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Estorsione aggravata dal metodo mafioso, Carmelo Bisognano a giudizio per un altro reato commesso mentre era collaboratore di giustizia. Tutti i guai dell’ex capo della mafia di Barcellona, privo della rete del programma di protezione e di recente condannato a 13 anni di reclusione. Mentre il suo legale Fabio Repici continua ad evocare i complotti

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

Estorsione aggravata dal metodo mafioso, commessa mentre lo Stato gli assicurava la protezione e diversi benefici economici, compresa l’assistenza di due legali.

E’ questa l’ultima accusa da cui si dovrà difendere Carmelo Bisognano.

L’ex capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto, dal 2010 collaboratore di giustizia, è stato rinviato a giudizio dal giudice per le indagini preliminari di Messina Maria Militello.

Il processo inizierà il prossimo 13 maggio davanti al Tribunale di Barcellona.

L’estorsione che gli viene ora contestata, in realtà, è un fatto di (ipotetico) reato emerso nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera, che il 18 maggio del 2016 portò in carcere l’ex capomafia, il suo uomo fidato, Angelo Lorisco, e l’imprenditore di Gioiosa Marea, Tindaro Marino.

Il fatto delittuoso era sfuggito ai sostituti della direzione distrettuale antimafia Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo che dopo averne gestito per anni la collaborazione furono costretti in tutta fretta a chiedere la misura cautelare più rigorosa.

Gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo, infatti, avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto anch’egli alla misura di prevenzione patrimoniale e già condannato all’epoca in secondo grado per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, poi – secondo gli accertamenti investigativi – Bisognano tramite Lorisco, strumentalizzando il ruolo di collaboratore, aveva preso di mira i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda: nei loro cantieri cominciò a presentarsi assiduamente Lorisco, che spendendo il nome di Bisognano e minacciando dichiarazioni sul loro conto chiedeva utilità di varia natura.

La Procura, oltre all’intestazione fittizia di beni, infatti, a Bisognano e Lorisco aveva contestato il tentativo di estorsione, consistito nell’aver preteso di far lavorare i propri mezzi negli appalti che i Torre avevano in corso di esecuzione.

Il processo, tenuto a Barcellona, si è concluso il 27 settembre del 2017 con la condanna di Bisognano a 5 anni di reclusione, Marino a 2 anni. Lorisco in abbreviato ha avuto tre anni.

Per Lorisco c’è stata già la conferma della condanna nel grado di appello.

Il giudizio di secondo grado per Bisognano e Marino non si è ancora tenuto.

Nel condannare Lorisco, è stato proprio il Gup di Barcellona Fabio Gugliotta a disporre la trasmissione degli atti alla Procura perché valutasse la sussistenza a carico dello stesso Lorisco e di Bisognano e  di un’ulteriore ipotesi di estorsione, questa volta consumata.

L’ultima estorsione

Specificamente, di aver costretto i Torre ad acquistare da loro dei pneumatici per camion di cui non avevano alcun bisogno.

Infatti, i fratelli Torre, Giuseppe e Giovanni, oltre a raccontare che Lorisco, perfettamente informato sull’andamento aziendale, chiedeva insistentemente di poter partecipare ai loro lavori, avevano riferito che erano stati costretti a comprare 5 grossi pneumatici, peraltro di misura diversa da quella adeguata ai loro mezzi.

In sostanza, a parte la discrasia sul numero dei pneumatici, tra il capo di imputazione e quanto dicono i Torre,  è questa l’accusa che ha mosso il sostituto procuratore della Dda Fabrizio Monaco, ottenendo l’avallo del Gup Militello.

Il giovane giudice ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso (che importa un aumento di pena da un terzo alla metà).

L’aggravante…. resuscitata

Il gup Militello l’ha pensata allo stesso modo del collega Gup di Barcellona, Salvatore Pugliese.

Era stato infatti davanti a quest’ultimo giudice che la procura di Barcellona aveva chiesto il rinvio a giudizio ipotizzando l’estorsione consumata ma non aggravata dal metodo mafioso. Pugliese ha, invece, osservato che il reato è chiaramente aggravato dal metodo mafioso perché i Torre si sono convinti a comprare i pneumatici che non servivano per la condizione di assoggettamento determinata dal trovarsi al cospetto di un capomafia.

Così la competenza è tornata alla direzione distrettuale antimafia di Messina, che ha esercitato l’azione penale davanti al Gip distrettuale, Maria Militello appunto.

Il legale Repici, aveva impugnato  la sentenza di Pugliese davanti alla Cassazione, ma è stato bocciato dai giudici con l’ermellino che non sono comunque entrati nel merito.

Le sue argomentazioni non hanno convinto neppure la Militello.

Tutti i nodi vengono al pettine

Carmelo Bisognano, la cui collaborazione ha permesso di mettere alla sbarra vari esponenti della mafia del Longano e di fare luce su diversi delitti, è pure sotto processo a Roma per accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio

Sempre dalle indagini del commissario di Barcellona era pure emerso che due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento, anche con altri collaboratori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

La procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, a cui erano stati trasmessi gli atti per competenza territoriale, ha declinato l’accusa in termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e di violazione del segreto d’ufficio e ha chiesto la misura del carcere accolta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, ed eseguita il 7 luglio 2017.

