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La beffa dei collaboratori di giustizia: la Cassazione mette il sigillo all’inchiesta Vecchia Maniera che portò in carcere l’ex boss di Barcellona Carmelo Bisognano. Passa in giudicato la condanna a 5 anni per Tentata estorsione e Intestazione fittizia di beni

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                           Carmelo Bisognano

Per anni boss della mafia, dal 2010, dall’inizio della collaborazione con la giustizia, era protetto dallo Stato ma se ne faceva beffa, commettendo reati.

La Corte di Cassazione mette il sigillo all’inchiesta del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto che il 16 maggio del 2016 portò in carcere il boss di Barcellona Carmelo Bisognano e l’imprenditore di Gioiosa Marea Tindaro Marino.

I giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso, dichiarato inammissibile, proposto dai legali dei due imputati.

E’ così passata in giudicato la sentenza della Corte d’appello di Messina che il 26 marzo del 2019 aveva condannato  a 5 anni di reclusione il collaboratore di giustizia per tentata estorsione e intestazione fittizia di beni e a due anni l’imprenditore Marino, accusato però solo (in concorso) di intestazione fittizia.

I reati sono stati commessi tra il 2015 e il 2016 mentre Bisognano, collaboratore di giustizia dal 2010, si trovava sotto la protezione e i contribuenti italiani gli pagavano la scorta, due avvocati, la casa, i viaggi e un assegno mensile di 1600 euro.

Gli arresti scattarono anche per Angelo Lorisco, uomo fidato di Bisognano.

Lorisco ha scelto il rito abbreviato e, per gli stessi reati che hanno portato ora alla condanna dell’ex collaboratore, l’8 gennaio 2017 è stato condannato a tre anni di reclusione.

A cavallo tra il 2015 e il 2016, gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo scoprirono che Bisognano dalla località protetta, usando proprio Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale e condannato all’epoca per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, Bisognano tramite Lorisco aveva – secondo l’ipotesi accusatoria che ha tenuto in tutti i gradi del processo – strumentalizzato il ruolo di collaboratore e tentato di sottoporre a estorsione i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda, minacciandoli di fare dichiarazioni sul loro conto.

Sull’ex capomafia, la cui collaborazione è stata molto utile per mettere alla sbarra vari esponenti della mafia del Longano e di fare luce su diversi delitti, pendono altri processi, tutti figli dell’inchiesta Vecchia Maniera.

E’ infatti sotto processo per un’altra ipotesi per estorsione consumata sempre ai danni degli imprenditori Torre, inizialmente sfuggita alla direzione distrettuale antimafia di Messina, che dopo averne per anni gestito la collaborazione è stata costretta a chiederne gli arresti.

Carmelo Bisognano, è pure sotto processo a Roma per accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio.

Sempre dalle indagini del commissario di Barcellona era pure emerso che due degli agenti che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento in violazione di ogni norma regolamentare con i propri avvocati Mariella Cicero e Fabio Repici e con altri collaboratori di giustizia, e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

La procura di Roma, guidata all’epoca da Giuseppe Pignatone, a cui erano stati trasmessi gli atti per competenza territoriale, ha declinato l’accusa in termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e di violazione del segreto d’ufficio.

Nel frattempo, un anno e due mesi dopo gli arresti, a Bisognano è stato revocato il programma di protezione e, non potendo più godere dei benefici riservati a chi collabora, l’ex boss si trova recluso in un carcere. 

Bisognano, infatti, sta scontando una condanna passata in giudicato a 13 anni di reclusione rimediata nell’ambito del processo Gotha per omicidio e associazione mafiosa. Ora si aggiunge questa a 5 anni.

Lo Stato gli garantisce comunque la tutela.

La legittimità della revoca è stata avallata prima dal Tribunale amministrativo del Lazio e dal Consiglio di Stato, nel giudizio cautelare e poi, di recente, sempre dal Tar, nel giudizio di merito, il 18 gennaio del 2021.

Tuttavia, per il suo legale Fabio Repici, Bisognano è stato vittima di un complotto, ordito tra gli altri dallo stesso commissario Ceraolo.

Per questo ha fatto denunce in diverse sedi,anche pubbliche.

In pratica, volendo trarre le sintetiche conclusioni dal materiale dell’inchiesta, secondo il legale, noto in tutta Italia per le sue battaglie in nome della legalità, Bisognano commetteva reati, per alcuni dei quali ora è stato condannato con sentenza definitiva, per dare un aiutino a coloro che avevano ordito il complotto.

Vecchia Maniera, la Corte d’appello conferma la condanna a 5 anni per il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano. I reati di tentata estorsione e intestazione fittizia di beni commessi mentre era sotto protezione. In corso gli altri processi “figli” dell’inchiesta coordinata dal commissario Mario Ceraolo

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Il vice questore Mario Ceraolo

Il vice questore Mario Ceraolo, artefice dell’inchiesta Vecchia Maniera

 

Tentata estorsione e intestazione fittizia di beni.

La Corte d’appello di Messina conferma la condanna per Carmelo Bisognano a 5 anni di reclusione, inferta dal Tribunale di Barcellona il 27 settembre del 2017.

I giudici di secondo grado hanno confermato anche la pena a due anni irrogata in primo grado all’imprenditore di Gioiosa Marea Tindaro Marino, accusato però solo (in concorso) di intestazione fittizia.

I reati sono stati commessi tra il 2015 e il 2016 mentre Bisognano, collaboratore di giustizia dal 2010, si trovava sotto la protezione dello Stato e i contribuenti italiani gli pagavano la scorta, due avvocati, la casa, i viaggi e un assegno mensile di 1600 euro.

L’ex boss della mafia di Barcellona e l’imprenditore erano stati arrestati il 16 maggio del 2016 nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera.

Gli arresti scattarono anche per Angelo Lorisco, uomo fidato di Bisognano.

Lorisco ha scelto il rito abbreviato e per gli stessi reati che hanno portato ora alla condanna dell’ex collaboratore, l’8 gennaio 2017 è stato condannato a tre anni di reclusione dal Tribunale. La Corte d’appello, il 20 ottobre del 2017, ha confermato il verdetto.

 

La strumentalizzazione del ruolo di collaboratore

Gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Angelo Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale e condannato all’epoca per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, Bisognano tramite Lorisco aveva – secondo l’ipotesi accusatoria provata anche per i giudici di secondo grado – strumentalizzato il ruolo di collaboratore e tentato di sottoporre a estorsione i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda, minacciando di fare dichiarazioni sul loro conto.

I figli di Vecchia Maniera

Sull’ex capomafia, la cui collaborazione è stata molto utile per mettere alla sbarra vari esponenti della mafia del Longano e di fare luce su diversi delitti, pendono altri processi, tutti figli dell’inchiesta Vecchia Maniera. 

Da ultimo è stato rinviato a giudizio per estorsione consumata.

Nel frattempo, un anno e due mesi dopo gli arresti, gli è stato revocato il programma di protezione e Bisognano, non potendo più godere dei benefici riservati a chi collabora, si trova recluso in un carcere.

Lo Stato gli garantisce comunque la tutela.

Per tutti i dettagli dell’intera inchiesta “Vecchia Maniera” e gli ultimi sviluppi si può leggere (cliccando sul link)  l’articolo di Michele Schinella pubblicato il 20 febbraio del 2019 dal titolo : “Estorsione aggravata dal metodo mafioso, Carmelo Bisognano a giudizio per un altro reato commesso mentre era collaboratore di giustizia. Tutti i guai dell’ex capo della mafia di Barcellona, privo della rete del programma di protezione e di recente condannato a 13 anni di reclusione. Mentre il suo avvocato Fabio Repici continua a evocare complotti”.

 

 

 

Estorsione aggravata dal metodo mafioso, Carmelo Bisognano a giudizio per un altro reato commesso mentre era collaboratore di giustizia. Tutti i guai dell’ex capo della mafia di Barcellona, privo della rete del programma di protezione e di recente condannato a 13 anni di reclusione. Mentre il suo legale Fabio Repici continua ad evocare i complotti

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

Estorsione aggravata dal metodo mafioso, commessa mentre lo Stato gli assicurava la protezione e diversi benefici economici, compresa l’assistenza di due legali.

