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IL GIALLO: Il senatore Luigi Gaetti ritira l’interrogazione sulla gestione “di favore” del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, sotto processo a Barcellona. Ma afferma: “La ripresento non appena accerto che le segnalazioni che mi hanno consigliato la decisione sono infondate”

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Il senatore Luigi Gaetti

Il senatore Luigi Gaetti

La ripresento non appena avrò accertato che quanto mi è stato segnalato non corrisponde alla verità“.

L’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia e a quello degli Interni, gettava molte ombre sulla gestione della collaborazione con la giustizia dell’ex boss di Barcellona Carmelo Bisognano, domandando ai ministri un’attività di ispezione per diradare i dubbi e spiegare le anomalie.

Ombre che toccano i magistrati della Procura e della Corte d’appello di Messina (e i due legali del collaboratore) che – secondo le ipotesi contenute nell’interrogazione – avrebbero riservato un trattamento di favore e illecito al collaboratore, arrestato il 24 maggio del 2016 con l’accusa di tentata estorsione, favoreggiamento, intestazione fittizia di beni.

Luigi Gaetti, senatore del M5Stelle e vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, però, l’interrogazione l’ha ritirata dieci giorni dopo averla presentata.

E’ solo una scelta momentanea, per scrupolo”, afferma il senatore

Il motivo? “Mi è stato segnalato che l’atto ispettivo fosse stato scritto su una conoscenza parziale della documentazione. Mi sono fatto mandare quella mancante e la sto esaminando. Sinora non è emerso nulla che mi faccia pensare che l’interrogazione non fosse fondata“, dichiara il senatore.

Ma chi le ha fatto la segnalazione? “Guardi, a me arrivano tante segnalazioni e con estrema umiltà ne tengo conto“, glissa il vicepresidente della Commissione antimafia.

Dietrologie

L’esistenza dell’interrogazione e il contenuto della stessa sono state più volte evocate dal difensore di Carmelo Bisognano, Fabio Repici, nel processo a carico dell’ex boss, in corso di svolgimento davanti al Tribunale di Barcellona: in specie, durante l’esame di Mariella Cicero, il legale che difendeva unitamente a Repici (di cui è collega di studio) Bisognano sino agli arresti, per poi lasciare l’incarico per l’emergere di intercettazioni con il collaboratore, giudicate dagli inquirenti oltre i limiti del rapporto lecito tra assistito e difensore.

L’avvocato Repici ha, infatti, interrotto il collega Ugo Colonna, difensore di parte civile, che stava ponendo delle domande a Mariella Cicero, chiamata da Repici come teste a difesa di Bisognano, sottolineando:  “Si può frodare il Parlamento, non qui in Tribunale”

Il presidente del Tribunale, Fabio Processo, lo ha invitato ad una condotta rispettosa del collega: “Non usi parole scorrette nei confronti innanzitutto del collega”.

L’avvocato Colonna ha ribattuto: “Qui se c’è qualcuno che froda è un’altra persona, quindi….”

Le ombre 

L’interrogazione di Gaetti, ora messa ora nel congelatore, in sintesi, denunciava che Carmelo Bisognano, collaboratore dal 2010, nel 2015, quando è divenuta definitiva una condanna per mafia, sarebbe dovuto andare in carcere e, invece, in violazione di legge ha ottenuto la sospensione della pena su sollecitazione dei suoi difensori; ancora, che Bisognano, al di là della responsabilità penale in corso di accertamento, da collaboratore di giustizia si è reso protagonista di varie e gravi violazioni degli impegni assunti al momento della collaborazione che a norma di legge avrebbe dovuto condurre alla revoca del programma di protezione, revoca mai adottata.

Il vicepresidente della Commissione antimafia nell’interrogazione ha evidenziato come tutto ciò sia accaduto nonostante dall’esame degli atti processuali emergesse che la collaborazione di Bisognano sia stata contrassegnata da omissioni interessate.

 

Scarcerato Carmelo Bisognano: l’ex boss di Barcellona, dal 2010 collaboratore di giustizia, era stato arrestato a maggio 2016 per tentata estorsione, favoreggiamento e intestazione fittizia di beni. In corso il processo per accertare la responsabilità. La misura sostituita con l’obbligo di dimora

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

Dal 24 maggio del 2016 era detenuto in una struttura carceraria. Arrestato con l’accusa di intestazione fittizia di beni, tentata estorsione e favoreggiamento non gli è stato, però, mai revocato il programma di protezione.

E’ anche per questo motivo che a distanza di un anno l’ex boss della mafia di Barcellona, Carmelo Bisognano, dal 2010 collaboratore di giustizia, torna libero.

O meglio, torna in località protetta, con obbligo di dimora e divieto di uscire dalle 19 di sera alle otto del mattino dall’abitazione che gli ha assegnato il ministero degli Interni, protetto dalla scorta.

Il Tribunale di Barcellona, davanti a cui si celebra il processo a carico di Bisognano per intestazione fittizia di beni e tentata estorsione, ha deciso di accogliere l’istanza avanzata dalla stesso pubblico ministero, che si era pronunciato per la sufficienza dell’obbligo di dimora, e dalla difesa di Bisognano rappresentata da Fabio Repici, che aveva chiesto la revoca o la sostituzione del carcere con gli arresti domiciliari.