Dichiarazioni di favore…forse si…forse no

Le intercettazioni hanno disvelato in maniera chiara che Bisognano in cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, si era impegnato nell’ambito di indagini difensive a fare nuove e diverse dichiarazioni favorevoli all’imprenditore di Gioiosa Marea, in modo da alleggerirne la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Dapprima, al momento della richiesta di misura cautelare, i due sostituti Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato le dichiarazioni rese da Bisognano in precedenza sul conto di Marino con quelle rese il 30 settembre del 2015 al difensore di Marino, Salvatore Silvestro, presenti i difensori del collaboratore Fabio Repici e Mariella Cicero, si erano convinti che questi avesse cambiato effettivamente le dichiarazioni, depositate effettivamente in Cassazione e nel giudizio di prevenzione dal legale di Marino.

Dello stesso avviso il gip Monica Marino, che accolse la richiesta di misure cautelari.

E’ stato lo stesso collaboratore nell’interrogatorio di garanzia ad ammettere: “Mi sono messo d’accordo per modificare le dichiarazioni, ma poi non l’ho fatto”

Proprio a seguito di questa giustificazione, i due magistrati hanno controllato e hanno cambiato idea chiedendo per questo capo di accusa l’archiviazione.

Il Gip Monica Marino è rimasta della sua idea. Ha rigettato e ordinato l’imputazione coattiva: “Le dichiarazioni sono state cambiate per interessi economici”, ha scritto il Gip Marino dopo aver messo ancora una volta a confronto le dichiarazioni.

Tre mesi dopo, il 17 novembre del 2017, un altro Gip del Tribunale di Messina Simona Finocchiaro ha accolto la richiesta di archiviazione ribadita dai due sostituti della Dda.

Tirando le fila, a seguire le conclusioni dell’inchiesta su questa imputazione, Bisognano ha raggirato il suo “socio finanziatore” Marino.

La revoca del programma di protezione

Benché – come hanno mostrato le indagini del commissariato di Barcellona e come lo stesso Bisognano ha ammesso nel corso dell’interrogatorio di garanzia subito dopo l’arresto del 16 maggio del 2017  – si sia reso protagonista di gravi violazione del regolamento imposto a pena di revoca (a prescindere dalla responsabilità penale), Bisognano è rimasto nel programma di protezione sino all’estate del 2017, per oltre un anno e due mesi.

Il 26 maggio del 2017 Il Tribunale di Barcellona (che poi lo ha condannato) su richiesta del suo difensore Repici lo ha scarcerato, anche sulla base della considerazione che il programma di protezione non fosse stato revocato.

Il programma di protezione è stato revocato il primo agosto del 2017, qualche giorno dopo gli arresti ordinati dal Gip di Roma.

Tre mesi prima, il 10 maggio del 2017, il senatore del M5Stelle, Luigi Gaetti, aveva presentato un’interrogazione parlamentare ai ministri della Giustizia e dell’Interno chiedendo spiegazioni sul trattamento di favore che l’ex boss aveva ricevuto e stava ricevendo. L’allora vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, ora sottosegretario di Stato agli Interni, due giorni dopo, però, l’ha ritirata: “Mi è stato detto fosse fondata su dati inesatti”, si è giustificato. “La ripresento appena avrò controllato”, promise.

I dati invece erano veri, ma Gaetti l’interrogazione non l’ha più ripresentata, né ha mai spiegato chi lo avesse indotto a ritirarla.

I legali di Bisognano per contestare la decisione della Commissione centrale si sono rivolti al Tribunale amministrativo del Lazio e poi al Consiglio di Stato.

I giudici amministrativi di primo e secondo grado hanno però ritenuto, almeno nella fase cautelare, legittima la revoca del programma di protezione in quanto giustificata da “gravi e reiterate violazione delle regole imposte ad un collaboratore”.

Di professione… complottista

Tuttavia, per il legale Fabio Repici che, insieme alla collega di studio Mariella Cicero, sin dall’inizio della collaborazione lo ha assistito, Bisognano è vittima di un complotto ordito dal commissario Ceraolo, dall’avvocato Ugo Colonna, da Saro Cattafi, l’avvocato di Barcellona accusato da Bisognano di essere stato il capo della mafia di Barcellona sino al 2012, e dal legale di quest’ultimo, Salvatore Silvestro.

Repici ha indicato una delle possibili finalità del complotto: “E’ stata un’operazione tesa a fare conseguire a Cattafi l’impunità”, ha ripetuto più volte, anche sfidando la logica, senza offrire né fatti, né elementi di prove. Che invece indicano chiaramente come Bisognano autonomamente da collaboratore intraprenda attività e tenga condotte declinate in termini di reati penali da diversi pubblici ministeri e giudici (anche amministrativi) di differenti Tribunali d’Italia.

La cronologia smentisce la dietrologia

Le dichiarazioni di Bisognano su Cattafi, sono state ritenute non riscontrate né credibili dalla Corte d’appello di Messina che riformando la condanna di primo grado ha assolto Cattafi dall’accusa di essere stato non solo capo della mafia ma anche semplice affiliato dal 2000 in poi.

La sentenza della Corte d’appello, che successivamente ha avuto l’avallo della Corte di Cassazione, è del 24 novembre del 2015, 7 mesi prima che Bisognano fosse arrestato nell’ambito di Vecchia Maniera e si conoscessero le imprese che realizzava mentre era collaboratore di giustizia.

 

Obiettivo libertà

La revoca del programma di protezione significa in concreto non solo la perdita dei benefici economici, ma anche l’impossibilità di accedere alle misure alternative al carcere, ovvero a vivere pressoché liberi e protetti benché riconosciuti colpevoli di efferati delitti, obiettivo principale dei collaboratori di giustizia.

Bisognano, salvo che il programma non venga ripristinato o dai giudici amministrativi o per effetto di nuove e inedite dichiarazioni dello stesso collaboratore, dovrà scontare le pene in carcere.

Di recente, è stato condannato con sentenza definitiva a 13 anni di reclusione nell’ambito del processo Gotha 1 per associazione mafiosa e un omicidio, commessi prima di iniziare la collaborazione.

Bisognano, rimasto senza programma di protezione e recluso quindi in carcere, ha continuato a collaborare.

Il ministero degli Interni a tutela della sua incolumità gli garantisce la scorta e speciali misure di protezione.

 

 

 

IL CASO. Sonia Alfano si scaglia in udienza contro il giudice Francesco Alligo “reo” di aver assolto Maurizio Marchetta. La guerra tra l’ex presidente della commissione antimafia europea e l’architetto. Il giornalismo da premio…. legale

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Sonia Alfano

Sonia Alfano

Il giudice non aveva ancora terminato di leggere il dispositivo della sentenza.

Una dura invettiva lo ha costretto a interrompere quello che è l’atto finale di un processo penale: “Questo Tribunale consente a un mafioso di diffamare e rimanere impunito. Ora iniziano i conti. Farò una guerra a questo Tribunale dove accadono cose incredibili”.

La protagonista della scena a cui nei tribunali italiani si poteva talvolta assistere durante gli anni di piombo e, raramente, sempre in passato, nei processi di mafia non è un personaggio qualunque, ma l’ex presidente della Commissione antimafia europea Sonia Alfano.

Figlia del giornalista Beppe Alfano, ucciso a Barcellona l’8 gennaio del 1993 (sono stati riconosciuti colpevoli con sentenza passata in giudicato gli esponenti mafiosi Pippo Gullotti e Antonino Merlino), Sonia Alfano al Tribunale della città del Longano mercoledì 18 ottobre 2018 c’era arrivata con due auto blindate e relativa scorta al seguito.

Era giunta per ascoltare di persona l’epilogo del processo che vedeva imputato di diffamazione ai suoi danni l’imprenditore di Barcellona, Maurizio Marchetta, “il mafioso” secondo l’Alfano.

Il giudice Francesco Alligo però ha assolto quest’ultimo.

Sonia Alfano a quel punto non ha saputo contenere la rabbia.

Preso alla sprovvista dall’inconsueta reazione, il giudice ha dapprima tentato di calmarla: “Se lo faccia spiegare dai suo avvocati....”, si è quasi giustificato.

Ma non c’è stato nulla da fare. Vana è stata pure l’opera del legale Mariella Cicero.

Il giudice Alligo allora non ha potuto fare altro che mettere a verbale quanto era accaduto, indicando come possibili testimoni le persone presenti, tra cui gli uomini della scorta.

Il pubblico ministero, a sua volta, ha chiesto la trasmissione del verbale all’ufficio di Procura per valutare la sussistenza di estremi di reato a carico della Alfano: in ipotesi, Oltraggio al giudice in udienza o Minacce ad un corpo giudiziario.

L’attuale liquidatrice di Tirrenoambiente Spa, la società che gestiva la discarica di Mazzarà Sant’Andrea, non ha risparmiato improperi a Marchetta: “Sei un mafioso. Ti farò la guerra”, ha minacciato, uscendo dal Tribunale.

Sonia e l’architetto: un rapporto difficile

Maurizio Marchetta era accusato di aver diffamato Sonia Alfano in quanto autore di due commenti inviati in forma anonima contemporaneamente a due siti: a quello dell’allora parlamentare europea www.soniaalfano.it e al sito www.enricodigiacomo.org.

Il primo in data 13 aprile del 2011; il secondo in data 10 giugno del 2011.

Nel primo commento, quello del 13 aprile del 2011, era contenuta la ricostruzione – ritenuta dalla Procura di Barcellona diffamatoria – di una serie di fatti e la indicazione di relazioni tra l’onorevole stesso, alcuni avvocati e il giornalista della Gazzetta del sud Leonardo Orlando finalizzati a manipolare il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano.

Dalle indagini è emerso che l‘internet provider da cui è partito il commento era di proprietà della ditta della famiglia di Maurizio Marchetta e tuttavia si trattava di un Ip aperto senza password a cui in teoria si poteva attaccare chiunque fosse nei paraggi e in grado di ricevere il segnale con un pc.

Marchetta, un passato da vicepresidente del Consiglio comunale di Barcellona, avrebbe avuto anche un movente: in quel periodo era stato preso più volte di mira da Sonia Alfano.

La figlia del giornalista lo riteneva un testimone di giustizia falso e aveva spesso contestato attraverso scritti pubblicati sul suo sito che gli venisse garantita la scorta.

L’imprenditore era infatti sotto protezione perché qualche tempo prima aveva denunciato per estorsione i boss della mafia di Barcellona Carmelo Bisognano e Carmelo D’amico.

Fu grazie a queste accuse che i due esponenti di primo livello dell’organizzazione criminale in quel momento praticamente liberi sono stati condannati nell’ambito dell’operazione “Sistema” a pene pesantissime e hanno iniziato la collaborazione con la giustizia.

Il giudice Alligo – da quanto si desume dal dispositivo –  pur ritenendo che l’autore del commento fosse Marchetta lo ha assolto perché il fatto (del reato di diffamazione) non sussiste.

Infatti, il commento era giunto solo alla persona offesa e all’addetta stampa della stessa e dunque la diffamazione non si poteva configurare; successivamente, fu pubblicato su ordine della stessa Alfano e dunque il reato di diffamazione si è consumato ma grazie alla determinante attività della parte offesa.

 

Per il commento identico mandato a www.enricodigiacomo.org la Alfano non aveva sporto querela.

Gli inquirenti invece non hanno mai accertato da quale Internet provider provenisse il commento del 12 giugno 2011, pubblicato dai titolari dei due siti nonostante fosse diffamatorio.

Il giudice Alligo ha così assolto Marchetta per questo post con la formula “per non aver commesso il fatto”.

L’Orlando… furioso

Nello stesso processo Marchetta era accusato di avere diffamato Leonardo Orlando, corrispondente da Barcellona della Gazzetta del sud, sempre attraverso il commento dell’8 aprile del 2011 inviato al sito di Sonia Alfano e di Enrico di Giacomo e proveniente dalla Internet provider della ditta della famiglia Marchetta.

Poiché il commento era stato diffuso e portato a conoscenza di persone diverse dalla  persona offesa e chi l’ha ricevuto l’ha pubblicato, il giudice ha ritenuto che il fatto della diffamazione ai danni di Orlando si potesse configurare e ha condannato Marchetta a 8 mesi di reclusione.

Giornalismo… da premio “legale”

Nel commento diffamatorio oltre all’appartenenza di Orlando alla ipotetica cordata della Alfano, c’erano altre notizie, egualmente diffamatorie, che riguardavano il giornalista di giudiziaria.

Secondo l’anonimo attribuito dal giudice Alligo a Marchetta, Orlando per anni ha abitato nella casa dell’avvocato Giuseppe Lo Presti, uno dei più importanti dell’intera provincia, difensore di vari esponenti mafiosi di primo piano.

Dall’attività istruttoria è emerso che, in effetti, Orlando abitasse a casa del legale e non pagasse affitto, il tutto mentre scriveva sulla Gazzetta del Sud le vicende dei clienti dell’avvocato Lo Presti e di conseguenza dell’attività dello stesso legale.

Sempre secondo lo stesso commento, la sorella di Orlando era stata dall’Aias di Barcellona nel periodo in cui questa fu commissariata dal presidente nazionale Francesco Lo Trovato ed era in corso una guerra giudiziaria tra quest’ultimo e il vecchio presidente Luigi La Rosa, estromesso con l’accusa di aver sottratto fondi, accusa che gli è poi costata una condanna penale.

Anche questo dato è risultato vero.

D’altro canto, nell’informativa di reato dell’inchiesta sull’ente di assistenza agli spastici che ha portato a giudizio lo stesso Lo Trovato, la squadra mobile di Messina aveva messo in rilievo come Orlando – mentre scriveva per la Gazzetta del Sud dell’Aias – intrattenesse relazioni con il padre padrone dell’Aias sino a giungere a prospettare un suo interessamento su magistrati in modo da sbloccare l’impasse giudiziaria a favore di quest’ultimo.

Al contempo aveva segnalato la necessità di un lavoro per la sorella, che infatti fu assunta.

L’ordine dei giornalisti della Sicilia nello stesso periodo del 2011 ha conferito a Orlando il premio Mario Francese, assegnato ogni in memoria del giornalista ucciso dalla mafia.

Il navigato giornalista della Gazzetta del Sud nel processo contro Marchetta è stato difeso dal legale Fabio Repici da sempre impegnato con indomito coraggio a fustigare (anche) i giornalisti che – suo parere – non raccontano la verità in maniera imparziale.

Il “mafioso” Marchetta

Il 23 luglio 2018 Maurizio Marchetta, “il mafioso” secondo Sonia Alfano, è stato assolto dall’accusa di concorso esterno alla mafia dal 1993 al 2011 che gli era stata contestata nel 2017 dalla Procura di Messina.

Specificamente, in abbreviato, il Giudice per l’udienza preliminare Monica Marino ha ritenuto che Marchetta fosse responsabile del reato di concorso esterno alla mafia sino al 2003, ma lo ha assolto per prescrizione; mentre per gli anni successivi al 2003 ha ritenuto non ci fossero prove di un consapevole apporto all’organizzazione criminale e lo ha assolto nel merito.

Il 2003 è l’anno in cui fu arrestato Sam Di Salvo, all’epoca boss di spicco della mafia barcellonese. Con quest’ultimo, che peraltro sin da giovane era stato dipendente della società di famiglia, Marchetta aveva intrattenuto relazioni di amicizia e di affari ritenute penalmente rilevanti benché prescritte.

 

Caso Bisognano: il Tar del Lazio ritiene legittima e giustificata la revoca del programma di protezione all’ex boss di Barcellona: “Condotte incompatibili con lo status di collaboratore”. Naufraga pure davanti ai giudici amministrativi la tesi del complotto del suo legale Fabio Repici

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

La revoca del programma di protezione al collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano?

Per il Tribunale amministrativo del Lazio è legittima e giustificata dalle reiterate e gravi violazioni degli impegni assunti proprio a pena di revoca dall’ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto nel 2010, quando divenne collaboratore di giustizia.

L’ordinanza è stata emessa nell’ambito un giudizio cautelare, deciso quindi ad un sommario esame, instaurato da Fabio Repici e Biagio Parmaliana, i legali del collaboratore che con le sue rivelazioni ha consentito di fare luce su una serie di vicende criminose e di disarticolare le cosche del Longano.

Tuttavia, nel caso di specie, la decisione dei giudici è stata più ponderata del solito.

Infatti, in una prima udienza (il 5 dicembre 2017), alla luce delle argomentazioni difensive e della delicatezza della vicenda, l’organo di giustizia amministrativa ha chiesto al ministero degli Interni una documentata relazione.

Dopo averla esaminata, un mese dopo, i giudici amministrativi hanno concluso: “La revoca del programma di protezione risulta fondato su circostanziati pareri delle competenti autorità essendo stata, in particolare modo, ritenuta rilevante la reiterazione di comportamenti contrastanti con lo status di collaboratore di giustizia“.

Per legge la revoca del programma di protezione, che garantisce oltre alla scorta, uno stipendio mensile di 1600 euro, la casa, gli avvocati pagati dallo Stato, è obbligatoria quando il collaboratore incorre in violazioni degli obblighi che si impegna a rispettare al momento in cui è ammesso al programma stesso.

All’ex boss di Barcellona non solo sono state contestate violazioni regolamentari, ma vere e proprie ipotesi di reato.

Altro che scivoloni su bucce di banana….

Bisognano è passato dalla località protetta al carcere di Rebibbia il 18 maggio del 2016 su ordine del Gip del Tribunale di Messina Monica Marino che ha accolto la richiesta dei sostituti della Dda Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, i magistrati che ne hanno curato sin dall’inizio la collaborazione.

Gravi i reati che gli sono stati attribuiti: intestazione fittizia di beni, tentata estorsione, false dichiarazioni al difensore, violazione del segreto d’ufficio e accesso abusivo al sistema informatico.

L’inchiesta Vecchia Maniera, condotta dal commissariato di Barcellona guidato da Mario Ceraolo, aveva evidenziato come il collaboratore, boss della mafia e autore di decine di delitti, mentre girava libero e scortato per i Tribunali della Sicilia e puntava l’indice consentendo una serie di operazioni di polizia, teneva contatti con esponenti dei clan mafiosi impartendo loro istruzioni; svolgeva attività imprenditoriale sotto mentite spoglie; concordava dichiarazioni assolutorie con condannati per mafia o minacciava di fare dichiarazioni che aveva omesso al fine di ottenere vantaggi economici; acquisiva grazie alla complicità degli uomini della scorta notizie riservate dalla Banca dati della polizia; si incontrava con chi voleva  (anche con altri collaboratori di giustizia) nella località protetta.

 

Una prima sentenza

Più specificamente, gli inquirenti avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Angelo Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale e condannato all’epoca per concorso esterno alla mafia.

Tramite Lorisco aveva – secondo l’ipotesi accusatoria – strumentalizzato il ruolo di collaboratore e tentato di sottoporre a estorsione i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda, minacciando di fare dichiarazioni sul loro conto.

E’ stato così rinviato a giudizio per intestazione fittizia di beni e tentata estorsione.

Il 28 settembre 2017 è stato condannato in primo grado a 5 anni di reclusione dal Tribunale di Barcellona.

Un proscioglimento controverso

Come hanno disvelato in maniera chiara le intercettazioni, Bisognano in cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, si era impegnato nell’ambito di indagini difensive a fare nuove e diverse dichiarazioni favorevoli all’imprenditore di Gioiosa Marea, in modo da alleggerirne la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Dapprima, al momento della richiesta di misura cautelare, i due sostituti Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato le dichiarazioni rese da Bisognano in precedenza sul conto di Marino con quelle rese il 30 settembre del 2015 al difensore di Marino, Salvatore Silvestro, presenti i difensori del collaboratore Fabio Repici e Mariella Cicero, si erano convinti che questi avesse cambiato effettivamente le dichiarazioni.

Dello stesso avviso il gip Marino.

E’ stato lo stesso collaboratore nell’interrogatorio di garanzia ad ammettere: “Mi sono messo d’accordo per modificare le dichiarazioni, ma poi non l’ho fatto”

Proprio a seguito di questa giustificazione, i due magistrati hanno controllato e hanno cambiato idea chiedendo per questo capo di accusa l’archiviazione.

Il Gip Monica Marino è rimasta della sua idea. Ha rigettato e ordinato l’imputazione coattiva: “Le dichiarazioni sono state cambiate per interessi economici”, ha scritto il Gip Marino dopo aver messo a sua volta a confronto le dichiarazioni.

Tre mesi dopo, il 17 novembre del 2017, un altro Gip del Tribunale di Messina Simona Finocchiaro ha accolto la richiesta di archiviazione ribadita dai due sostituti della Dda.

 

L’ arresto romano abortito… per vizi procedurali

Scarcerato dal Tribunale di Barcellona il 17 maggio del 2017, dopo un anno esatto di carcere, anche sulla base del fatto che il programma di protezione non fosse stato revocato, venerdì 7 luglio 2017 Bisognano è stato nuovamente arrestato su ordine del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, che ha accolto la richiesta della Procura, guidata da Giuseppe Pignatone.

Dalle intercettazioni telefoniche era pure emerso che il collaboratore servendosi di due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, aveva accesso alla Banca dati della polizia assumendo informazioni riservate.

La Procura di Roma, a cui erano stati trasmessi gli atti perché – secondo Di Giorgio e Cavallo – i fatti erano stati commessi in località protetta, ha declinato l’accusa nei termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e violazione del segreto d’ufficio e ritenendo allarmante la condotta del collaboratore all’epoca libero e protetto aveva chiesto e ottenuto la misura cautelare più severa.

Il Tribunale della Libertà aveva condiviso il ragionamento di Gip e Procura.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rilevato dei vizi procedurali: non risultavano infatti dalla motivazione se fossero stati depositati in cancelleria tutti i brogliacci delle intercettazioni e non risultava spiegata la connessione tra i reati commessi a Messina di tentata estorsione e intestazione fittizia di beni con quelli contestati a Roma: detta connessione è necessaria per poter utilizzare le stesse intercettazioni.

Ha così rinviato al Tribunale della Libertà per motivare sui due punti.

Che a quel punto, a novembre del 2017, ha ordinato la scarcerazione di Bisognano.

Tra le informazioni che Bisognano chiede e ottiene dagli uomini della scorta ci sono quelle su alcuni mezzi meccanici da adibire all’attività di impresa da svolgere sotto mentite spoglie: ciò che gli è valso la condanna per intestazione fittizia di beni.

 

Tanti incontri vietati e…. imbarazzanti

Le indagini coordinate dal commissario Ceralo aveva evidenziato come Bisognano grazie alla leggerezza degli uomini della scorta si incontrava con esponenti della mafia (tra questi Stefano Rottino) e con persone di sua conoscenza nel Tribunale di Messina in occasione delle udienze.

Stessa libertà d’azione ce l’aveva in località protetta, dove si incontrava con altri collaboratori di giustizia, appartenenti ad altri sodalizi criminali.

Tra gli incontri non proprio in linea, secondo gli inquirenti, con lo status di collaboratore e con le esigenze di sicurezza ce n’è pure uno con gli avvocati Mariella Cicero e Fabio Repici, che viene segnalato all’autorità giudiziaria

E’ l’8 marzo del 2016. Sono le 13 circa. Bisognano viene intercettato mentre dà indicazioni stradali ai due legali che non riescono a trovare il posto dove si erano dati appuntamento. “Il collaboratore si incontra con i suoi legali con cui va a pranzo”, scrive uno degli inquirenti in un allegato all’informativa.

Ma c’è anche di più.

Mario Ceraolo nell’informativa alla Procura di Messina, all’epoca diretta da Guido Lo Forte, aveva anche rilevato: “Bisognano ha avuto la possibilità di accedere ad informazioni, anche coperte dal segreto istruttorio che quasi quotidianamente gli vengono fornite dal suo difensore Maria Rita Cicero con condotte che non rappresentano soltanto una evidente violazione dei doveri deontologici ma configurano precisi reati penali e che consentono al Bisognano di meglio operare nel comprensorio della provincia di Messina”, ha scritto.

“Non mi risulta di essere indagata, non ho ricevuto nulla”, ha dichiarato Mariella Cicero  a giugno del 2017, sentita come teste a difesa di Bisognano tenuto a Barcellona.

A scuola di complottismo

Per i suoi legali Fabio Repici e Mariella Cicero, Bisognano è vittima di un complotto ordito dall’avvocato Ugo Colonna, da Mario Ceraolo, da Saro Cattafi, l’avvocato di Barcellona che Bisognano aveva accusato di essere il capo dei capi della mafia e le cui accuse non sono state ritenute credibili dalla Corte d’appello di Messina, e dal legale di quest’ultimo Salvatore Silvestro.

La tesi del complotto è stata propugnata con forza anche nelle aule giudiziarie, ma non ha incantato il Tribunale di Barcellona, il Gup Monica Marino, la Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, il Gip di Roma Chiara Gallo e il Tribunale della Libertà di Roma e, infine, i giudici del Tribunale amministrativo regionale.

Le condotte “illecite” di Bisognano sono venute alla luce al momento degli arresti. Il programma di protezione è stato revocato nell’autunno del 2017, un anno e mezzo dopo.

I 5 stelle…rivoluzionari e oscurati

Nel frattempo, a maggio del 2017, uno dei più importanti esponenti del Movimento 5 Stelle, Luigi Gaetti, vicepresidente della Commissione antimafia, aveva presentato un’interrogazione al ministro degli Interni e della Giustizia per chiedere se fossero veri dei fatti che in ipotesi dimostravano che a Bisognano fosse stato riservato un trattamento di favore, compresa la mancata revoca del programma di protezione.

Ma dopo due giorni il senatore ha fatto marcia indietro e l’ha ritirata. Si giustificò “Mi è stato detto che è fondata su dati non completi”.

Da chi? “Non lo posso rivelare”.

Sicurezza garantita

Bisognano, rimasto senza programma di protezione, ha continuato a collaborare.

Il ministero degli Interni a tutela della sua incolumità gli garantisce la scorta..

Concorso esterno alla mafia, al via il processo per Maurizio Marchetta. Carmelo Bisognano, fresco di condanna e in carcere per reati commessi da collaboratore di giustizia, chiede di costituirsi parte civile. “L’ex capo della mafia è stato danneggiato”, dice il suo legale Fabio Repici. Il Gup Monica Marino rigetta. Storia di una “guerra” tra l’imprenditore e chi aveva denunciato di estorsione

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maurizio marchetta

Maurizio Marchetta

Non l’avrebbe immaginato neppure la più frizzante tra le scrittrici di racconti di fantascienza.

E’ invece accaduto in un’aula del Tribunale di Messina: quella in cui si è tenuta il 12 ottobre del 2017 l’udienza preliminare che vede l’imprenditore di Barcellona Pozzo di Gotto Maurizio Marchetta imputato di concorso esterno alla mafia del Longano.

Fresco di condanna in primo grado a 5 anni per tentata estorsione e intestazione fittizia di beni e in carcere per violazione del segreto d’ufficio e accesso abusivo a un sistema informatico, tutti reati commessi da collaboratore di giustizia (vedi articolo correlato), Carmelo Bisognano a lungo capo della mafia di Barcellona (la stessa a cui Marchetta avrebbe, in ipotesi, concorso dall’esterno) ha avanzato richiesta di costituzione di parte civile come persona offesa dalle condotte contestate a Marchetta.

Lo ha fatto attraverso il suo legale Fabio Repici, che lo difende, insieme alla collega di studio Mariella Cicero, sin dall’inizio della collaborazione con la giustizia, avvenuta alla fine del 2010.

In pratica, secondo il battagliero e famoso legale, Marchetta ha danneggiato il capo della mafia, proprio quella mafia che secondo l’accusa ha aiutato, sia pure senza esserne parte integrante.

Il giudice per l’udienza preliminare, Monica Marino, dopo pochi minuti di camera di consiglio ha rigettato l’istanza dell’avvocato Repici. E ha accolto la richiesta di rito abbreviato presentata dal legale di Marchetta, Ugo Colonna.

Il magistrato ha rinviato al 24 maggio del 2018 per il giudizio con rito speciale, celebrato sulla scorta del materiale probatorio raccolto dalla Procura sino alla conclusione delle indagini

La richiesta di rinvio a giudizio nei confronti Maurizio Marchetta è stata avanzata dai sostituti della Direzione distrettuale di Messina, Angelo Cavallo, Vito Di Giorgio e Massara il 3 agosto 2017.

Secondo i pm, le imprese della famiglia Marchetta sarebbero state di fatto di proprietà dei vertici della mafia di Barcellona e attraverso queste imprese la mafia ha partecipato a gare d’appalto appositamente truccate.

In questo modo, Marchetta avrebbe conseguito il vantaggio di lavorare e guadagnare sotto protezione della mafia e la mafia per contro quello di lucrare usando imprese pulite.

 

Questione di attendibilità

Contro Marchetta ci sono le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carmelo Bisognano e Carmelo D’amico, altro capo dell’organizzazione che a sua volta ha iniziato a collaborare nel 2014..

I due insieme a Nicola Mazzagatti, furono denunciati da Maurizio Marchetta per estorsione ai suoi danni e furono arrestati nell’ambito dell’inchiesta Sistema, scattata alla fine del 2009.

D’amico e Bisognano, sin da subito, non appena sottoposti a custodia cautelare (quando non erano ancora collaboratori di giustizia) reagirono sostenendo che Marchetta non era un imprenditore estorto ma colluso con la mafia.

In primo grado, il 25 febbraio del 2010, il Tribunale di Messina ritenne Marchetta attendibile e condannò così D’amico a 10 anni e 7 mesi e Bisognano 7 e 4 mesi.

Sempre sulla scorta delle dichiarazioni di Marchetta il 28 aprile del 2011 il Tribunale di Barcellona condannò pure Nicola Mazzagatti ad anni 8 e mesi 6 di reclusione.

In appello, invece, i tre furono assolti.

La Corte di secondo grado con due sentenze del 25 maggio del 2013 e il 14 gennaio del 2014 ritenne, infatti, non credibili le dichiarazioni di Maurizio Marchetta.

Se Marchetta è vincente in Cassazione e pure a Reggio calabria

La Corte di cassazione, però qualche tempo dopo, ha annullato le due sentenza della Corte d’appello, “per gravi carenze motivazionali” proprio sulla ritenuta non attendibilità di Marchetta, disponendo la nuova celebrazione dei due processi a Reggio calabria, uno a carico di D’amico e Bisognano, uno di Mazzagatti.

A Reggio calabria, la Corte d’appello ha già ribaltato il giudizio dei giudici di secondo grado messinesi e ha condannato Nicola Mazzagatti per estorsione a carico di Marchetta, ritenendo attendibili le dichiarazioni accusatorie di quest’ultimo.

E’ in corso di svolgimento, invece, il nuovo processo ordinato dalla Cassazione per estorsione aggravata a carico di D’amico e Bisognano con Marchetta parte civile.

Vecchia maniera, condannato in primo grado a 5 anni di reclusione il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano per estorsione e intestazione fittizia di beni, reati commessi sotto protezione. Due anni a Tindaro Marino. Tutti i guai dell’ex boss di Barcellona

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

Cinque anni di reclusione per Carmelo Bisognano e due anni a Tindaro Marino.

Finisce con una sentenza di condanna il processo di primo grado a carico dell’ex boss di Barcellona, dal 2010 collaboratore di giustizia, e per l’imprenditore di Gioiosa marea.

Il Tribunale di Barcellona al termine di una camera di consiglio durata sino alle 23 e 20 ha ritenuto Bisognano colpevole del reato di intestazione fittizia di beni e di tentata estorsione ai danni dell’imprenditore Giuseppe Torre e della stessa società Torre srl.

I reati sono stati commessi tra il 2015 e il 2016 mentre Bisognano si trovava sotto la protezione dello Stato e i contribuenti italiani gli pagavano la scorta, due avvocati, la casa, i viaggi e un assegno mensile di 1600 euro.

Tindaro Marino è stato invece ritenuto colpevole del reato di intestazione fittizia di beni.

Entrambi erano stati arrestati il 16 maggio del 2016, nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera.

Gli arresti scattarono anche per Angelo Lorisco, uomo fidato di Bisognano, che ha scelto il rito abbreviato e per gli stessi reati che hanno portato ora alla condanna del collaboratore, l’8 gennaio 2017. è stato condannato a tre anni di reclusione.

La strumentalizzazione del ruolo di collaboratore

Gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Angelo Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto alla misura di prevenzione patrimoniale e condannato all’epoca per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, Bisognano tramite Lorisco aveva – secondo l’ipotesi accusatoria che ha trovato un primo positivo riscontro – strumentalizzato il ruolo di collaboratore e tentato di sottoporre a estorsione i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda, minacciando di fare dichiarazioni sul loro conto.

Le dichiarazione di favore e l’imputazione coattiva

A Bisognano, la cui colaborazione ha permesso di mettere alla sbarra vari esponenti della mafia del Longano, e Marino fu contestato al momento degli arresti anche un altro reato.

In cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, Bisognano, come hanno disvelato in maniera chiara le intercettazioni si era impegnato a fare nuove e diverse dichiarazioni, nell’ambito di indagini difensive, favorevoli a Marino, che ne alleggerissero la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Per quest’ultimo capo di accusa, i sostituti della Direzione distrettuale antimafia di Messina,  Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, gli stessi che hanno gestito la collaborazione di Bisognano e avevano chiesto gli arresti, hanno domandato l’archiviazione.

Ma il giudice per l’udienza preliminare Monica Marino, il 28 giugno del 2017 ha rigettato la richiesta ordinando l’imputazione coattiva per il reato di  False dichiarazioni al difensore rilasciate nell’ambito delle investigazioni difensive.

Per i due pm, Cavallo e Di Giorgio, che hanno totalmente rivisto la valutazione fatta sul punto nella richiesta di misure cautelari, Bisognano si era si impegnato a fare dichiarazioni di favore ma poi non le aveva fatte.

Diametralmente opposta la valutazione del giudice Monica Marino.

Secondo quest’ultima, Bisognano le dichiarazioni di favore e diverse da quelle che aveva reso in precedenza, il 30 settembre del 2015, in presenza dei suoi difensori, Mariella Cicero e Fabio Repici, e del difensore di Marino, Salvatore Silvestro, le ha rese.

Il ritorno in carcere

Da venerdì 7 luglio 2017 Bisognano è nel carcere di Rebibbia.

E’ stato nuovamente arrestato su ordine del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, che ha accolto la richiesta della Procura, guidata da Giuseppe Pignatone.

Il Tribunale di Barcellona, lo stesso che oggi lo ha condannato, il 17 maggio del 2017, dopo un anno esatto di carcere, ne aveva ordinato la scarcerazione anche sulla base del fatto che il programma di protezione non fosse stato revocato.

Dalle indagini del commissario di Barcellona era pure emerso che due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento, anche con altri collaboratori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

La procura di Roma, a cui erano stati trasmessi gli atti per competenza territoriale ha declinato l’accusa in termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e del segreto d’ufficio.

La difesa strenua e i complotti

Carmelo Bisognano durante la collaborazione e sino agli arresti del maggio del 2016 era assistito da Fabio Repici e Mariella Cicero, colleghi da anni di studio.

Mariella Cicero subito dopo gli arresti ha rimesso il mandato essendo emerse delle intercettazioni tra il legale e il collaboratore suscettibili – secondo gli inquirenti – di rilevanza penale. Repici ha continuato a difendere Bisognano e nel processo in corso a Barcellona ha citato la Cicero come teste a difesa di Bisognano.

Stando agli atti processuali, secondo il legale Repici l’incriminazione di Bisognano è stata frutto di un complotto che ha visto come protagonisti il commissario Ceraolo, l’avvocato Ugo Colonna, l’avvocato di Barcellona Saro Cattafi (condannato per calunnia nei confronti di Bisognano e Repici e assolto dalla Cassazione dall’accusa di essere il capo della mafia mafia di Barcellona e dal 2000 in poi anche un semplice affiliato mentre per il periodo precedente è necessario un nuovo giudizio d’appello), e il legale di quest’ultimo Salvatore Silvestro.

Di “scivolone su una buccia di banana” aveva parlato nel corso della sua deposizione  Mariella Cicero, minimizzando la gravità dei fatti contestati a Bisognano

Il Tribunale di Barcellona,presieduto da Fabio Processo, non si è fatto incantare né dai complotti, né dalla metafora delle bucce di banana.

 

IL GIALLO: Il senatore Luigi Gaetti ritira l’interrogazione sulla gestione “di favore” del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, sotto processo a Barcellona. