della truffa) il segretario generale Antonino Le Donne, ovvero colui che materialmente liquidava i gettoni.

Quest’ultimo però ha sempre sostenuto anche in lettere inviate alla regione Sicilia, che per legge i gettoni di presenza spettassero ai consiglieri anche nei casi finiti all’attenzione della Procura.

Le motivazioni diranno come il Tribunale ha sanato la palese contraddizione che sembrava  contrassegnare il capo di imputazione di truffa e falso, e come sia possibile considerare ingannato un funzionario pubblico che invece riteneva la condotta dei consiglieri fosse legittima (vedi commento sul punto).

I consiglieri accusati anche di abuso d’ufficio e a rischio sospensione erano Piero Adamo, Giovanna Crifò, Carlo Abate, Daniele Zuccarello, Benedetto Vaccarino, Nicola Cucinotta.

Ai sei politici era contestato (in aggiunta al falso e alla truffa) di avere partecipato senza delega scritta del capo gruppo a sedute di commissioni diverse da quelle cui appartenevano, incassando i relativi gettoni di presenza.

Il regolamento comunale in effetti richiede la delega scritta, ma i difensori hanno spiegato e dimostrato con testimoni che per prassi il capogruppo dà la delega oralmente, ratificando formalmente la sostituzione con l’approvazione dei verbali in cui è stato sostituito alla seduta successiva.

L’argomentazione – da ciò che è possibile arguire in base al dispositivo – ha fatto breccia.

Il Tribunale ha condannato (per falso) pure Nora Scuderi e Libero Gioveni, per i quali il pm Francesco Massara aveva domandato l’assoluzione.

Nel dettaglio, Giovanna Crifò è stata condannata anni 4 e mesi 10; Pietro Adamo e Cucinotta Nicola a 4 anni e 8 mesi; Carlo Abate, Benedetto Vaccarino e Daniele Zuccarello sono stati condannati a 4 anni e sei mesi; Paolo David e Fabrizio Sottile hanno rimediato 4 anni e tre mesi; Santi Sorrenti, Andrea Consolo, Pio Amadeo, Angelo Burrascano, Antonino Carreri, Nicola Crisafi e Carmelina David a 4 anni di reclusione; infine, Libero Gioveni e Nora Scuderi sono stati condannati a tre anni di reclusione (in realtà, nel corso della lettura del dispositivo il presidente Grasso ha sancito tre anni ma nel dispositivo scritto sono indicati tre mesi di reclusione).

Nell’inchiesta della Procura erano finiti tutti i 40 consiglieri comunali (tranne la presidente del Consiglio Emilia Barrile) che siedono a Palazzo Zanca.

Per 24 di loro era arrivata l’archiviazione sulla base della principio che erano stati presenti alle sedute delle commissioni più di tre minuti, limite temporale considerato – non si è capito in base a quale principio di diritto – elemento discriminatorio per distinguere i consiglieri cattivissimi da quelli cattivi, ma non tanto.

IL COMMENTO: Gettonopoli, quando il processo politico ed etico si fa in un’aula di Tribunale. I consiglieri comunali possono aver ingannato e truffato chi riteneva che la loro condotta fosse lecita?

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gettonopoli
Non era mai capitato, non negli ultimi venti anni, che i consiglieri del Comune di Messina godessero di così poca stima tra i cittadini.

La diretta televisiva dei lavori del Consiglio comunale chiamato alcuni mesi fa a votare sulla sfiducia al sindaco Renato Accorinti, considerato il livello degli interventi (e degli show), che in realtà si potrebbe ammirare ogni giorno facendo una capatina a Palazzo Zanca, l’ha ridotta a zero.

Prima ancora, era stata un’inchiesta della procura di Messina, sfociata in un processo penale ormai alla battute conclusive, ad additarli all’opinione pubblica pure come dei ladri di risorse pubbliche (o meglio dei truffatori): secondo l’accusa incassavano gettoni di presenza per un massimo di 2 mila euro mensili, apponendo una firma di presenza alle sedute della commissioni consiliari e andando via dopo pochi minuti (se non secondi).

Mai inchiesta ebbe tanto clamore mediatico. Mai indignazione della popolazione fu più profonda. Mai si sviluppò tra i cittadini di Messina tanta rabbia giustizialista.

Tuttavia, basta dare una lettura alle carte dell’inchiesta e del processo, al di là delle pesantissime condanne chieste dal pm Francesco Massar, per capire che l’impianto accusatorio non è così solido.

I consiglieri sono eticamente colpevoli. Sono politicamente colpevoli, visto che gran parte di loro ha partecipato alle elezioni al solo scopo di procacciarsi un emolumento mensile sicuro per 5 anni: infatti, si recava a palazzo Zanca a partecipare a commissioni convocate esclusivamente per discutere il nulla, il vero scandalo della vicenda.

Ma la responsabilità penale è un’altra cosa. Si fonda su norme determinate, che disegnano fattispecie precise, entro cui vanno sovrapposti i fatti accertati come commessi da ciascun imputato.

Senza entrare troppo nei tecnicismi giuridici, nella sostanza, i 16 consiglieri comunali sono accusati di aver ingannato ripetutamente il segretario generale Antonino Le Donne: andavano via pochi minuti dopo la firma o firmavano utilmente a sedute che non si tenevano per mancanza del numero legale e così incassavano il gettone di presenza liquidato proprio dal segretario generale Le Donne.

Ora il punto è che Le Donne ha sempre sostenuto, persino in atti scritti diretti alla regione Sicilia, che ciò che facevano i consiglieri era perfettamente in linea con la legge, o almeno era in linea con l’interpretazione che non poteva  non essere data alla lacunosa legge all’epoca vigente, difatti modificata dall’Ars qualche mese dopo.

Per Le Donne, infatti, la legge regionale e il regolamento comunale consentivano di considerare effettivamente presente, e quindi avente diritto al gettone, sia chi apponeva la firma a sedute di commissione che poi non si tenevano, sia chi firnava e dopo pochisimi minuti andava via.

Tant’è che gli stessi gettoni di presenza nel medesimo modo che forma oggetto delle imputazioni, l’hanno percepiti i consiglieri delle passate legislature con il consapevole avallo dei Segretari generali in carica all’epoca.

Può essere ritenuta “indotta in errore con artifizi e raggiri” (sono questi i requisiti essenziali perché si possa configurare il reato di truffa)  e quindi vittima, una persona che dal canto suo, consapevolmente, ritiene che la condotta dell’ipotetico truffatore è legittima?

Con questa questione di diritto dovrà fare i conti il Tribunale presieduto da Silvana Grasso, che nei prossimi giorni deciderà se condannare o assolvere i 16 consiglieri.

Un altro gruppo di colleghi, praticamente tutti gli altri consiglieri, finiti anch’essi sotto inchiesta per gli stessi motivi, sono stati prosciolti (archiviati) dal Giudice per le indagini preliminari, Salvatore Mastroeni su richiesta del procuratore aggiunto Vincenzo Barbaro e del sostituto Diego Capece Minutolo.

I due sostituti hanno ritenuto  che questi consiglieri si erano distinti dagli altri, quelli più cattivi, perché in commissione c’erano stati qualche secondo in più, comunque più di tre minuti, considerata la soglia limite dai due magistrati, non si è capito, però, in base a quale principio giuridico.

Il Gip Mastroeni, dal canto suo, si è prodotto in un lunghissimo provvedimento di 28 pagine, intriso di valutazioni politiche ed etiche e di dotte citazioni.

Al termine della lettura, ripetuta varie volte, chi si è cimentato (sicuramente per sue carenze) non ha compreso però quali fossero i principi giuridici su cui il provvedimento di archiviazione è fondato.

Gran parte dei consiglieri comunali di Messina non merita di sedere sullo scranno del Consiglio comunale di una qualsiasi città di un posto civile: è condivisibile.

Ma bisognerebbe interrogarsi del perché i cittadini di Messina prima li votano e poi sperano che a farli fuori sia la magistratura.

E’ la storia giudiziaria e politica del paese a dirlo.

Ogni volta che si delega alla magistratura di fare pulizia tra la classe dirigente, il rimedio si rivela peggiore del male e alla mala politica, nella migliore delle ipotesi, si sostituisce il vuoto pneumatico. 