“Bisognano è tutt’ora sottoposto a programma di protezione; si avvicina comunque il termine di durata massima delle misure cautelari; tenuto conto dell’attività istruttoria svolta e della condotta nel corso del processo, pur rimanendo i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati contestati, l’obbligo di dimora con divieto di allontanarsi dalla propria abitazione dalle 19 di sera alle 8 di mattina appare idoneo a soddisfare le residue esigenze cautelari”: queste, in sintesi, le motivazioni del Tribunale presieduto da Fabio Processo.

“Non è stata data prova che Saro Cattafi tra il 1993 e il 2000 fosse mafioso”. Pubblicate le motivazioni della sentenza della Cassazione che aveva disposto un nuovo giudizio a Reggio Calabria. Da cui dipende la prescrizione delle residue accuse di mafia per l’avvocato di Barcellona, già assolto per il periodo successivo al 2000

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Saro Cattafi

Saro Cattafi

“La Corte d’appello di Messina non ha indicato nella motivazione in base a quali elementi di prova Rosario Cattafi è rimasto affiliato alla mafia dopo il 1993 (anno in cui fu arrestato rimanendo in carcere per 4 anni) e sino al 2000. La Corte d’appello di Reggio calabria valuti se queste prove ci sono e, in caso negativo, ridetermini la pena”.

E’ questa la sintesi della motivazione, depositata questa mattina, con cui la Corte di Cassazione il primo marzo 2017 ha annullato parzialmente la sentenza della Corte di appello di Messina adottata il 24 novembre del 2015 nei confronti dell’avvocato di Barcellona.

Dunque, all’esito dei tre gradi di giudizio, Saro Cattafi è stato ritenuto colpevole di essere un semplice affiliato alla mafia sino al 1993; e riconosciuto di essere estraneo alla mafia dopo il 2000.

Mentre per stabilire se sia stato un semplice affiliato all’ organizzazione criminale di Barcellona tra il 1993 e il 2000 ci vorrà un giudizio nuovo sull’esistenza delle prove che la Corte di cassazione non ha trovato.

“Cattafi è rimasto in carcere ininterrottamente per 4 anni, e quando è uscito, alla fine del 1997, non ha più potuto contare sulla presenza a Barcellona di Pippo Gullotti, suo referente e amico, che è stato arrestato subito dopo, nel 1998: quindi, dal 1993 in poi non si può dire senza elementi di prova ulteriori non forniti in sentenza di secondo gardo che Cattafi sia rimasto intraneo all’organizzazione”, hanno scritto i giudici della Cassazione.

Ad un passo dalla prescrizione

Il responso della Corte d’appello di Reggio Calabria tuttavia sarà determinante anche per stabilire se il reato di associazione di stampo mafioso commesso da Cattafi sino al 1993 non sia prescritto.

Infatti, nel caso in cui i giudici reggini non trovassero prova dell’appartenenza alla mafia di Cattafi dopo il 1993, il reato di cui pure è stato riconosciuto colpevole sino al 1993 sarebbe da dichiarare prescritto e, dunque, Cattafi andrebbe esente da pena per questo reato.

Infatti, il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso di cui è accusato Cattafi si prescriveva in 15 anni.

La storia di un processo

La Corte d’appello, ora corretta dalla Cassazione, aveva riconosciuto colpevole l’avvocato di Barcellona di essere un semplice affiliato alla mafia e solo sino al 2000, e non come aveva stabilito il Giudice di primo grado di essere capo promotore dell’organizzazione mafiosa barcellonese sino al momento degli arresti, scattati il 24 luglio del 2012.

La corte di Cassazione il primo marzo scorso ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale che per contro tendeva alla riforma della parte della sentenza d’appello che aveva corretto quella di primo grado, adottata in abbreviato dal giudice Monica Marino, in modo da farne rivivere la dichiarazione di colpevolezza di Cattafi.

Le pene del carcere

Saro Cattafi in primo grado, al termine del giudizio abbreviato era stato condannato a 12 anni di reclusione (grazie alla riduzione di un terzo della pena per il rito).

Sedici anni di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso aggravata dall’essere capo promotore e due anni per l’accusa di calunnia ai danni del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano e del suo legale Fabio Repici: 18 anni in tutto, poi ridotti di un terzo a 12.

In appello la pena è scesa a 7 anni di reclusione (6 anni per mafia e un anno per calunnia).

La calunnia

La pena ad un anno per calunnia è invece passata in giudicato, essendo stato rigettato il ricorso per Cassazione dei difensori di Cattafi, Salvatore Silvestro e Giovambattista Freni.

Cattafi nel corso del 2011, prima degli arresti, in esposti/denuncia aveva indicato il legale Repici, come ispiratore, e Bisognano, come esecutore, di una sorta di complotto ai suoi danni teso a portarlo in carcere.

L’avvocato Cattafi era finito sotto processo con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e di aver tenuto, in questa veste, i contatti con le famiglie di Cosa nostra catanese e palermitana.