E’ questa l’ultima accusa da cui si dovrà difendere Carmelo Bisognano.

L’ex capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto, dal 2010 collaboratore di giustizia, è stato rinviato a giudizio dal giudice per le indagini preliminari di Messina Maria Militello.

Il processo inizierà il prossimo 13 maggio davanti al Tribunale di Barcellona.

L’estorsione che gli viene ora contestata, in realtà, è un fatto di (ipotetico) reato emerso nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera, che il 18 maggio del 2016 portò in carcere l’ex capomafia, il suo uomo fidato, Angelo Lorisco, e l’imprenditore di Gioiosa Marea, Tindaro Marino.

Il fatto delittuoso era sfuggito ai sostituti della direzione distrettuale antimafia Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo che dopo averne gestito per anni la collaborazione furono costretti in tutta fretta a chiedere la misura cautelare più rigorosa.

Gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo, infatti, avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto anch’egli alla misura di prevenzione patrimoniale e già condannato all’epoca in secondo grado per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, poi – secondo gli accertamenti investigativi – Bisognano tramite Lorisco, strumentalizzando il ruolo di collaboratore, aveva preso di mira i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda: nei loro cantieri cominciò a presentarsi assiduamente Lorisco, che spendendo il nome di Bisognano e minacciando dichiarazioni sul loro conto chiedeva utilità di varia natura.

La Procura, oltre all’intestazione fittizia di beni, infatti, a Bisognano e Lorisco aveva contestato il tentativo di estorsione, consistito nell’aver preteso di far lavorare i propri mezzi negli appalti che i Torre avevano in corso di esecuzione.

Il processo, tenuto a Barcellona, si è concluso il 27 settembre del 2017 con la condanna di Bisognano a 5 anni di reclusione, Marino a 2 anni. Lorisco in abbreviato ha avuto tre anni.

Per Lorisco c’è stata già la conferma della condanna nel grado di appello.

Il giudizio di secondo grado per Bisognano e Marino non si è ancora tenuto.

Nel condannare Lorisco, è stato proprio il Gup di Barcellona Fabio Gugliotta a disporre la trasmissione degli atti alla Procura perché valutasse la sussistenza a carico dello stesso Lorisco e di Bisognano e  di un’ulteriore ipotesi di estorsione, questa volta consumata.

L’ultima estorsione

Specificamente, di aver costretto i Torre ad acquistare da loro dei pneumatici per camion di cui non avevano alcun bisogno.

Infatti, i fratelli Torre, Giuseppe e Giovanni, oltre a raccontare che Lorisco, perfettamente informato sull’andamento aziendale, chiedeva insistentemente di poter partecipare ai loro lavori, avevano riferito che erano stati costretti a comprare 5 grossi pneumatici, peraltro di misura diversa da quella adeguata ai loro mezzi.

In sostanza, a parte la discrasia sul numero dei pneumatici, tra il capo di imputazione e quanto dicono i Torre,  è questa l’accusa che ha mosso il sostituto procuratore della Dda Fabrizio Monaco, ottenendo l’avallo del Gup Militello.

Il giovane giudice ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso (che importa un aumento di pena da un terzo alla metà).

L’aggravante…. resuscitata

Il gup Militello l’ha pensata allo stesso modo del collega Gup di Barcellona, Salvatore Pugliese.

Era stato infatti davanti a quest’ultimo giudice che la procura di Barcellona aveva chiesto il rinvio a giudizio ipotizzando l’estorsione consumata ma non aggravata dal metodo mafioso. Pugliese ha, invece, osservato che il reato è chiaramente aggravato dal metodo mafioso perché i Torre si sono convinti a comprare i pneumatici che non servivano per la condizione di assoggettamento determinata dal trovarsi al cospetto di un capomafia.

Così la competenza è tornata alla direzione distrettuale antimafia di Messina, che ha esercitato l’azione penale davanti al Gip distrettuale, Maria Militello appunto.

Il legale Repici, aveva impugnato  la sentenza di Pugliese davanti alla Cassazione, ma è stato bocciato dai giudici con l’ermellino che non sono comunque entrati nel merito.

Le sue argomentazioni non hanno convinto neppure la Militello.

Tutti i nodi vengono al pettine

Carmelo Bisognano, la cui collaborazione ha permesso di mettere alla sbarra vari esponenti della mafia del Longano e di fare luce su diversi delitti, è pure sotto processo a Roma per accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio

Sempre dalle indagini del commissario di Barcellona era pure emerso che due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento, anche con altri collaboratori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

La procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, a cui erano stati trasmessi gli atti per competenza territoriale, ha declinato l’accusa in termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e di violazione del segreto d’ufficio e ha chiesto la misura del carcere accolta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, ed eseguita il 7 luglio 2017.

Dichiarazioni di favore…forse si…forse no

Le intercettazioni hanno disvelato in maniera chiara che Bisognano in cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, si era impegnato nell’ambito di indagini difensive a fare nuove e diverse dichiarazioni favorevoli all’imprenditore di Gioiosa Marea, in modo da alleggerirne la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Dapprima, al momento della richiesta di misura cautelare, i due sostituti Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato le dichiarazioni rese da Bisognano in precedenza sul conto di Marino con quelle rese il 30 settembre del 2015 al difensore di Marino, Salvatore Silvestro, presenti i difensori del collaboratore Fabio Repici e Mariella Cicero, si erano convinti che questi avesse cambiato effettivamente le dichiarazioni, depositate effettivamente in Cassazione e nel giudizio di prevenzione dal legale di Marino.

Dello stesso avviso il gip Monica Marino, che accolse la richiesta di misure cautelari.

E’ stato lo stesso collaboratore nell’interrogatorio di garanzia ad ammettere: “Mi sono messo d’accordo per modificare le dichiarazioni, ma poi non l’ho fatto”

Proprio a seguito di questa giustificazione, i due magistrati hanno controllato e hanno cambiato idea chiedendo per questo capo di accusa l’archiviazione.

Il Gip Monica Marino è rimasta della sua idea. Ha rigettato e ordinato l’imputazione coattiva: “Le dichiarazioni sono state cambiate per interessi economici”, ha scritto il Gip Marino dopo aver messo ancora una volta a confronto le dichiarazioni.

Tre mesi dopo, il 17 novembre del 2017, un altro Gip del Tribunale di Messina Simona Finocchiaro ha accolto la richiesta di archiviazione ribadita dai due sostituti della Dda.

Tirando le fila, a seguire le conclusioni dell’inchiesta su questa imputazione, Bisognano ha raggirato il suo “socio finanziatore” Marino.

La revoca del programma di protezione

Benché – come hanno mostrato le indagini del commissariato di Barcellona e come lo stesso Bisognano ha ammesso nel corso dell’interrogatorio di garanzia subito dopo l’arresto del 16 maggio del 2017  – si sia reso protagonista di gravi violazione del regolamento imposto a pena di revoca (a prescindere dalla responsabilità penale), Bisognano è rimasto nel programma di protezione sino all’estate del 2017, per oltre un anno e due mesi.

Il 26 maggio del 2017 Il Tribunale di Barcellona (che poi lo ha condannato) su richiesta del suo difensore Repici lo ha scarcerato, anche sulla base della considerazione che il programma di protezione non fosse stato revocato.

Il programma di protezione è stato revocato il primo agosto del 2017, qualche giorno dopo gli arresti ordinati dal Gip di Roma.

Tre mesi prima, il 10 maggio del 2017, il senatore del M5Stelle, Luigi Gaetti, aveva presentato un’interrogazione parlamentare ai ministri della Giustizia e dell’Interno chiedendo spiegazioni sul trattamento di favore che l’ex boss aveva ricevuto e stava ricevendo. L’allora vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, ora sottosegretario di Stato agli Interni, due giorni dopo, però, l’ha ritirata: “Mi è stato detto fosse fondata su dati inesatti”, si è giustificato. “La ripresento appena avrò controllato”, promise.