IL CORSIVO: La consigliera Sindoni grida al complotto e si vanta di scoprire e denunciare il malaffare, ma sulla sua ineleggibilità scambia lucciole per lanterne. E il suo legale Antonio Catalioto le dà una mano

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Donatella Sindoni e Santi Zuccarello

Donatella Sindoni e Santi Zuccarello

L’ineleggibilità di Donatella Sindoni? E’ frutto di un complotto teso a zittire una consigliera comunale che dà troppo fastidio. Di più, è opera dei suoi avversari politici all’interno del Pd (e del primo dei non eletti Giovanni Cocivera ridestatosi  a distanza di due anni dalle elezioni), che per toglierla di mezzo usano “comportamenti discutibili”. A sostenerlo è la stessa biologa prestata alla politica, in una nota inviata a tutta la stampa dal collega Santi Zuccarello.

I comportamenti “discutibili” – pare di capire – coinvolgono come attore il giornalista autore del servizio “ad orologeria” – per usare le parole della consigliera del gruppo Missione Messina – con cui è stato sollevato il tema della sua ineleggibilità (vedi articolo), inducendo Cocivera a chiedere al presidente del Consiglio comunale di verificare se quanto raccontato nell’articolo sia vero.

Volendo semplificare, secondo la consigliera il giornalista è stato imbeccato e ha scritto per fare una cortesia a suoi avversari: come se per chiedere la decadenza ci fosse bisogno di un articolo di giornale.

Simile insinuazione, perché di questo di tratta, aggravata dall’essere espressa in maniera indiretta e subdola, è smentita dalla logica e non meriterebbe neppure un rigo di commento, tanto è penosa.

Ma poiché più che il giornalista chiama in causa l’intera professione giornalistica (o quel che ne rimane) qualche rigo è bene sprecarlo. Almeno per rassicurare e i lettori.

Donatella Sindoni e i signori che la (mal) consigliano possono stare tranquilli.

L’autore del servizio indigesto non conosce le dinamiche interne al Pd; non è informato dei giochetti  di corrente; non frequenta nessun esponente politico (di nessuna formazione); non ha nemmeno i loro numeri di cellulare. Non l’ha mai avuto neppure del signore che sul Pd ha regnato incontrastato per un decennio, nella cui segreteria non ha mai fatto anticamera. Non sapeva neppure chi si sarebbe avvantaggiato dell’ eventuale decadenza della Sindoni. Non ha mai avuto rapporti di nessun tipo, né diretti né indiretti, con Giovanni Cocivera, che per puro caso ha incrociato per qualche secondo a Palazzo Zanca, l’ultima volta non meno di 4 anni fa.

Si può capire che tutto questo, visti gli esempi mirabili di giornalismo che ogni giorno toccano con mano, per la consigliera comunale e per i suoi accoliti, sia molto difficile da credere. Ma, purtroppo per loro, è la pura e semplice verità.

Il giornalista aveva avuto l’intuizione dell’ineleggibilità al momento delle amministrative ma non fu lui ad occuparsene per il giornale per cui scriveva e quindi non approfondì la vicenda; gli tornò in mente occupandosi del contenzioso tra la Regione e i laboratori di analisi; controllò l’intuizione almeno 8 mesi fa e, libero da mesi da impegni di lavoratore dipendente, l’ha scritta sul suo blog 10 dieci giorni fa, giusto perché è riuscito a concentrarsi per due giornate di fila. Con un unico obiettivo, il solo che ha sempre avuto: informare i pochissimi che lo leggono.

Donatella Sindoni grida ai complotti e perde tempo in vacue elucubrazioni, pensando così di eludere la sostanza del tema che rimane sul tappetto.

Era o non era ineleggibile?

La biologa si dice serena perché il suo legale le ha detto che “era perfettamente eleggibile”.

Chi è il suo legale? Lei non lo vuole dire, ma scoprirlo è un gioco da ragazzi: Antonio Catalioto, l’avvocato che sollevò con successo l’illegittimità costituzionale del cumulo di incarichi di sindaco e deputato regionale di Giuseppe Buzzanca. 

Più precisamente, la Sindoni scrive che la norma ostativa alla sua elezione è stata dichiarata incostituzionale, quindi non esiste nell’ordinamento giuridico.

Se è così, dunque, il giornalista ha preso una cantonata e il problema è risolto. Di cosa si deve ancora discutere?

Fatta da chi si vanta di andare spesso in Procura (in compagnia del collega Zuccarello) a denunciare il malaffare, questa affermazione preoccupa. E non poco.