Con questa contestazione è stato arrestato il 24 luglio del 2012 e tenuto al 41 bis sino alla scarcerazione avvenuta dieci giorni dopo la sentenza d’appelllo emessa il 24 novembre del 2015.

Il Ne bis in idem rispettato

Gli avvocati di Cattafi, dinanzi ai giudici l’ermellino, hanno tentato si sostenere che l’accusa che gli è stata mossa a Messina nel 2012 in realtà aveva già costituito oggetto di un processo celebrato a Milano al termine del quale Cattafi era stato assolto definitivamente nel 2000 e quindi vi sarebbe stata violazione del Ne bis in idem, principio secondo cui una persona non può essere giudicato e condannato due volte per lo stesso fatto di reato.

La Cassazione, d’accordo con il giudice di primo grado e con quelli d’appello, ha ritenuto che Cattafi a Milano fu accusato di aver fatto parte di una specifica consorteria e a Messina di un’altra e dunque non si è trattato della medesima accusa.

Estorsioni all’Aias di Barcellona, 4 anni e 6 mesi al collaboratore Carmelo D’amico. La Corte d’appello ritiene provate le accuse di Luigi La Rosa. D’amico da boss si era difeso attaccando ma è stato condannato per calunnia ai danni del commercialista e dell’imprenditore Maurizio Marchetta

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Il collaboratore Carmelo D'amico

Il collaboratore Carmelo D’amico

Quattro anni e sei mesi di reclusione.

Nuova condanna per Carmelo D’amico, il boss di Barcellona Pozzo di Gotto da tre anni e mezzo collaboratore di giustizia. Dopo la condanna per calunnia rimediata il 26 febbraio scorso, la Corte d’appello di Messina l’ha ritenuto colpevole di estorsione ai danni dell’Aias, l’associazione italiana assistenza spastici, di Barcellona.

In primo grado, quando non era ancora collaboratore, D’amico era stato assolto dal Tribunale di Barcellona, mentre erano stati condannati per lo stesso reato i coimputati Giovanni Rao, Mariano Foti e Carmelo Giambò.

L’inchiesta che portò in carcere e a processo i quattro esponenti della mafia nacque dalla dichiarazioni di Luigi La Rosa, l’ex presidente dell’Aias.

Questi raccontò agli inquirenti che sin dalla fine degli anni novanta (quando alla guida dell’ente c’era Pietro Arnò) e sino al 2009, quando decise di porre fine al pagamento del pizzo, l’Aias fosse costretta a pagare la somma di 40milioni di lire all’anno (diventati poi 40mila euro) e a effettuare delle assunzioni a favore di persone vicine ai membri dell’organizzazione criminale.

Se nel giudizio di primo grado le dichiarazioni di Luigi La Rosa, ritenute riscontrate relativamente a Rao, Giambò e Foti, non sono state considerate sufficienti per condannare D’amico, nel giudizio di appello hanno avuto un peso (le motivazioni diranno quale) le stesse dichiarazioni di Carmelo D’amico, che nel frattempo aveva iniziato a collaborare confermando nella sostanza le dichiarazioni del commercialista di Barcellona: e cioè che i vertici dell’Aias fossero costretti a piegarsi a voleri della mafia del Longano, di cui lui D’amico dal duemila in poi era divenuto un capo.

Difesa boomerang

Carmelo D’amico ha finito per smentire se stesso rimediando così anche la condanna per la calunnia.

Il boss reo confesso di decine di omicidi, infatti, prima di iniziare la collaborazione, per difendersi aveva denunciato che a convincere La Rosa ad accusarlo fosse stato il suo amico Maurizio Marchetta, l’imprenditore di Barcellona per un periodo vice presidente del Consiglio comunale.

Quest’ultimo, a sua volta aveva  già denunciato di estorsione lo stesso D’amico e Carmelo Bisognano, l’altro esponente di spicco della mafia del Longano che a partire dal 2010 inizierà la collaborazione con la magistratura.

L’accusa a La Rosa e Marchetta a D’amico è costata il 26 febbraio scorso la condanna ad un anno di reclusione (pena mitigata, come quella per l’estorsione all’Aias, dall’essere un collaboratore)

Tutto si Sistema

Entrambi, D’amico e Bisognano, furono arrestati nel 2009 nell’operazione “Sistema” proprio in virtù delle dichiarazioni di Marchetta.

Condannati in primo grado a pene molto pesanti decisero di diventare collaboratori: prima, dal 2010, Bisognano e poi, dal 2013, D’amico. Le loro dichiarazioni hanno permesso di fare luce su decine di delitti (tra cui efferati omicidi) che erano rimasti senza colpevoli.

Si sono sempre difesi sostenendo che Marchetta era uno colluso e non una vittima della mafia.

Il processo a loro carico per l’estorsione alle imprese di Marchetta è ancora in corso: i due boss, dopo la condanna di primo grado sono stati assolti in appello, ma la Corte di Cassazione ha annullato e rimesso la decisione finale a Reggio Calabria.

Nel frattempo Carmelo Bisognano è stato arrestato e rinviato a giudizio. Mentre era sottoposto a programma di protezione – secondo l’accusa – ha continuato a delinquere alla Vecchia maniera (vedi articolo sulla vicenda).