I dati invece erano veri, ma Gaetti l’interrogazione non l’ha più ripresentata, né ha mai spiegato chi lo avesse indotto a ritirarla.

I legali di Bisognano per contestare la decisione della Commissione centrale si sono rivolti al Tribunale amministrativo del Lazio e poi al Consiglio di Stato.

I giudici amministrativi di primo e secondo grado hanno però ritenuto, almeno nella fase cautelare, legittima la revoca del programma di protezione in quanto giustificata da “gravi e reiterate violazione delle regole imposte ad un collaboratore”.

Di professione… complottista

Tuttavia, per il legale Fabio Repici che, insieme alla collega di studio Mariella Cicero, sin dall’inizio della collaborazione lo ha assistito, Bisognano è vittima di un complotto ordito dal commissario Ceraolo, dall’avvocato Ugo Colonna, da Saro Cattafi, l’avvocato di Barcellona accusato da Bisognano di essere stato il capo della mafia di Barcellona sino al 2012, e dal legale di quest’ultimo, Salvatore Silvestro.

Repici ha indicato una delle possibili finalità del complotto: “E’ stata un’operazione tesa a fare conseguire a Cattafi l’impunità”, ha ripetuto più volte, anche sfidando la logica, senza offrire né fatti, né elementi di prove. Che invece indicano chiaramente come Bisognano autonomamente da collaboratore intraprenda attività e tenga condotte declinate in termini di reati penali da diversi pubblici ministeri e giudici (anche amministrativi) di differenti Tribunali d’Italia.

La cronologia smentisce la dietrologia

Le dichiarazioni di Bisognano su Cattafi, sono state ritenute non riscontrate né credibili dalla Corte d’appello di Messina che riformando la condanna di primo grado ha assolto Cattafi dall’accusa di essere stato non solo capo della mafia ma anche semplice affiliato dal 2000 in poi.

La sentenza della Corte d’appello, che successivamente ha avuto l’avallo della Corte di Cassazione, è del 24 novembre del 2015, 7 mesi prima che Bisognano fosse arrestato nell’ambito di Vecchia Maniera e si conoscessero le imprese che realizzava mentre era collaboratore di giustizia.

 

Obiettivo libertà

La revoca del programma di protezione significa in concreto non solo la perdita dei benefici economici, ma anche l’impossibilità di accedere alle misure alternative al carcere, ovvero a vivere pressoché liberi e protetti benché riconosciuti colpevoli di efferati delitti, obiettivo principale dei collaboratori di giustizia.

Bisognano, salvo che il programma non venga ripristinato o dai giudici amministrativi o per effetto di nuove e inedite dichiarazioni dello stesso collaboratore, dovrà scontare le pene in carcere.

Di recente, è stato condannato con sentenza definitiva a 13 anni di reclusione nell’ambito del processo Gotha 1 per associazione mafiosa e un omicidio, commessi prima di iniziare la collaborazione.

Bisognano, rimasto senza programma di protezione e recluso quindi in carcere, ha continuato a collaborare.

Il ministero degli Interni a tutela della sua incolumità gli garantisce la scorta e speciali misure di protezione.

 

 

 

Caso Bisognano: il Tar del Lazio ritiene legittima e giustificata la revoca del programma di protezione all’ex boss di Barcellona: “Condotte incompatibili con lo status di collaboratore”. Naufraga pure davanti ai giudici amministrativi la tesi del complotto del suo legale Fabio Repici

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

La revoca del programma di protezione al collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano?

Per il Tribunale amministrativo del Lazio è legittima e giustificata dalle reiterate e gravi violazioni degli impegni assunti proprio a pena di revoca dall’ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto nel 2010, quando divenne collaboratore di giustizia.

L’ordinanza è stata emessa nell’ambito un giudizio cautelare, deciso quindi ad un sommario esame, instaurato da Fabio Repici e Biagio Parmaliana, i legali del collaboratore che con le sue rivelazioni ha consentito di fare luce su una serie di vicende criminose e di disarticolare le cosche del Longano.

Tuttavia, nel caso di specie, la decisione dei giudici è stata più ponderata del solito.

Infatti, in una prima udienza (il 5 dicembre 2017), alla luce delle argomentazioni difensive e della delicatezza della vicenda, l’organo di giustizia amministrativa ha chiesto al ministero degli Interni una documentata relazione.

Dopo averla esaminata, un mese dopo, i giudici amministrativi hanno concluso: “La revoca del programma di protezione risulta fondato su circostanziati pareri delle competenti autorità essendo stata, in particolare modo, ritenuta rilevante la reiterazione di comportamenti contrastanti con lo status di collaboratore di giustizia“.

Per legge la revoca del programma di protezione, che garantisce oltre alla scorta, uno stipendio mensile di 1600 euro, la casa, gli avvocati pagati dallo Stato, è obbligatoria quando il collaboratore incorre in violazioni degli obblighi che si impegna a rispettare al momento in cui è ammesso al programma stesso.

All’ex boss di Barcellona non solo sono state contestate violazioni regolamentari, ma vere e proprie ipotesi di reato.

Altro che scivoloni su bucce di banana….

Bisognano è passato dalla località protetta al carcere di Rebibbia il 18 maggio del 2016 su ordine del Gip del Tribunale di Messina Monica Marino che ha accolto la richiesta dei sostituti della Dda Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, i magistrati che ne hanno curato sin dall’inizio la collaborazione.

Gravi i reati che gli sono stati attribuiti: intestazione fittizia di beni, tentata estorsione, false dichiarazioni al difensore, violazione del segreto d’ufficio e accesso abusivo al sistema informatico.

L’inchiesta Vecchia Maniera, condotta dal commissariato di Barcellona guidato da Mario Ceraolo, aveva evidenziato come il collaboratore, boss della mafia e autore di decine di delitti, mentre girava libero e scortato per i Tribunali della Sicilia e puntava l’indice consentendo una serie di operazioni di polizia, teneva contatti con esponenti dei clan mafiosi impartendo loro istruzioni; svolgeva attività imprenditoriale sotto mentite spoglie; concordava dichiarazioni assolutorie con condannati per mafia o minacciava di fare dichiarazioni che aveva omesso al fine di ottenere vantaggi economici; acquisiva grazie alla complicità degli uomini della scorta notizie riservate dalla Banca dati della polizia; si incontrava con chi voleva  (anche con altri collaboratori di giustizia) nella località protetta.

 

Una prima sentenza

Più specificamente, gli inquirenti avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Angelo Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale e condannato all’epoca per concorso esterno alla mafia.

Tramite Lorisco aveva – secondo l’ipotesi accusatoria – strumentalizzato il ruolo di collaboratore e tentato di sottoporre a estorsione i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda, minacciando di fare dichiarazioni sul loro conto.

E’ stato così rinviato a giudizio per intestazione fittizia di beni e tentata estorsione.

Il 28 settembre 2017 è stato condannato in primo grado a 5 anni di reclusione dal Tribunale di Barcellona.

Un proscioglimento controverso

Come hanno disvelato in maniera chiara le intercettazioni, Bisognano in cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, si era impegnato nell’ambito di indagini difensive a fare nuove e diverse dichiarazioni favorevoli all’imprenditore di Gioiosa Marea, in modo da alleggerirne la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Dapprima, al momento della richiesta di misura cautelare, i due sostituti Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato le dichiarazioni rese da Bisognano in precedenza sul conto di Marino con quelle rese il 30 settembre del 2015 al difensore di Marino, Salvatore Silvestro, presenti i difensori del collaboratore Fabio Repici e Mariella Cicero, si erano convinti che questi avesse cambiato effettivamente le dichiarazioni.

Dello stesso avviso il gip Marino.

E’ stato lo stesso collaboratore nell’interrogatorio di garanzia ad ammettere: “Mi sono messo d’accordo per modificare le dichiarazioni, ma poi non l’ho fatto”

Proprio a seguito di questa giustificazione, i due magistrati hanno controllato e hanno cambiato idea chiedendo per questo capo di accusa l’archiviazione.

Il Gip Monica Marino è rimasta della sua idea. Ha rigettato e ordinato l’imputazione coattiva: “Le dichiarazioni sono state cambiate per interessi economici”, ha scritto il Gip Marino dopo aver messo a sua volta a confronto le dichiarazioni.