Leggere e comprendere una norma e, soprattutto, verificare se la Corte costituzionale l’abbia annullata per un esponente politico normodotato e abituato come la Sindoni a studiare atti amministrativi con tale perizia da trovarvi il marcio, non dovrebbe essere così difficile.

Eppure, la Sindoni non è riuscita nell’impresa di fare questa cosa semplicissima (a dispetto della straordinaria attività ispettiva quotidiana). E non ci sono riusciti neppure i giornalisti (o meglio, addetti stampa) che hanno portato-voce a simile sciocchezza senza controllarne la fondatezza, come pure richiede (rebbe) la legge professionale.

La norma della legge regionale 31 del 1986 (articolo 9), che stabilisce “l’ineleggibilità del rappresentate legale della struttura (non della responsabile, come scrive la Sindoni) convenzionata con l’Asp” è assolutamente vigente come un qualunque studente delle scuole medie può verificare (vedi norma).

Non c’è stata nessuna sentenza della Corte costituzionale che l’abbia annullata.

Antonio Catalioto, invece, da quanto riferisce lo stesso avvocato telefonicamente, ha tranquillizzato la Sindoni con argomentazioni diverse. Ad essere annullata nel 2009 dalla Corte Costituzionale è stata la norma nazionale, recepita integralmente da quella regionale; dunque, quest’ultima, egualmente in contrasto con la Carta costituzionale, a cascata – secondo il legale – finirebbe per essere caducata. Non solo: la norma, emanata negli anni 80′, quando i Consigli comunali nominavano i componenti del comitato di gestione delle Ausl, avendo come ratio evitare i conflitti di interesse in capo ai consiglieri/titolari di strutture sanitarie convenzionati con le stesse aziende sanitarie,  non ha più ragione d’essere da quando quest’ultime hanno cambiato forma giuridica e nulla hanno a che fare con i Comuni.

Tuttavia, se la tesi tranquillizzante è questa, la Sindoni ha molto da agitarsi.

La norma nazionale (articolo 60,co 1,n°9 Testo unico Enti locali ) che disciplina l’ineleggibilità dei consiglieri comunali nel resto d’Italia, infatti, è perfettamente vigente.

Una pronuncia della Corte costituzionale, in effetti, nel 2009 c’è stata. La sentenza numero 27 , però, ha soltanto dichiarato la norma nazionale (articolo 60, appunto) incostituzionale nella parte in cui era prevista l’ineleggibilità anche “del direttore sanitario delle strutture sanitarie convenzionate con l’Asp”. Causa di ineleggibilità questa, che la norma regionale mai ha previsto.

Ma c’è di più. Secondo l’ultima giurisprudenza della Cassazione la ratio della norma non è quella declinata dal legale Catalioto. Come scrivono gli ermellini nella sentenza 13878 del 2001, che ha ritenuto legittima la decadenza del primo degli eletti al Consiglio del comune di Guidonia Montecelio titolare di 4 laboratori di analisi convenzionati, la ratio è ” la captatio voti da parte del titolare di strutture private, che la condizione di ineleggibilità in esame tende ad evitare”. Scrivono ancora i giudici, rendendo ancora più fragile la tesi del legale della Sindoni: “(….) è stato del resto già sottolineato come l’ineleggibilità dei rappresentanti delle strutture private convenzionate trovi precipua ragione nel fatto in sè della operatività territoriale della concessione, in correlazione alla operatività “locale” della struttura sanitaria (che è rimasta, a sua volta, immutata anche nel quadro della nuova organizzazione delle U.S.L., che le ha convertite in aziende che agiscono come entità strumentali della Regione (…)”.

Donatella Sindoni era azionista di maggioranza (95% delle quote), legale rappresentante e direttore del laboratorio di analisi “Studio diagnostico Sindoni di Donatella Sindoni Snc” convenzionato con l’Asp 5. E non solo nel 2013, al momento dell’ultima tornata elettorale, ma anche tra il 2005 e il 2008, quando occupò la poltrona a palazzo Zanca benché fosse egualmente ineleggibile.

Forse la Sindoni ha fatto confusione, forse ha fatto confusione il suo legale. Quello che è certo è che i cittadini, da coloro che hanno eletto e retribuiscono, più che denunce in Procura, conferenze e comunicati stampa veicolati acriticamente da (pseudo) giornalisti più o meno amici e videoreportage populistici, si aspettano fatti concreti e comportamenti coerenti.   