Le spine di La Rosa

Le dichiarazioni del commercialista La Rosa sono state già sottoposte positivamente al vaglio di altri giudici.

Il Tribunale di Messina ha condannato, in primo grado, l’ex senatore Tatà Sanzarello per le estorsioni all’Aias (vedi articolo correlato a firma Michele Schinella).

Il Giudice per le indagini preliminari di Barcellona ha rinviato a giudizio per una serie di reati il presidente dell’Aias nazionale, Francesco Lo Trovato, e una serie di dirigenti dell’associazione, oltre ai politici Sanzarello (per altre ipotesi di reato) e Natale D’amico (vedi articolo).

Caso Cattafi: la Cassazione annulla la condanna per mafia e chiama la Corte d’appello di Reggio calabria a giudicare se l’avvocato di Barcellona prima del duemila fosse un associato. Rigettato il ricorso della Procura generale: è definitiva l’assoluzione per il periodo successivo. E la condanna per calunnia ai danni del collaboratore Bisognano e del suo legale Repici

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Saro Cattafi

Saro Cattafi

 

Non è il capo dei capi della mafia di Barcellona. Non è neppure un semplice affiliato a partire dal 2000. E per stabilire se prima dell’anno 2000 Saro Cattafi sia stato un affiliato alle cosche del Longano, come aveva stabilito la sentenza della Corte d’appello di Messina, è necessario un nuovo giudizio davanti alla Corte d’appello di Reggio Calabria.

E’ questo in estrema sintesi (e facendo affidamento al solo dispositivo pubblicato nella tardissima serata di oggi) il responso del giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione.

I supremi giudici hanno, infatti, accolto il ricorso del difensore di Cattafi, Salvatore Silvestro, annullando con rinvio la sentenza della Corte di appello di Messina, relativamente alla condanna per la condotta di associazione per delinquere di stampo mafioso tenuta prima del duemila.

La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale che tendeva per contro alla riforma della parte della sentenza che aveva riconosciuto Cattafi di non essere capo promotore dell’organizzazione mafiosa barcellonese sino al momento degli arresti scattati ad agosto del 2012, come aveva stabilito invece la sentenza di primo grado.

Quindi relativamente alla condotta tenuta dopo il duemila la sentenza è passata in giudicato e dunque può dirsi definitivo il riconoscimento di estraneità alla mafia da parte di Cattafi.

I giudici con l’ermellino non hanno invece accolto il ricorso del difensore di Cattafi avverso la parte della sentenza di secondo grado che condannava Cattafi per calunnia ai danni del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano e del suo legale Fabio Repici.

Pertanto, la condanna per calunnia (e il relativo risarcimento danni) ha ottenuto il sigillo di cosa giudicata.

L’avvocato Cattafi era finito sotto processo con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e di aver tenuto, in questa veste, i contatti con le famiglie di Cosa nostra catanese e palermitana. Con questa contestazione è stato arrestato il 24 luglio del 2012 e tenuto al 41 bis sino alla scarcerazione avvenuta dieci giorni dopo la sentenza d’appelllo emessa il 24 novembre del 2015.

In primo grado, al termine del giudizio abbreviato era stato condannato a 12 anni di reclusione (grazie alla riduzione di un terzo della pena per il rito). Sedici anni di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso aggravata dall’essere capo promotore e due anni per l’accusa di calunnia ai danni del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano e del suo legale Fabio Repici: 18 anni in tutto, poi ridotti di un terzo.

La Corte d’appello ha escluso che Saro Cattafi sia un capo promotore e lo ha riconosciuto colpevole, in quanto semplice affiliato, per le condotte tenute sino al 2000.

Gli stessi giudici avevano confermato la condanna per calunnia.

Cattafi nel corso del 2011 in esposti/denuncia aveva indicato il legale Repici, come ispiratore, e Bisognano, come esecutore, di una sorta di complotto ai suoi danni teso a portarlo in carcere.

Notizie riservate dall’avvocato, accesso alla Banca dati delle Forze dell’Ordine, incontri a piacimento in località protetta: nella carte dell’inchiesta ecco come il collaboratore di giustizia Bisognano si faceva beffa dello Stato e tesseva le sue trame

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

 

“… il Giudice Salamone gli ha fatto fare la relazione che Stefano Rottino parlava con lei … … cioè proprio ha chiamato il Carabiniere… questa cosa … ora lei mi fa una cortesia, esce tra un poco, cinque minuti e si viene a sedere anche con i Carabinieri dove ci sono io … così se Stefano Rottino viene qua e parla io gli dico: “lei se ne deve andare è una mattinata che ci rompe i coglioni”

E’ il 16 febbraio del 2016. Il procuratore generale Maurizio Salomone vedendolo liberamente colloquiare nel Tribunale di Messina con Stefano Rottino, fresco di condanna per mafia, chiede al carabiniere presente di fare una relazione di servizio.

Il suo avvocato, Mariella Cicero, si allarma, e gli telefona sul cellulare consigliandogli cosa fare per dare una giustificazione (di comodo) ex post allo strano colloquiare di un collaboratore di giustizia con chi era stato un affiliato al clan che capeggiava prima di “pentirsi”.