Tre mesi dopo, il 17 novembre del 2017, un altro Gip del Tribunale di Messina Simona Finocchiaro ha accolto la richiesta di archiviazione ribadita dai due sostituti della Dda.

 

L’ arresto romano abortito… per vizi procedurali

Scarcerato dal Tribunale di Barcellona il 17 maggio del 2017, dopo un anno esatto di carcere, anche sulla base del fatto che il programma di protezione non fosse stato revocato, venerdì 7 luglio 2017 Bisognano è stato nuovamente arrestato su ordine del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, che ha accolto la richiesta della Procura, guidata da Giuseppe Pignatone.

Dalle intercettazioni telefoniche era pure emerso che il collaboratore servendosi di due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, aveva accesso alla Banca dati della polizia assumendo informazioni riservate.

La Procura di Roma, a cui erano stati trasmessi gli atti perché – secondo Di Giorgio e Cavallo – i fatti erano stati commessi in località protetta, ha declinato l’accusa nei termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e violazione del segreto d’ufficio e ritenendo allarmante la condotta del collaboratore all’epoca libero e protetto aveva chiesto e ottenuto la misura cautelare più severa.

Il Tribunale della Libertà aveva condiviso il ragionamento di Gip e Procura.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rilevato dei vizi procedurali: non risultavano infatti dalla motivazione se fossero stati depositati in cancelleria tutti i brogliacci delle intercettazioni e non risultava spiegata la connessione tra i reati commessi a Messina di tentata estorsione e intestazione fittizia di beni con quelli contestati a Roma: detta connessione è necessaria per poter utilizzare le stesse intercettazioni.

Ha così rinviato al Tribunale della Libertà per motivare sui due punti.

Che a quel punto, a novembre del 2017, ha ordinato la scarcerazione di Bisognano.

Tra le informazioni che Bisognano chiede e ottiene dagli uomini della scorta ci sono quelle su alcuni mezzi meccanici da adibire all’attività di impresa da svolgere sotto mentite spoglie: ciò che gli è valso la condanna per intestazione fittizia di beni.

 

Tanti incontri vietati e…. imbarazzanti

Le indagini coordinate dal commissario Ceralo aveva evidenziato come Bisognano grazie alla leggerezza degli uomini della scorta si incontrava con esponenti della mafia (tra questi Stefano Rottino) e con persone di sua conoscenza nel Tribunale di Messina in occasione delle udienze.

Stessa libertà d’azione ce l’aveva in località protetta, dove si incontrava con altri collaboratori di giustizia, appartenenti ad altri sodalizi criminali.

Tra gli incontri non proprio in linea, secondo gli inquirenti, con lo status di collaboratore e con le esigenze di sicurezza ce n’è pure uno con gli avvocati Mariella Cicero e Fabio Repici, che viene segnalato all’autorità giudiziaria

E’ l’8 marzo del 2016. Sono le 13 circa. Bisognano viene intercettato mentre dà indicazioni stradali ai due legali che non riescono a trovare il posto dove si erano dati appuntamento. “Il collaboratore si incontra con i suoi legali con cui va a pranzo”, scrive uno degli inquirenti in un allegato all’informativa.

Ma c’è anche di più.

Mario Ceraolo nell’informativa alla Procura di Messina, all’epoca diretta da Guido Lo Forte, aveva anche rilevato: “Bisognano ha avuto la possibilità di accedere ad informazioni, anche coperte dal segreto istruttorio che quasi quotidianamente gli vengono fornite dal suo difensore Maria Rita Cicero con condotte che non rappresentano soltanto una evidente violazione dei doveri deontologici ma configurano precisi reati penali e che consentono al Bisognano di meglio operare nel comprensorio della provincia di Messina”, ha scritto.

“Non mi risulta di essere indagata, non ho ricevuto nulla”, ha dichiarato Mariella Cicero  a giugno del 2017, sentita come teste a difesa di Bisognano tenuto a Barcellona.

A scuola di complottismo

Per i suoi legali Fabio Repici e Mariella Cicero, Bisognano è vittima di un complotto ordito dall’avvocato Ugo Colonna, da Mario Ceraolo, da Saro Cattafi, l’avvocato di Barcellona che Bisognano aveva accusato di essere il capo dei capi della mafia e le cui accuse non sono state ritenute credibili dalla Corte d’appello di Messina, e dal legale di quest’ultimo Salvatore Silvestro.

La tesi del complotto è stata propugnata con forza anche nelle aule giudiziarie, ma non ha incantato il Tribunale di Barcellona, il Gup Monica Marino, la Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, il Gip di Roma Chiara Gallo e il Tribunale della Libertà di Roma e, infine, i giudici del Tribunale amministrativo regionale.

Le condotte “illecite” di Bisognano sono venute alla luce al momento degli arresti. Il programma di protezione è stato revocato nell’autunno del 2017, un anno e mezzo dopo.

I 5 stelle…rivoluzionari e oscurati

Nel frattempo, a maggio del 2017, uno dei più importanti esponenti del Movimento 5 Stelle, Luigi Gaetti, vicepresidente della Commissione antimafia, aveva presentato un’interrogazione al ministro degli Interni e della Giustizia per chiedere se fossero veri dei fatti che in ipotesi dimostravano che a Bisognano fosse stato riservato un trattamento di favore, compresa la mancata revoca del programma di protezione.

Ma dopo due giorni il senatore ha fatto marcia indietro e l’ha ritirata. Si giustificò “Mi è stato detto che è fondata su dati non completi”.

Da chi? “Non lo posso rivelare”.

Sicurezza garantita

Bisognano, rimasto senza programma di protezione, ha continuato a collaborare.

Il ministero degli Interni a tutela della sua incolumità gli garantisce la scorta..

Spedizione punitiva nel carcere di Gazzi, condannati gli otto autori dell’aggressione a Angelo Lorisco e Stefano Rottino. Alla base della “lezione”, l’aiuto al collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, arrestato insieme a loro nell’inchiesta Vecchia Maniera

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L'entrata del carcere di Gazzi

L’entrata del carcere di Gazzi

 

Organizzarono e portarono a segno a colpi di pugni e schiaffi la spedizione punitiva contro Angelo Lorisco e Stefano Rottino, perchè “colpevoli” di avere aiutato Carmelo Bisognano, benché l’ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto avesse collaborato (dal 2010) con la giustizia contribuendo a fare arrestare molti esponenti dell’organizzazione mafiosa, tra cui alcuni di loro.

Per l’aggressione ad Angelo Lorisco e a Stefano Rottino, avvenuta nel carcere di Gazzi il 26 maggio del 2016, sono stati condannati Salvatore Bucolo, Angelo Bucolo, Maurizio Trifirò, Santino Benvenga, Carmelo Maio, Sebastiano Torre, Mario Pantè e Marco Chiofalo.

Le due vittime dell’aggressione erano stati arrestati qualche giorno prima,il 18 maggio del 2016, nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera, che ha portato in carcere il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano.

L’ex boss era accusato di aver continuato a delinquere (intestazione fittizia di beni, tentata estorsione ai danni dell’impresa Torre e False dichiarazioni al difensore)  anche mentre era sottoposto al programma di protezione, servendosi soprattutto di Angelo Lorisco (incriminato, infatti, in concorso con Bisognano per la tentata estorsione e l’intestazione fittizia di beni)

Mentre la stessa inchiesta aveva certificato dei contatti con Stefano Rottino, arrestato con l’accusa di tentata estorsione, avente ad oggetto del denaro, ai danni della profumeria Principato di Barcellona.

Fu per questo che il gruppo di esponenti del clan dei barcellonesi da tempo reclusi a Gazzi idearono l’aggressione.

Rottino fu colpito a calci e pugni nel cortile dell’area passeggio dai due Bucolo, Trifirò e Benvenga.

Qualche ora dopo, Lorisco fu aggredito dagli altri quattro imputati mentre in compagnia di un agente di polizia penitenziaria faceva ritorno nella sua cella: l’agente stesso rimase coinvolto e riportò un leggero trauma.