“Fogna ex Gil”, il fallimento di Accorinti. Da docente di educazione fisica inscenava proteste; da sindaco e assessore allo Sport non garantisce il minimo dell’igiene nell’impianto sportivo comunale

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Renato Accorinti

Renato Accorinti appena eletto sindaco di Messina

E’ l’unico impianto sportivo pubblico del centro città e per entrarvi si paga. Nell’Ex Gil di Messina Renato Accorinti ha trascorso gran parte delle giornate degli ultimi venti anni: al mattino da insegnante della Scuola Media “Drago”; al pomeriggio e alla sera allenando alcuni giovani della sua società sportiva.

Il campo intitolato a Salvo Santamaria è stato anche la palestra politica di Accorinti. Il primo dicembre del 2010 si mise a capo di una clamorosa sommossa. L’allora amministrazione guidata da Giuseppe Buzzanca, che si tenne anche la delega allo Sport e aveva come dirigente al ramo Salvatore De Francesco, decise di far pagare per entrare. “E’ una vergogna, non c’è un minimo di igiene e vogliono che si paghi. Entriamo tutti, devono andare in galera”, protestò il docente di educazione fisica. Intervennero i carabinieri.

 

Quattro anni dopo si continua a pagare e le condizioni igieniche sono, se possibile, peggiorate, come mostrano le immagini e raccontano i testimoni. Nel frattempo, il 24 giugno del 2014, Accorinti è diventato sindaco della città e tenendosi la delega all Sport e ha come dirigente al ramo De Francesco, esattamente come Buzzanca. Ed esattamente come Buzzanza rimane sordo alle proteste di tutti gli sportivi che nella sua elezione avevano visto l’occasione per migliorare gli impianti cittadini e renderli fruibili a tutti.

Tra questi Santino Giacobbe, presidente della società sportiva “Podistica”, che nonostante l’amarezza e la delusione ha un moto di pudore quando deve puntare l’indice contro Accorinti, con cui ha condiviso la stessa passione per una vita.

Nel servizio video il fallimento di Accorinti nel campo di atletica che prima dell’insediamento a Palazzo Zanca era la sua seconda casa. La replica del sindaco sarebbe stata di prammatica giornalistica, ma le varie sollecitazioni alla sua segretaria non hanno sortito alcun effetto.

 

Emergenza pulci al Policlinico. Il manager Marco Restuccia, dal primo luglio scorso al timone dell’azienda, rassicura: “Situazione sotto controllo”

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MESSINA. Gli infermieri le hanno notate nei tunnel mentre trasportavano i pazienti da un reparto a un altro; gli addetti alla Farmacia se li sono ritrovati sul camice; gli operatori dell’archivio delle cartelle cliniche di Terapia intensiva neonatale sono corsi via non appena hanno aperto la porta e ne hanno visto in quantità definita “notevole”. Dopo le larve di mosca spuntate dalle narici di un degente ricoverato in Rianimazione e l’acqua inquinata da un batterio killer, al Policlinico Universitario di Messina è la volta delle pulci. La diffusa presenza dei parassiti, portatori di virus e batteri, segnalata da più parti, ha costretto i vertici dell’azienda universitaria a misure di emergenza. Al termine di un tavolo tecnico convocato d’urgenza si è deciso di chiudere tutti i percorsi sotterranei interni che collegano gli 11 padiglioni e da cui sino a qualche minuto prima che scattasse l’allarme passavano medici, pazienti, vivande e vestiario, e di avviare la disinfestazione straordinaria ad opera dalla ditta titolare dell’appalto, la cui attività periodica avrebbe dovuto prevenire situazioni di questo tipo. Read more

Tir in città, l’inutile sceneggiata del sindaco Accorinti, sceriffo per far rispettare un’ordinanza nel fattempo divenuta carta straccia