A Carmelo Bisognano, 51 anni, i contribuenti italiani pagavano la scorta, due avvocati, la casa, i viaggi e un assegno mensile di 1600 euro.

Lui, boss della mafia di Barcellona e autore di decine di delitti, oltre a girare libero e scortato per i Tribunali della Sicilia a puntare l’indice a destra e a manca, consentendo una serie di operazioni di polizia che hanno decapitato i vertici della mafia del Longano, teneva contatti con esponenti dei clan mafiosi impartendo loro istruzioni; svolgeva attività imprenditoriale sotto mentite spoglie, si incontrava a suo piacimento nella località protetta (anche con altri collaboratori di giustizia) e, soprattutto, concordava dichiarazioni assolutorie con condannati per mafia o minacciava di fare dichiarazioni che aveva omesso al fine di ottenere vantaggi economici.

L’inchiesta “Alla Vecchia maniera”, condotta dagli uomini del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto ha portato il 18 maggio del 2016 Bisognano dalla casa in cui viveva sotto protezione alle celle del carcere e ha mostrato come Bisognano si sia fatto beffa delle Istituzioni e della legge e, in realtà, – secondo gli investigatori – non avesse alcuna intenzione di abdicare definitivamente al suo ruolo di boss mafioso per percorrere la via della legalità.

Le stesse indagini, fatte di intercettazioni e di appostamenti, hanno però portato gli investigatori al convincimento, ora rimesso alla valutazione della Procura di Messina, che tutto ciò sia stato possibile grazie alla complicità di coloro che avrebbero dovuto assicurare la sua incolumità o offrigli assistenza legale: gli uomini della scorta e uno dei suoi avvocati. L’operato di Mariella Cicero, storico collega di studio dell’altro legale di Bisognano, Fabio Repici, infatti, non ha convinto per nulla il dirigente del Commissariato di Barcellona, Mario Ceraolo.

Il vice questore Mario Ceraolo

Il vice questore Mario Ceraolo

 

AVVOCATI NEL MIRINO

Secondo il vice questore, infatti, “Bisognano ha avuto la possibilità di accedere ad informazioni, anche coperte dal segreto istruttorio che quasi quotidianamente gli vengono fornite dal suo difensore Maria Rita Cicero con condotte che non rappresentano soltanto una evidente violazione dei doveri deontologici ma configurano precisi reati penali e che consentono al Bisognano di meglio operare nel comprensorio della provincia di Messina”. Il dirigente Ceraolo evidenzia ai magistrati della Procura di Messina come “I rapporti che intercorrono tra il legale ed il collaboratore di giustizia, come emerso in diverse altre intercettazioni, sono caratterizzati da uno scambio di informazioni a volte anche riservate che sembrano essere estranee al mandato difensivo”. Di più, ha insistito Ceraolo: “Carmelo Bisognano gode di informazioni privilegiate, ed a volte riservate, provenienti dal suo difensore  Maria Rita Cicero, che il collaboratore utilizza per meglio realizzare i suoi disegni criminosi”

Carmelo Bisognano, aveva pure la possibilità di accedere alle banche dati interforze (SDI) “strumento investigativo di grandi potenzialità specie se ne nelle mani di un mafioso e conseguentemente dei suoi complici”, come scrivono gli inquirentiimpegnati ora a dare risposta ad una serie di domande inquietanti.

INQUIETANTI DOMANDE.

Chi gli consentiva l’accesso allo SDI e ottenere informazioni riservate su persone e mezzi è stato lo stesso collaboratore a raccontarlo a magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina, nel corso di un lungo e teso interrogatorio avvenuto 15 giorno dopo gli arresti.

Invece, se si provasse che in effetti da parte dell’avvocato Cicero siano state divulgate notizie riservate, sul tavolo dei magistrati della Direzione distrettuale ci sarebbero a cascata altre domande: chi forniva le informazioni riservate all’avvocato Maria Rita Cicero che poi le girava a Bisognano? E, ancora, perché l’avvocato Cicero dava queste informazioni a Bisognano? E perché, lo stesso avvocato si intratteneva in lunghe telefonate con il  collaboratore “estranee” – secondo gli inquirenti – al mandato difensivo e si preoccupava di coprirne gli scivoloni, come il colloquio con Rottino?

 

DIFFAMAZIONE STRISCIANTE

Scrive ancora Mario Ceraolo, in un altro passaggio di comunicazioni inviate alla Procura: In generale va evidenziata l’evidente, quanto preoccupante, inopportunità  delle diffamatorie propalazioni del legale che manifesta una disinvolta tendenza a fornire al collaboratore di giustizia rappresentazioni negative e fuorvianti di appartenenti alle istituzioni”.

E’ lo stesso Ceraolo a rilevare che ad un certo punto, a marzo del 2016, improvvisamente Bisognano si fa molto prudente al telefono. “in questo momento non ce né telefono e né niente, ordina a un suo uomo.

Allo stesso modo e contemporaneamente si trasformano in telegrafici i lunghi colloqui con il difensore Cicero, “la quale – rileva il dirigente Mario Ceraolo – nelle ultime settimane ha evitato – a differenza di quanto accadeva prima – di dilungarsi nelle conversazioni telefoniche intrattenute con il suo assistito limitandosi a brevi comunicazioni di “servizio” “.

Mariella Cicero

Mariella Cicero

 

LA REPLICA DELLA CICERO

L’avvocato Mariella Cicero raggiunta telefonicamente nella tarda serata di venerdì 24 giugno, spiega: “Ho la coscienza apposto di chi ha fatto il proprio lavoro per bene. Non ho nulla da rimproverarmi, se non di aver esperito ogni goccia di energia in questa attività di assistenza. Escludo di aver instaurato con il collaboratore un rapporto di eccessiva confidenza. Nessuna leggerezza c’è stata da parte mia”.

Entrambi i legali di Bisognano, Repici e Cicero, erano presenti quando il collaboratore, tenendo fede all’accordo con l’imprenditore Tindaro Marino, intessuto tramite Lorisco e registrato in presa diretta dagli inquirenti, rilascia le nuove dichiarazioni che alleggeriscono la posizione dell’imprenditore di Brolo.

 

DICHIARAZIONI “ADDOMESTICATE” …

Secondo gli accertamenti del commissariato di Polizia di Barcellona Pozzo di Gotto, fatti di intercettazioni telefoniche, Carmelo Bisognano tramite il fidato Angelo Lorisco, finito anch’egli in carcere, nel 2015 è entrato in contatto con Tindaro Marino, imprenditore di Gioiosa Marea, all’epoca agli arresti domiciliari e in attesa dell’esito del ricorso per Cassazione avverso la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa e del procedimento di appello di confisca del suo patrimonio.

Nel corso dell’estate del 2015, i contatti tra Bisognano e Lorisco sono stati frenetici. Così come quelli tra Lorisco e Marino.

Le intercettazioni – secondo gli inquirenti – hanno evidenziato che, in cambio del denaro necessario a svolgere attività imprenditoriali all’estero attraverso una società intestata a teste di legno, il collaboratore si è impegnato a modificare le dichiarazioni rese in precedenza contro l’imprenditore.

“….Vi interessa poi a tutti e due, in base a quello che ha detto lui ….”, dice Lorisco a Bisognano. Che ribatte: “Ah,mi potrebbe pure interessare a me, per dire… Perché sono più cose che riguardano di più a lui, che a me”. “Certo, lui esce tranquillo… E se liberano, quelli che liberano il cinquanta per cento è tuoCome ha parlato lui… eh se lui è come dice lui che esce tranquillo, sono tanti … perciò vi potete sistemate tutti e due!”, conclude Lorisco.

Promesso, fatto.

 

FATIDICO GIORNO

E’ il 30 settembre del 2015 quando Bisognano assistito dai suoi due legali Fabio Repici e Mariella Cicero risponde alle domande che gli pone nell’ambito di indagini difensive il legale di Marino, Salvatore Silvestro.

Il verbale riepilogativo viene depositato in Cassazione, dove pende il ricorso e, soprattutto, ciò che più interessa Marino, nel procedimento per la confisca dei beni dello stesso imprenditore.

E’ destinato a passare al vaglio di giudici che nulla sanno di cosa avesse detto Bisognano di Marino 5 anni prima. Ma qualcosa va storto. Perché gli sviluppi del patto scellerato sono seguiti in presa diretta dagli inquirenti.

Dal confronto delle dichiarazioni – secondo i magistrati della direzione distrettuale antimafia, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, che anni prima avevano raccolte tutte le dichiarazioni di Bisognano, poi usate nei processi, e il giudice Monica Marino – emergono delle differenze notevoli: Bisognano che aveva dipinto Marino come associato alle organizzazioni e come imprenditore che si è avvalso dei suoi rapporti con la stessa organizzazione per ampliare i suoi affari, lo dipinge 5 anni dopo, a processi fatti, come estraneo alla mafia e vittima.

Il confronto tra le dichiarazioni fatte nel 2010 sul conto di Marino e quelle fatte e contenute nel verbale riassuntivo il 30 settembre del 2015 mostrano – a leggere l’ordinanza di misure cautelari – un virata di rotta clamorosa. Non solo.

Il collaboratore si è dimenticato completamente che 5 anni prima lo aveva indicato come persona che aveva curato per conto dei clan la latitanza di boss di vertice del clan palermitano Lo Piccolo in provincia di Messina.

“Può senz’altro sostenersi che Bisognano in osservanza di accordi precedentemente rese abbia rilasciato su Marino dichiarazioni più favorevoli in quanto ne attenuavano non poco la sua responsabilità penale”, ha scritto il Gip Marino nell’ordinanza di misure cautelari.

ASSISTENZA SILENTE

I legali di Bisognano assistono alla deposizione senza nulla eccepire e senza dimostrare nel corso della stessa alcuna sorpresa. L’avvocato Cicero mentre il collaboratore risponde alle domande sul suo pc scorre i verbali di interrogatorio che Bisognano aveva fatto anni prima sul conto di Marino. L’avvocato Silvestro invece sottolinea che questi verbali lui non li ha mai visti. Il verbale è firmato da tutti i legali e da Bisognano. L’interrogatorio è stato registrato su supporto audio.