Due gruppi in azione

Le prognosi per Rottino e Lorisco furono inferiori ai 40 giorni e quindi gli aggressori rispondevano di lesioni personali lievi, pluriaggravate per le modalità e il movente.

Ai componenti del gruppo che aveva partecipato all’aggressione di Lorisco, era contestato pure il reato di resistenza a pubblico ufficiale.

Da qui e dai precedenti penali la diversità delle pene comminate agli imputati dal Tribunale di Messina, presieduto da Silvana Grasso.

Le pene nel dettaglio

Nel dettaglio, la pena più pesante è toccata a Mario Pantè, condannato a 7 anni e 4 mesi di reclusione; Carmelo Maio e Marco Chiofalo hanno rimediato una pena di anni 5 e 6 mesi; Sebastiano Torre di 5 anni e 3 mesi: i 4 hanno aggredito Lorisco.

Pene piu miti, visto che non rispondevano di resistenza a pubblico ufficiale, sono toccati a Maurizio Trifirò che ha “avuto” 4 anni e 8 mesi di reclusione; a Salvatore Bucolo, 4 anni e 2 mesi; a Angelo Bucolo e Santino Benvenga, 3 anni e 10 mesi di reclusione.

Se Rottino ha la pressione bassa

Completamente diverso l’atteggiamento nel processo da parte delle due vittime dell’aggressione.

Angelo Lorisco si è costituto parte civile e nel corso dell’esame dibattimentale ha confermato la dinamica dei fatti accertata dagli inquirenti, indicando le persone che aveva riconosciuto.

Stefano Rottino, a cui nell’agosto del 2006 era stato ammazzato da una frangia della stessa organizzazione mafiosa il fratello Ninì Rottino, invece ha dichiarato di non ricordare nulla di quanto gli è occorso, e che riteneva che le ferite riportate fossero una conseguenza di una caduta per effetto di un abbassamento di pressione, problematica di cui soffre da sempre.

Ora rischia l’incriminazione per falsa testimonianza: il Tribunale ha disposto infatti la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le valutazioni di competenza.

Gli esiti provvisori di Vecchia maniera

Per le accuse di intestazione fittizia di beni e tentata estorsione Angelo Lorisco è stato condannato in primo grado e in appello a tre anni di reclusione.

Stefano Rottino, già condannato in primo e secondo grado per associzioni di stampo mafioso, è stato prosciolto dall’accusa di tentata estorsione, avente ad oggetto denaro, ai danni della profumeria Principato.

Il gup Monica Marino, nell’ordinanza di proscioglimento ha rilevato come se anche non ci siano stati pagamenti in denaro né nelle richieste si facesse riferimento a denaro ma a profumi, comunque quest’ultimi erano stati consegnati dai titolari della profumeria per la paura nascente dalla caratura criminale di Rottino, con cui non avevano alcun rapporto.

Per gli stessi reati di Lorisco, l’ex boss Carmelo Bisognano è stato condannato a cinque anni in primo grado.

Dal luglio del 2017, Bisognano è in carcere a Roma in quanto accusato anche di accesso abusivo al sistema informatico e di violazione del segreto d’ufficio, reati in ipotesi commessi in concorso con gli agenti della scorta deputati a proteggerlo.

La Corte di cassazione in data 27 ottobre del 2017 ha annullato l’ordinanza del Gip del tribunale di Roma, rilevando un vizio di motivazione in ordine alla connessione tra i reati commessi a Messina e quelli commessi a Roma: se mancasse non si potrebbero usare a Roma le intercettazione raccolte dal commissariato di Barcellona.

Di recente, a un anno e mezzo dagli arresti del maggio del 2016, a Bisognano è stato revocato il programma di protezione, sanzione prevista in caso di violazione delle regole di condotta imposte a un collaboratore, anche se non sfociano in reati.

 

 

Le dichiarazioni “di favore” del collaboratore di Giustizia Carmelo Bisognano, la Procura insiste per il proscioglimento e il gip Simona Finocchiaro accoglie. Revocato il programma di protezione un anno e mezzo dopo gli arresti

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

 

Da collaboratore di giustizia si era impegnato a fare nuove dichiarazioni in cambio dell’aiuto economico necessario ad iniziare l’attività imprenditoriale sotto mentite spoglie, ma poi in sede di indagini difensive il 30 settembre del 2015 non ha cambiato la sua versione fornita in precedenza sulla caratura criminale dell’imprenditore Tindaro Marino, a cui le dichiarazioni servivano per tentare di sfuggire alla condanna per concorso esterno e al sequestro di tutti i beni.

E’ questa la conclusione cui è giunto il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Messina, Simona Finocchiaro, disponendo il proscioglimento di Carmelo Bisognano, ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto, dal 2010 collaboratore di giustizia.

Arrestato il 18 maggio del 2016 nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera anche per Tentata estorsione e Intestazione fittizia di beni, reati per cui è stato condannato in primo grado, Bisognano era imputato del reato di False dichiarazioni al difensore rilasciate nell’ambito di investigazioni difensive.

 

Stesse dichiarazioni, valutazioni diametralmente opposte

Il giudice Finocchiaro l’ha pensata in modo diametralmente opposto alla collega Monica Marino e ha aderito all’assunto dei sostituti della direzione distrettuale antimafia, Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio, che hanno insistito per il proscioglimento del collaboratore di giustizia.

Il giudice per le indagini preliminari Marino, infatti, il 26 giugno del 2017, aveva rigettato la prima richiesta di archiviazione avanzata dagli stessi magistrati Cavallo e Di Giorgio e  aveva ordinato loro di disporre l’imputazione coattiva nei confronti di Bisognano, di Tindaro Marino e di Angelo Lorisco, ovvero colui che teneva i rapporti tra Bisognano, in località protetta dal momento dell’inizio della collaborazione avvenuta nel 2010, e Marino, all’epoca agli arresti domiciliari.

Le dichiarazioni della discordia

I due pm Cavallo e Di Giorgio, che hanno gestito sin dall’inizio la collaborazione grazie alla quale sono stati arrestati vari esponenti della mafia del Longano e hanno chiesto nel 2016 gli arresti per Bisognano, non si sono discostati dalla prima richiesta di archiviazione che avevano motivato aderendo a quella che sin da subito era stata la tesi difensiva di Bisognano e del suo avvocato Fabio Repici.

E da questa tesi, nonostante la bocciatura della Marino, non si sono mossi.

Il collaboratore di giustizia, un mese dopo gli arresti, ha chiesto e ottenuto di essere interrogato dai due pm Di Giorgio e Cavallo: “Ammetto di aver fatto il patto con Marino e che questi in cambio ha acconsentito entrare come socio occulto nella società Ldm Costruzioni Srl dietro la condizione che facessi nuove dichiarazioni sul suo conto. E’ stato un grave errore e una violazione delle regole che mi imponeva il programma di protezione”.

Che ci fossero state delle trattative per rendere delle dichiarazioni di favore era un dato di fatto. C’erano infatti molteplici intercettazioni telefoniche e ambientali che attestavano le trattative tra Bisognano e Tindaro Marino.

“Tuttavia, non ho detto il falso né ho cambiato versione rispetto a quanto avessi dichiarato prima“, ha affermato dinanzi ai due pm Bisognano.

Insomma – seguendo il ragionamento di Bisognano – Marino  in cambio del suo aiuto economico voleva dal collaboratore delle dichiarazioni di favore; Bisognano ha accettato la proposta “scellerata”; Marino ha chiesto insistentemente al suo difensore, Salvatore Silvestro, di sentire Bisognano; il 30 settembre del 2015, alla presenza dei suoi difensori Fabio Repici e Mariella Cicero, il collaboratore però poi queste dichiarazioni di favore non le ha fatte; tuttavia, il legale di Marino le ha depositate in Cassazione e in Corte d’appello e Marino stesso è entrato lo stesso in società con Bisognano, offrendo il suo apporto economico per l’attività di Ldm Costruzioni Srl.

In conclusione, l’imprenditore Marino – a seguire la tesi difensiva – è stato in qualche modo raggirato da Bisognano.

Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato la trascrizione della registrazione integrale delle dichiarazioni rese il 30 settembre del 2015 con quelle rese in precedenza, hanno sposato la tesi di Bisognano: “Nelle linee essenziali, le dichiarazioni di Bisognano su Marino non sono cambiate”, hanno scritto nella prima richiesta di archiviazione, cambiando così l’idea che si erano fatti al momento di richiedere la misura cautelare per Bisognano.

Al collaboratore, infatti, avevano contestato, sulla base dei verbali riassuntivi, anche di aver fatto dichiarazioni diverse e di favore rispetto a prima sul conto dell’imprenditore di Gioiosa Marea.

Questione di Giudice

Lo stesso lavoro di confronto tra le dichiarazioni del 30 settembre del 2015 (sia dei verbali riassuntivi che delle dichiarazioni integrali) e quelle rese in precedenza lo ha fatto il Gip Marino, che era giunto senza esitazioni a conclusioni invece diametralmente opposte a quelle dei due pm e ora della collega Finocchiaro.

Conclusivamente, può senz’altro sostenersi che Carmelo Bisognano, in ossequio ad accordi presi in precedenza con Tindaro Marino, abbia rilasciato false dichiarazioni sullo stesso Marino, in quanto oggettivamente diverse da quelle rese in precedenza, assolutamente più favorevoli in quanto ne attenuano non poco la sua responsabilità penale e ciò al fine di conseguire un’utilità e un vantaggio di non poco rilievo: poter iniziare a svolgere una nuova e lucrosa attività imprenditoriale al riparo da occhi indiscreti”, aveva scritto il 26 giugno scorso il Gip Marino, giudice che aveva accolto la richiesta di misure cautelari per l’ex boss del Longano.

Alla Vecchia Maniera

Tre mesi dopo, il 28 settembre del 2017, per il reato di intestazione fittizia di beni (proprio nella società Ldm Costruzione srl) e di tentata estorsione che, unitamente al reato di False dichiarazioni ora archiviato dal Gip Finocchiaro,  gli erano stati contestati al momento degli arresti, Bisognano è stato condannato in primo grado a 5 anni di reclusione dal Tribunale di Barcellona. A due anni è stata la pena per Marino.

 

Se la Procura di Roma bussa alla porta

Da venerdì 7 luglio 2017 Bisognano è nel carcere di Rebibbia. Era stato prelevato dalla località in cui viveva sotto protezione e arrestato su ordine del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, che ha accolto la richiesta della Procura, guidata da Giuseppe Pignatone.

La procura di Roma, a cui erano stati trasmessi gli atti per competenza territoriale, ha declinato l’accusa in termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e di violazione del segreto d’ufficio.

Sempre nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera condotta dal commissario di Barcellona diretto da Mario Ceraolo era pure emerso che due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento, anche con altri collaboratori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

Bisognano era libero. Infatti, su richiesta del suo difensore Repici, era stato scarcerato il 26 maggio del 2017 proprio dal Tribunale di Barcellona (che poi lo ha condannato), anche sulla base della considerazione che il programma di protezione non fosse stato revocato.

 

La revoca del Programma di protezione

La legge prevede che la violazione delle regole di condotta (anche se in ipotesi non costituisce reato) che il collaboratore di giustizia si impegna a osservare comporta la revoca del programma di protezione. Tuttavia, a Bisognano dopo gli arresti di maggio del 2015 era stato mantenuto il programma di protezione. Ed era stato mantenuto anche dopo gli arresti chiesti e ottenuti dalla Procura di Roma il 7 luglio del 2017.

In questo modo l’ex boss di Barcellona ha continuato a godere dello speciale trattamento riservato ai collaboratori e che pagano i contribuenti italiani: la scorta, due avvocati, la casa, i viaggi e un assegno mensile di 1600 euro.

Ciò di cui godeva mentre – secondo gli inquirenti e il Tribunale di Barcellona – commetteva reati

Il programma di protezione gli è stato revocato da qualche settimana, dopo la condanna del Tribunale di Barcellona del 29 settembre 2017 e un anno e mezzo dopo gli arresti.

 

Vecchia Maniera, la Corte d’appello conferma la condanna a tre anni per Angelo Lorisco per tentata estorsione e intestazione fittizia di beni. Era l’uomo fidato dell’ex boss Carmelo Bisognano, che dalla località protetta di collaboratore continuava a svolgere attività imprenditoriale. E non solo….

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 Angelo Lorisco

Angelo Lorisco

 

Carmelo Bisognano lo usava dalla località protetta di collaboratore di giustizia per continuare a svolgere attività imprenditoriale a Barcellona. Insieme all’ex boss della mafia del Longano, Angelo Lorisco fu arrestato il 16 maggio del 2016.

Oggi è stato condannato dalla Corte d’appello di Messina.

Il collegio presieduto da Francesco Tripodi confermando la sentenza a emessa in primo grado dal Tribunale di Barcellona gli ha inferto tre anni di reclusione.

Angelo Lorisco era accusato di intestazione fittizia di beni e di tentata estorsione, reati commessi tra il 2015 e il 2016 in concorso con lo stesso Bisognano.

In pratica, dalle attività di indagine condotte dal commissariato di Barcellona era emerso che Bisognano pur essendo un collaboratore di giustizia in violazione delle regole imposte nel programma di protezione, dalla località protetta, usando appunto Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale e condannato all’epoca per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, Bisognano sempre tramite Lorisco aveva strumentalizzato il ruolo di collaboratore e tentato di sottoporre a estorsione i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda, minacciando di fare dichiarazioni sul loro conto: da qui l’accusa per entrambi anche di tentata estorsione.

L’ex boss della mafia Bisognano, collaboratore di giustizia dal 2010, ha scelto il rito ordinario e per gli stessi reati è stato condannato in primo grado a 5 anni di reclusione (vedi articolo).

Il collegio presieduto da Tripodi nel condannare Lorisco ha ritenuto che non vi fossero i presupposti per la condanna al risarcimento a favore di una serie di associazioni antiracket, che invece in primo grado avevano ottenuto prima di costituirsi parte civile e poi anche la liquidazione di somme di denaro.

La spedizione punitiva

Qualche giorno dopo gli arresti, Angelo Lorisco, fu selvaggiamente pestato in carcere da un gruppo di detenuti che lo volevano punire perché aveva aiutato Bisognano considerato, a causa della collaborazione con la giustizia, un “infame”.

Al Tribunale di Messina è in corso il processo che vede sul banco degli imputati coloro che sono stati individuati come gli autori del pestaggio: Lorisco si è costituito parte civile.

Concorso esterno alla mafia, al via il processo per Maurizio Marchetta. Carmelo Bisognano, fresco di condanna e in carcere per reati commessi da collaboratore di giustizia, chiede di costituirsi parte civile. “L’ex capo della mafia è stato danneggiato”, dice il suo legale Fabio Repici. Il Gup Monica Marino rigetta. Storia di una “guerra” tra l’imprenditore e chi aveva denunciato di estorsione

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maurizio marchetta

Maurizio Marchetta

Non l’avrebbe immaginato neppure la più frizzante tra le scrittrici di racconti di fantascienza.

E’ invece accaduto in un’aula del Tribunale di Messina: quella in cui si è tenuta il 12 ottobre del 2017 l’udienza preliminare che vede l’imprenditore di Barcellona Pozzo di Gotto Maurizio Marchetta imputato di concorso esterno alla mafia del Longano.

Fresco di condanna in primo grado a 5 anni per tentata estorsione e intestazione fittizia di beni e in carcere per violazione del segreto d’ufficio e accesso abusivo a un sistema informatico, tutti reati commessi da collaboratore di giustizia (vedi articolo correlato), Carmelo Bisognano a lungo capo della mafia di Barcellona (la stessa a cui Marchetta avrebbe, in ipotesi, concorso dall’esterno) ha avanzato richiesta di costituzione di parte civile come persona offesa dalle condotte contestate a Marchetta.

Lo ha fatto attraverso il suo legale Fabio Repici, che lo difende, insieme alla collega di studio Mariella Cicero, sin dall’inizio della collaborazione con la giustizia, avvenuta alla fine del 2010.

In pratica, secondo il battagliero e famoso legale, Marchetta ha danneggiato il capo della mafia, proprio quella mafia che secondo l’accusa ha aiutato, sia pure senza esserne parte integrante.

Il giudice per l’udienza preliminare, Monica Marino, dopo pochi minuti di camera di consiglio ha rigettato l’istanza dell’avvocato Repici. E ha accolto la richiesta di rito abbreviato presentata dal legale di Marchetta, Ugo Colonna.

Il magistrato ha rinviato al 24 maggio del 2018 per il giudizio con rito speciale, celebrato sulla scorta del materiale probatorio raccolto dalla Procura sino alla conclusione delle indagini

La richiesta di rinvio a giudizio nei confronti Maurizio Marchetta è stata avanzata dai sostituti della Direzione distrettuale di Messina, Angelo Cavallo, Vito Di Giorgio e Massara il 3 agosto 2017.

Secondo i pm, le imprese della famiglia Marchetta sarebbero state di fatto di proprietà dei vertici della mafia di Barcellona e attraverso queste imprese la mafia ha partecipato a gare d’appalto appositamente truccate.

In questo modo, Marchetta avrebbe conseguito il vantaggio di lavorare e guadagnare sotto protezione della mafia e la mafia per contro quello di lucrare usando imprese pulite.

 

Questione di attendibilità

Contro Marchetta ci sono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carmelo Bisognano e Carmelo D’amico, altro capo dell’organizzazione che a sua volta ha iniziato a collaborare nel 2014..

I due insieme a Nicola Mazzagatti, furono denunciati da Maurizio Marchetta per estorsione ai suoi danni e furono arrestati nell’ambito dell’inchiesta Sistema, scattata alla fine del 2009.

D’amico e Bisognano, sin da subito, non appena sottoposti a custodia cautelare (quando non erano ancora collaboratori di giustizia) reagirono sostenendo che Marchetta non era un imprenditore estorto ma colluso con la mafia.

In primo grado, il 25 febbraio del 2010, il Tribunale di Messina ritenne Marchetta attendibile e condannò così D’amico a 10 anni e 7 mesi e Bisognano 7 e 4 mesi.

Sempre sulla scorta delle dichiarazioni di Marchetta il 28 aprile del 2011 il Tribunale di Barcellona condannò pure Nicola Mazzagatti ad anni 8 e mesi 6 di reclusione.

In appello, invece, i tre furono assolti.

La Corte di secondo grado con due sentenze del 25 maggio del 2013 e il 14 gennaio del 2014 ritenne, infatti, non credibili le dichiarazioni di Maurizio Marchetta.

Se Marchetta è vincente in Cassazione e pure a Reggio calabria

La Corte di cassazione, però qualche tempo dopo, ha annullato le due sentenza della Corte d’appello, “per gravi carenze motivazionali” proprio sulla ritenuta non attendibilità di Marchetta, disponendo la nuova celebrazione dei due processi a Reggio calabria, uno a carico di D’amico e Bisognano, uno di Mazzagatti.

A Reggio calabria, la Corte d’appello ha già ribaltato il giudizio dei giudici di secondo grado messinesi e ha condannato Nicola Mazzagatti per estorsione a carico di Marchetta, ritenendo attendibili le dichiarazioni accusatorie di quest’ultimo.

E’ in corso di svolgimento, invece, il nuovo processo ordinato dalla Cassazione per estorsione aggravata a carico di D’amico e Bisognano con Marchetta parte civile.

Caso Bisognano, il Gip Monica Marino boccia i sostituti Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo e ordina l’imputazione coattiva per il collaboratore di giustizia: “Per interessi economici ha cambiato le dichiarazioni su Tindaro Marino”. Tutti i guai dell’ex boss, arrestato dalla Procura di Roma il 7 luglio scorso e sotto processo a Barcellona

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I sostituti della Dda Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio

I sostituti della Dda Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio

 

I sostituti della Direzione distrettuale antimafia, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, avevano cambiato idea e chiesto l’archiviazione.

Il Giudice per le indagini preliminari invece è rimasto fermo sulla sua convinzione.

Per il magistrato Monica Marino il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, ex capo della mafia di Barcellona, non solo ha intavolato trattative con l’imprenditore Tindaro Marino per rilasciare nuove e diverse dichiarazioni che ne alleggerissero la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello della Corte d’appello diretto al sequestro di tutti i beni, ma queste dichiarazioni di favore il 30 settembre del 2015, in presenza dei suoi difensori, Mariella Cicero e Fabio Repici, e del difensore di Marino, Salvatore Silvestro, le ha pure rese.

Il giudice Marino ha così ordinato alla Procura di disporre l’imputazione coattiva nei confronti di Carmelo Bisognano, di Tindaro Marino e di Angelo Lorisco, ovvero colui che teneva i rapporti tra Bisognano, in località protetta dal momento dell’inizio della collaborazione avvenuta nel 2010, e Marino, all’epoca agli arresti domiciliari.

Il reato contestato è di False dichiarazioni al difensore rilasciate nell’ambito delle investigazioni difensive.

 

La strumentalizzazione del ruolo di collaboratore

 

Era stata proprio il Gip Marino il 18 maggio del 2016 a ordinare gli arresti del collaboratore di giustizia per una serie di ipotesi di reato emerse nell’ambito dell’inchiesta “Vecchia Maniera”, condotta dal commissariato di Barcellona pozzo di Gotto diretto da Mario Ceraolo.

Nell’ordinanza di custodia cautelare, a Bisognano veniva contestata l’intestazione fittizia di beni, la tentata estorsione e soprattutto di aver stretto, tramite il suo uomo di fiducia Lorisco, un vero e proprio pactum sceleris con Tindaro Marino, in forza del quale il collaboratore avrebbe dovuto fare dichiarazioni di favore e Marino lo avrebbe aiutato a rilanciare l’attività di un’azienda, la Ldm Costruzioni Srl che Bisognano attraverso dei prestanome aveva costituito già nel 2013.

La richiesta di misura cautelare era stata avanzata qualche giorno prima proprio da Cavallo e Di Giorgio, i due sostituti che ne avevano gestito sin dall’inizio la collaborazione, determinante per mandare in carcere e a processo una serie di esponenti della mafia di Barcellona.

I due pm si erano fatti delle convinzioni salde sull’esistenza del pactum sceleris e sull’attuazione dello stesso e avevano convinto il Gip Marino.

C’erano infatti molteplici intercettazioni telefoniche e ambientali che attestavano le trattative tra Bisognano e Marino.

E c’era la diversità tra il verbale riassuntivo delle dichiarazioni rese il 30 settembre del 2015 e i verbali di quelle rese negli precedenti da Bisognano e che avevano contribuito alla condanna in appello di Marino (vedi ampio servizio sulla vicenda).

 

La ammissioni di Bisognano….e la tesi difensiva

 

Il collaboratore di giustizia, un mese dopo gli arresti, ha chiesto e ottenuto di essere interrogato dai due pm Di Giorgio e Cavallo: “Ammetto di aver fatto il patto con Marino e che questi in cambio ha acconsentito entrare come socio occulto nella società Ldm Costruzioni Srl dietro la condizione che facessi nuove dichiarazioni sul suo conto. E’ stato un grave errore e una violazione delle regole che mi imponeva il programma di protezione. Tuttavia, non ho detto il falso né ho cambiato versione rispetto a quanto avessi dichiarato prima“, ha dichiarato in sintesi ai due pm.

Insomma – seguendo il ragionamento di Bisognano – Marino  in cambio del suo aiuto economico voleva dal collaboratore delle dichiarazioni di favore; Bisognano ha acceatto la proposta “scellerata”; Marino ha chiesto al suo difensore di sentire Bisognano; questi però poi queste dichiarazioni di favore non le ha fatte; tuttavia, il legale di Marino le ha depositate in Cassazione e in Corte d’appello e Marino stesso è entrato lo stesso in società con Bisognano, offrendo il suo apporto economico per l’attività di Ldm Costruzioni Srl.

In conclusione, Marino – a seguire la tesi difensiva – è stato in qualche modo raggirato da Bisognano.

 

Folgorati sulla via di Damasco

 

Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato la registrazione integrale delle dichiarazioni rese il 30 settembre del 2015 con quelle rese in precedenza, hanno sposato la tesi di Bisognano: “Nelle linee essenziali, le dichiarazioni di Bisognano su Marino non sono cambiate”, hanno scritto nella richiesta di archiviazione.

 

Se il Gip studia…. e non condivide

 

Lo stesso lavoro di confronto tra le dichiarazioni del 30 settembre del 2015 e quelle precedenti lo ha fatto il Gip Marino, che è giunto senza esitazioni a conclusioni invece diametralmente opposte a quelle dei due pm.

“Conclusivamente, può senz’altro sostenersi che Carmelo Bisognano, in ossequio ad accordi presi in precedenza con Tindaro Marino, abbia rilasciato false dichiarazioni sullo stesso Marino, in quanto oggettivamente diverse da quelle rese in precedenza, assolutamente più favorevoli in quanto ne attenuano non poco la sua responsabilità penale e ciò al fine di conseguire un’utilità e un vantaggio di non poco rilievo: poter iniziare a svolgere una nuova e lucrosa attività imprenditoriale al riparo da occhi indiscreti”, ha scritto il Gip Marino.

 

I guai non finiscono mai

 

Per la costituzione della società LDM Costruzioni srl, intestata a teste di legno, Bisognano è sotto processo davanti al Tribunale di Barcellona per il reato di intestazione fittizia di beni.

Di fronte allo stesso Tribunale sta rispondendo anche del reato di Tentata estorsione commessa  i confronti di Giuseppe Torre, titolare della società Torre Srl, che – secondo l’accusa – Bisognano voleva costringere a cedergli dei lavori prospettando la possibilità di fare dichiarazioni accusatorie che coinvolgessero esponenti della famiglia Torre.

Nell’inchiesta Vecchia Maniera è emerso che il collaboratore non solo tesseva la sua trama volta a tornare a operare economicamente, ma grazie alla complicità degli uomini della scorta si muoveva a suo piacimento in località protetta, incontrando persone di Barcellona e altri collaboratori di giustizia. E soprattutto aveva accesso alla banca data della polizia.

La Procura di Roma per quest’ultima condotta, declinata in termini di Violazione del segreto d’ufficio venerdì 7 luglio 2017 ha chiesto e ottenuto gli arresti in carcere per Bisognano. Ai domiciliari sono finiti due carabinieri della scorta (vedi articolo)

Solo un mese e mezzo prima, a distanza di un anno esatto dagli arresti, il Tribunale di Barcellona aveva ordinato la scarcerazione del collaboratore, rilevando tra i motivi per per cui non ci fossero più esigenze cautelari, il fatto che “al collaboratore non fosse stato mai revocato il programma di protezione” (leggi articolo).

Bisognano infatti è rimasto nel programma di protezione benché – come hanno mostrato le indagini del commissariato di Barcellona e come lui stesso ha ammesso – si sia reso protagonista di gravi violazione del regolamento imposto ai collaboratori, a pena di revoca in caso di violazioni.

 

Accesso abusivo alla banca dati della polizia, la procura di Roma ordina il carcere per il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano. L’ ex boss di Barcellona era stato scarcerato lo scorso 17 maggio. Nell’inchiesta Vecchia maniera le prove delle complicita’ degli agenti di scorta

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

 

Era stato scarcerato dal Tribunale di Barcellona dinanzi al quale sta rispondendo dei reati di tentata estorsione e intestazione fittizia di beni, il 17 maggio del 2017, dopo un anno esatto di carcere. Ma il sapore della libertà, per il collaboratore di giustizia di Barcellona Carmelo Bisognano ha avuto breve durata.

Venerdì 7 luglio 2017 è stato nuovamente arrestato e condotto nel carcere di Rebibbia su ordine del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, che ha accolto la richiesta della Procura, guidata da Giuseppe Pignatone.

Ai domiciliari sono finiti due agenti che erano incaricati di sorvegliarlo e proteggerlo mentre il collaboratore si trovava in località segreta sin dal momento dell’inizio della sua collaborazione, avvenuto alla fine del 2010.

 

Località protetta, che allegria

Secondo quanto accertato gli agenti Domenico Tagliente e Enrico Abbina avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento, anche con altri collabori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

Il rapporto di collusione tra Bisognano e chi avrebbe dovuto controllarlo è emerso nel corso dell’inchiesta “Vecchia Maniera”, condotta dal commissariato di Barcellona diretto da Mario Ceraolo. I risultati dell’attività di indagine costrinsero i sostituti della Dda di Messina, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, a chiedere la misura cautelare per il collaboratore che loro stessi avevano gestito e grazie al quale era stata disarticolata la mafia di Barcellona.

Gli arresti scattarono il 18 maggio del 2016.

Gli inquirenti avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Angelo Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale e condannato all’epoca per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, Bisognano tramite Lorisco aveva – secondo l’accusa – tentato di sottoporre a estorsione i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda.

In cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, Bisognano si era impegnato a fare dichiarazioni favorevoli a Marino, da usare nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello (vedi ampio articolo sull’inchiesta Vecchia Maniera).

Per quest’ultimo capo di accusa, i pm Di Giorgio e Cavallo hanno domandato l’archiviazione, al vaglio del Gip Monica Marino, il giudice che aveva disposto gli arresti di Bisognano.

Per l’intestazione fittizia e la tentata estorsione, la procura di Barcellona competente territorialmente, ha chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio, in corso di svolgimento.   

 

La trasmissione in capitale

La parte dell’inchiesta relativa agli accessi al sistema informatico era stato trasmesso per competenza territoriale alla Procura di Roma, essendo i fatti avvenuti nella località di Rieti.

Per la procura di Roma, i fatti erano cosi gravi e allarmanti (in riferimento alla esigenze cautelari) da richiedere la massima delle misure cautelari, valutazione condivisa dal Gip.

La responsabilità penale di Bisognano è in corso di accertamento davanti al Tribunale di Barcellona. Benchè l’ex boss di Barcellona fosse stato arrestato e  abbia violato le regole che sono imposte ai collaboratori di giustizia, il programma di protezione non è stato mai revocato.

Anche sulla scorta di questo dato, il Tribunale  di Barcellona ha revocato il carcere sostituendo la misura con l’obbligo di dimora in località protetta, sotto la vigilanza della scorta.

 

Interrogazioni abortite

Sulla gestione del collaboratore di giustizia Bisognano, il 10 maggio del 2017 aveva presentato un’interrogazione parlamentare ai ministri della Giustizia e dell’Interno il senatore del M5Stelle, Luigi Gaetti, chiedendo spiegazioni sul trattamento di favore che l’ex boss aveva ricevuto.

Il vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, l’ha però ritirata qualche giorno dopo. “Mi è stato segnalato che si fondava su documenti incompleti”, si è giustificato. “Ma la ripresento non appena accertò che ciò non è vero”, ha dichiarato raggiunto telefonicamente a fine maggio (vedi articolo relativo).

 

Semplici leggerezze e bucce di banana

Carmelo Bisognano durante la collaborazione e sino agli arresti del maggio del 2016 era assistito da Fabio Repici e Mariella Cicero, colleghi da anni di studio.

Mariella Cicero subito dopo gli arresti ha rimesso il mandato essendo emerse delle intercettazioni tra il legale e il collaboratore suscettibili – secondo gli inquirenti – di rilevanza penale. Repici ha continuato a difendere Bisognano e nel processo in corso a Barcellona ha citato la Cicero come teste a difesa di Bisognano.  Mariella Cicero nel corso dell’esame ha, tra le altre cose dichiarate,  definito in buona sostanza leggerezze le condotte imputate a Bisognano che “è scivolato su una buccia di banana e si è fatto fregare”, aggiungendo che “semplici violazioni comportamentali non possono portare all’incriminazione penale”. Di diverso avviso, prima la procura di Messina e ora quella di Roma, che declinano in termini di reato gli scivoloni sulle bucce del frutto tropicale.