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“Non sono io, sono il diritto”. Renato Accorinti, il sindaco di Messina, indosso la fascia tricolore, ha fermato i 30 Tir che mercoledì 23 luglio erano appena sbarcati dalla Cartour proveniente da Salerno sul molo Norimberga  con le mani. E con la (pre)potenza di un sindaco che si dice pacifista, ormai abituato a fare finta di risolvere i problemi della città con inutili sceneggiate, a uso e consumo delle telecamere che gonfiano ancora di più il suo già esorbitante ego. Li ha bloccati per tre ore, sotto il sole, sul cavalcavia, all’imbocco di via La Farina, inibita ai Tir in forza di un’ordinanza in vigore da lunedì e sospesa automaticamente da un ricorso giunto al protocollo di Palazzo Zanca poco prima delle 13, mentre Accorinti altercava con gli autotrasportatori. Nel frattempo, si è prodotto in varie interviste. Non senza compiacersi di quanto potere ha adesso da  sindaco rispetto a quando faceva il contestatore. Domanda: ma se un cittadino normale, facciamo un nipote di Renato Accorinti, vìola un divieto d’accesso e viene beccato dalla polizia che succede? Gli si fa la multa, prevista dalla legge, che gli viene contestata sul posto oppure per posta e viene lasciato libero di tornare velocemente a casa dove ci sono la mamma, i figli, gli amici ad aspettarlo. Com’ era accaduto lunedì, presente solo la polizia municipale e assente Accorinti, ai camionisti che avevano violato l’ordinanza. L’ordinamento non prevede sanzione ulteriore. Se invece (il nipote di Accorinti) fosse pure tenuto bloccato dalla polizia per tre ore, tutti gli attivisti attenti ai diritti umani griderebbero indignati allo scandalo e invocherebbero l’intervento della Procura. Se non del capo dello Stato. Accorinti, in versione sceriffo, ha fatto esattamente ciò che hanno fatto gli ipotetici poliziotti. Invece dell’intervento della Procura  si è guadagnato la ribalta delle cronache, ciò che più ama. Ma non ha certo risolto il problema. I camionisti hanno perso qualche ora di lavoro ma sono passati comunque dal centro della città. Dove ogni giorno ciascuno può osservare il passaggio continuo di Tir. Da sempre. Anche da quando (era il 20 ottobre 2013) lo stesso Accorinti ha adottato un provvedimento , accompagnato da proclami ed interviste, per inibire il passaggio in città (non dei trenta della Cartoor) ma delle centinaia di Tir che ogni giorno si imbarcano e sbarcano dalla Rada San Francesco o (in misura molto minore) dal porto storico, concentrandoli sul ballerino porto di Tremestieri. Un provvedimento vanificato in partenza dalla previsione di deroghe affidate non alla polizia municipale ma alla stessa società che si avvantaggia economicamente dal continuare a far convergere il bastioni della strada nel centro città. Il sindaco, fascia tricolore indosso, nei mesi passati è andato mai a controllare come e perché in questi mesi sono state accordate le deroghe a questa ordinanza in misura così alta da farla diventare carta straccia? Così come ora, per effetto di un ricorso gerarchico al ministero dei Trasporti, è diventata carta straccia l’ordinanza brandita dal primo cittadino.  

Certo, qualcuno dirà, a furia di bloccarli all’uscita dal cavalcavia i camionisti, imparata la lezione, non saliranno più sulla Cartoor che nei prossimi giorni arriverà vuota a Messina. I Tir però in Sicilia non ci vengono in vacanza e arriveranno via autostrada a Villa S. Giovanni. E dove approderanno comunque? A Messina, in centro città, alla rada San Francesco, con le navi della stessa società.

Nessuno più di chi si muove in bicicletta e rischia in ogni momento di finire sotto le ruote di un Tir può essere favorevole a bandirli dalla città: completamente, per sempre. A Messina il potere economico, politico, mediatico dei Franza, interessati a concentrare il traffico marittimo sulla rada San Francesco, ha sempre ostacolato la liberazione della città dai Tir, ma l’inefficienza della pubblica amministrazione, incapace di costruire un porto alternativo e di sanzionare davvero i camionisti,  ha sempre dato loro una mano. Accorinti non è stato eletto per  prodursi in sceneggiate ma per fare il sindaco e far funzionare la pubblica amministrazione. Se dopo aver “rilasciato” i Tir avesse fatto un giro su via La Farina avrebbe visto centinaia di automobili parcheggiate in doppia fila, molte di queste sui marciapiedi. Così come accade in ogni zona della città, grazie ad automobilisti certi di non subire alcuna multa. Da domani Accorinti che fa? Visto che non potrà tornare sul cavalcavia a bloccare i Tir, andrà personalmente a multare gli automobilisti indisciplinati e poi li terrà fermi tre ore, così imparano l’educazione?

 

Genovese, la protervia di un potente e il mercimonio delle funzioni pubbliche

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Si è costituito. Ha varcato il portone del carcere di Gazzi qualche ora dopo che la Camera dei deputati aveva concesso l’autorizzazione a procedere. Francantonio Genovese, l’uomo più potente di Messina, è in carcere. Il suo arresto è l’immagine di una città “corrotta”, sull’orlo del baratro, in cui l’attività imprenditoriale più in voga sono la truffa, l’evasione fiscale e contributiva.

Insieme al Supremo in carcere finiscono idealmente tutti coloro che negli anni hanno foraggiato il suo potere; hanno fatto la fila nell’anticamera della sua segreteria; si sono sottomessi ai suoi voleri in cambio di un posto di lavoro; hanno ostentato (e usato) la sua amicizia, talvolta coltivata a colpi di aperitivo; non hanno controllato e denunciato (politicamente o solo giornalisticamente) le perversioni su cui poggiava il suo potere e i suoi conflitti di interesse.

Vedere una persona entrare in carcere è un evento che intristisce e colpisce chiunque abbia un minimo di coscienza e sensibilità.  A maggior ragione se l’indagato ci entra senza aver subito un processo. Ma ciò vale sia se si tratta di un potente, che arriva al carcere in Suv accompagnato da un elegantissimo avvocato, e dovrebbe valere ancora di più quando dietro le sbarre ci finisce un immigrato, un tossicodipendente o un ladro di rame: ovvero il 90% della popolazione carceraria.

Perché il deputato del Pd è pur sempre un privilegiato.  Ha uno stuolo di avvocati a sua disposizione. E in carcere non è stato recluso in otto metri quadri insieme ad altri tre, quattro o cinque compagni di avventura, come capita a chi è accusato di reati molto meno gravi e non ha il titolo di onorevole.

Francantonio Genovese finisce in carcere non tanto e non solo perché ci sono gravi indizi di colpevolezza a  suo carico e sussistono le esigenze cautelari del pericolo di reiterazione del reato (di quelli già contestati e di altri della stessa natura).

Il deputato del Pd finisce dietro le sbarre per la sua protervia, il senso di impunità, il delirio di onnipotenza e la certezza, fondata su anni e anni di esperienza politica e di flirt con giornalisti e funzionari pubblici, di poter comprare tutti senza (il più delle volte) pagare nessuno. Sapeva di essere nel mirino della magistratura e ha continuato a fare ciò che faceva come se nulla fosse.

L’esponente politico figlio e nipote d’arte si è difeso davanti ai colleghi della Camera gridando al complotto, dicendosi vittima della persecuzione della Procura e di un Giudice per l’indagini preliminari che ha accolto la richiesta di arresto: l’unico motivo, il fumus persecutionis, che può fondare il rigetto della richiesta di autorizzazione agli arresti per un parlamentare. Il Parlamento non può sindacare la fondatezza delle esigenze cautelari, né tantomeno si può sostenere, come qualche commentatore (sprovveduto) ha fatto che poiché dal momento della richiesta di autorizzazione alla Camera al momento della decisione Genovese non è fuggito, non ha inquinato le prove e non ha commesso altri reati allora le esigenze cautelari non ci sono più. Sarebbe come dire che i parlamentari oltre che privilegiati sono sottratti alle misure cautelari.

Si. Il giudice Giovanni De Marco, se gli insegnamenti di Piero Calamandrei non fossero sconosciuti ai magistrati e alla cultura giuridica, non avrebbe mai dovuto decidere sugli arresti di Genovese e dei familiari di quest’ultimo.

La moglie di De Marco è stata assunta (insieme ad altre 15 persone) all’Ato di Messina, senza concorso e grazie ad una stabilizzazione (benedetta dall’allora sindaco Genovese) in zona Cesarini che fece gridare allo scandalo giornali locali e nazionali (e non perché se n’era avvantaggiata la moglie di un magistrato, neanche citata, salva una sola eccezione, dalle cronache). E il fratello della moglie del magistrato nel periodo delle indagini lavorava nella segreteria dell’assessore alla Formazione Mario Centorrino, uomo di Genovese.

Giovanni De Marco non avrebbe mai dovuto occuparsi del caso Formazione/Genovese e non tanto perché un giudice debba essere imparziale ma perché deve anche apparire di esserlo.Cosa sarebbe accaduto se al contrario non avesse accolto le misure cautelari prima richieste per i familiari di Genovese e poi per il deputato?  Non si sarebbe detto: ecco il solito giudice amico che protegge il potente?

Ma invece di gridare allo scandalo sui giornali, attraverso veline non firmate, perché i legali di Genovese non hanno presentato un’istanza di ricusazione di quel giudice?

La tesi di vittima che Genovese ha cercato fumosamente di veicolare, fuori dai confini della Sicilia non poteva mai fare breccia: quale collega deputato poteva credere che Genovese fosse perseguitato da un giudice non imparziale perché “suo amico”?

Il Genovese imprenditore subirà un processo e qualsiasi cittadino, specie le migliaia che l’hanno votato, deve augurarsi che sia assolto. Ma il Genovese politico ha perso ogni legittimazione a farsi portatore in futuro degli interessi collettivi.

Le carte dell’inchiesta “Corsi d’oro” mostrano che il leader politico ha asservito il potere che i cittadini gli hanno delegato per fare business privato, ha usato i soldi della formazione per comprarsi i palazzi, per ampliare i suoi possedimenti. Evidenziano che lui che fa parte di un partito che fa della lotta all’evasione fiscale uno dei cavalli di battaglia, stacca fatture di comodo per abbattere gli utili delle sue società e non pagare tasse.

Gli atti di indagine dimostrano che pretendeva di piazzare i suoi fidatissimi uomini nei punti nevralgici della macchina amministrativa o a capo degli assessorati per orientare le decisioni nel senso favorevole ai suoi personalissimi interessi. Com’è accaduto con Salvatore La Macchia, con il dirigente generale Ludovico Albert; e con l’assessore alla Formazione Mario Centorrino.

L’economista nelle interviste (finte) che ha rilasciato nei giorni scorsi ha preso le distanze da Genovese e ha difeso il suo operato di assessore giurando e spergiurando di averlo svolto in assoluta autonomia. Le risultanze delle indagini  e le intercettazioni dicono, però, altro.

 

Larve di mosche su un paziente in Rianimazione, indagato il manager del Policlinico Pecoraro

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Pecoraro-Policlinico

MESSINA. Se dalle narici di Vincenzo Misuraca, il paziente palermitano che il 18 luglio del 2011 morì a 62 anni nella Rianimazione del Policlinico di Messina, sono spuntate le larve di mosca non è stato per una sfavorevole congiunzione astrale, come pure avevano sostenuto in buona sostanza i due consulenti della Procura, ma perché nel nosocomio universitario guidato da 6 anni dal manager Giuseppe Pecoraro le condizioni igienico sanitarie erano pessime. Il motivo? Le colpevoli omissioni dei vertici della struttura sanitaria.

Francesco Tomasello

E’ questa la clamorosa svolta delle indagini sul caso che nell’estate di 3 anni fa aveva calamitato l’attenzione di tutti i media nazionali. I magistrati della Procura di Messina Vincenzo Barbaro e Maria Grazia Arena hanno recapitato 9 avvisi di garanzia con l’accusa di omissione in atti d’ufficio e omicidio colposo al direttore generale Pecoraro, ai primari di Rianimazione Angelo Sinardi e di Neurochirurgia (dove Misuraca aveva subito un’intervento chirurgico) Franco Tomasello, sino a pochi mesi fa rettore dell’ateneo; a Rosalba Ristagno direttore sanitario di presidio e a Sebastiano Coglitore, direttore di Cardiologia e presidente del Comitato per la lotta alle infezioni ospedaliere.

Rosalba Ristagno

La decisione dei magistrati è frutto di approfonditi accertamenti (fondati su prelievi ed analisi di campioni biologici) ad opera dei carabinieri dei Nas di Catania che hanno tracciato un quadro allarmante delle condizioni igieniche sanitarie della più importante struttura ospedaliera della città, sconfessando l’operato dei due consulenti, Antonino Trunfio e Salvatore Maria Costarella.

Sono stati gli stessi Nas a segnalare ai magistrati inquirenti le anomalie e le discrasie nell’operato dei due medici legali che avevano depositato una perizia assolutoria ritenendo che la morte dell’uomo palermitano non fosse ascrivibile alla responsabilità di alcuno: sono finiti entrambi sul registro degli indagati con l’accusa di falsa perizia. Read more