“L’interrogatorio di Bisognano – sostiene l’avvocato Cicero – è stato più complesso di quanto il verbale riassuntivo (il solo preso in esame dagli inquirenti) dica. Non appena sarà disponibile il file audio tutto sarà più chiaro. Credo ci sia stato un difetto nelle indagini”.

E gli accordi a monte con Marino e tutta l’attività delittuosa di Bisognano? “Non ne so nulla. Se ci sono stati questi accordi non lo so. Bisogna chiedere a Bisognano, a Marino e alla Procura. Io e il mio collega non ci siamo accorti di nessun cambio di rotta su Marino”.

I due legali non si accorgono del cambio di rotta di Bisognano, benché l’avvocato Cicero quando viene contattata dall’avvocato Salvatore Silvestro che le comunica la richiesta di esame di Bisognano si allarma, temendo un’imboscata da parte di chi (Silvestro) è difensore anche di Saro Cattafi, “nemico” storico di Cicero, Repici e dell’ex presidente della commissione parlamentare antimafia europea Sonia Alfano, della cui famiglia Repici è legale.

In quel momento, infatti, il processo d’appello nei confronti di Cattafi è alle battute finali. Sulla condanna in primo grado con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona sono pesate come macigni le dichiarazioni di Bisognano.

L’avvocato chiama subito Bisognano per sapere se lui sa già di questa iniziativa e per raccomandargli di non prestare il fianco a possibili autogol. Quest’ultimo, prima fa finta di non saperne nulla, poi ammette: “si..si io so tutto…sono chiaroveggente io so tutto e non so..lei lo sa…“, infine, la tranquillizza: “Non si allarmi”. La Cicero lo incalza: “perchè io di questo se devo dire la verità, mi sono preoccupata …“. “No…no…dico io faccio il chiaroveggente poi ognuno può dire quello che vuole…“, ribadisce Bisognano. A cui risponde la Cicero: “si l’ho capito io!.. io già lo sapevo che lei faceva il chiaroveggente…

 

“Avevo rappresentato ai magistrati della Procura l’inopportunità di questa iniziativa ritenendo vi fosse un traccheggio per favorire non Marino, ma Cattafi”, rivela Mariella Cicero.

ALL’INCASSO….

Quattro giorni dopo l’interrogatorio, il 4 ottobre del 2015, Bisognano è al telefono con Lorisco: “Io quello che dovevo fare, per dire per l’affare mio, l’ho fatto, dove sono i soldi? Ma non per me, per fare queste cose”, dice il collaboratore.

Le risorse economiche arrivano qualche giorno dopo.

 

RINUNCIA ALLA DIFESA….MA NON TROPPO

Lo stesso giorno degli arresti, Salvatore Silvestro ha rinunciato all’incarico di difesa di Marino. Mariella Cicero ha aspettato qualche giorno: “Ho rinunciato all’incarico dopo aver letto l’ordinanza e capito che c’è un appendice che può riguardare la mia persona. E io mi devo pure tutelare”, rivela, mettendo così il giornalista alla ricerca delle carte dell’ “appendice”. “Credo – aggiunge il legale – che io abbia delle cose da raccontare come testimone in questa storia e se fossi rimasta legale avrei potuto danneggiare Bisognano”.

La rinuncia all’incarico riguarda solo il procedimento “Alla vecchia maniera”, e non tutti gli altri procedimenti in cui Bisognano è coinvolto come imputato e collaboratore di giustizia ed è difeso pure da Fabio Repici.

E’ quest’ultimo, collega di studio di Mariella Cicero, ad assistere Bisognano nell’inchiesta che gli potrebbe costare la revoca del programma di protezione. E’ con l’assistenza di Repici che Bisognano è stato interrogato dai pm Cavallo e Di Giorgio che gli hanno chiesto conto di una serie di condotte, ma non si sono soffermati neppure un attimo sui rapporti con il suo avvocato.

 

SCORTA… DI COMPLICITA’

Mi controlli se questa persona ha precedenti penali? Mi controlli di chi è questa macchina? Mi controlli se questo mezzo è sotto confisca? Quando Bisognano aveva bisogno di un’informazione riservata gli bastava chiamare Domenico Tagliente (che eseguiva materialmente l’accesso) o Diego Pistelli o Enrico Abbina. Sono tre uomini, carabinieri, del Servizio di Protezione che avrebbero dovuto proteggere Bisognano. Invece, secondo le risultanze delle indagini, avevano instaurato con il collaboratore un rapporto di complicità che sfociava nell’illegalità.

I tre uomini deputati alla protezione di Bisognano, gli consentivano  invece di frequentarsi liberamente, senza che fosse chiesta alcuna autorizzazione, con altri collaboratori di giustizia. E, ancora, consentivano che Bisognano ricevesse visite da parte di Dora Simone, dipendente del comune di Mazzarà “in contatto con diversi soggetti gravitanti in ambienti criminali tra cui lo stesso Lorisco Angelo”, secondo gli inquirenti. Gli inquirenti hanno pure annotato un incontro di Bisognano con Dora Simone al Tribunale di Messina in presenza dell’avvocato Cicero, proprio qualche ora prima che Bisognano rendesse le dichiarazioni che alleggerivano la posizione di Tindaro Marino.

 

IRONIA DELLA SORTE

Il Giudice delle Indagini preliminari Monica Marino, accogliendo la richiesta di arresti avanzata dalla stessa Direzione distrettuale di Messina, che ne aveva curato la collaborazione iniziata sin dall’estate del 2011, è stata molto dura: “Le condotte poste in essere dal collaboratore sono di straordinaria gravità perché da un lato lumeggiano la strumentalizzazione del ruolo di collaboratore di giustizia e dall’altro testimoniano il tentativo posto in essere dallo stesso di reinserirsi nel contesto territoriale di provenienza, non disdegnando per conseguire tali finalità di ricorrere ai metodi illeciti”.

Il Tribunale della Libertà rigettando il ricorso del legali di Bisognano ha condiviso la valutazione molto dura del giudice Marino.

Quest’ultimo giudice, giudicando in abbreviato Saro Cattafi aveva – come ha scritto la Corte d’appello in un passaggio –  “aderito senza riserve al narrato del collaboratore Carmelo Bisognano”, i cui racconti su Cattafi, tendenti ad affermarne l’attualità del ruolo di capo dei capi della mafia di Barcellona, sono stati determinanti per la condanna in primo grado di Cattafi come boss di vertice, ma sono stati ritenuti sguarniti di prova dalla Corte d’appello che, con sentenza emessa prima degli arresti di Bisognano, ha riconosciuto comunque Cattafi colpevole di essere stato sino al 2000 membro dei clan mafiosi, ma come semplice affiliato e non capo dell’organizzazione.

L’ATTENDIBILITA’ SALVATA

I sostituti Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo che ne hanno chiesto gli arresti, hanno sottolineato che l’attendibilità di Bisognano non è messa in discussione dai reati che in ipotesi ha commesso mentre era sotto protezione, visto che le sue dichiarazioni, usate per infliggere condanne pesantissime, sono state sempre puntualmente riscontrate. ll Giudice Monica Marino ha condiviso.

 

 

Saro Cattafi non è il boss della mafia di Barcellona ma un affiliato semplice e solo sino al 2000. La Corte d’appello riforma la sentenza di condanna per l’avvocato

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Saro Cattafi

Saro Cattafi

 

La corte d’appello di Messina, presieduta da Francesco Tripodi, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, ha condannato Saro Cattafi a 7 anni di reclusione.

L’avvocato Cattafi era accusato di essere il capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e di aver tenuto, in questa veste, i contatti con le famiglie di Cosa nostra catanese e palermitana.

La Corte d’appello ha escluso che Saro Cattafi sia un capo promotore e lo ha riconosciuto colpevole, in quanto semplice affiliato, per le condotte tenute sino al 2000.

In primo grado, al termine del giudizio abbreviato era stato condannato a 12 anni di reclusione (grazie alla riduzione di un terzo della pena per il rito). Sedici anni di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso e due anni per l’accusa di Calunnia ai danni del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano e del suo legale Fabio Repici: 18 anni, poi ridotti di un terzo.

La Corte d’appello ha confermato la condanna per calunnia.

Cattafi nel corso del 2011 in esposti/denuncia aveva indicato il legale Repici, come ispiratore, e Bisognano, come esecutore, di una sorta di complotto ai suoi danni teso a portarlo in carcere: cosa accaduta il 24 luglio del 2012, quando Cattafi fu condotto a Gazzi.

Il materiale probatorio contro Saro Cattafi era formato da atti di indagine risalenti nel tempo e dalla dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Tra questi i barcellonesi (boss della mafia del Longano) Carmelo Bisognano e Carmelo D’amico.

Quest’ultimo ha raccontato di vicende risalenti nel tempo. Mentre Bisognano ha riferito di un messaggio che nel 2008 gli fu dato in carcere dal boss della mafia catanese Aldo Ercolano perché lo portasse a Cattafi al momento della scarcerazione.

I difensori di Cattafi, Salvatore Silvestro e Giovambattista Freni, hanno sostenuto che sino al 2007 tutte le condotte contestate a Cattafi  sono state già vagliate da altri giudici e dalla Cassazione che hanno assolto in passato Cattafi e, dunque, per la regola del ne bis in idem non potessero essere nuovamente rivalutate dai giudici ai fini della condanna. Secondo gli stessi legali, dal 2007 in poi non c’è alcun elemento probatorio nuovo che possa supportare la tesi fatta propria dal giudice di primo grado.

L’avvocato di Barcellona tra il 2009 e il 2011 è stato sottoposto ad intercettazioni ambientali e telefoniche che non  hanno dato alcun frutto.

Per quanto riguarda l’accusa di calunnia, gli avvocati difensori hanno sostenuto che Cattafi ha raccontato fatti veri e che non aveva alcuna volontà di accusare taluno “sapendolo innocente”, come prescrive il codice penale per la configurazione del reato, ma solo quella di difendersi mettendo gli inquirenti al corrente di fatti in modo che non prendessero abbagli.

La pubblica accusa nel corso della requisitoria ha chiesto la conferma della condanna di primo grado.

E così, allo stesso modo la parte civile rappresentata da Fabio Repici per Bisognano e da Mariella Cicero per lo stesso Repici.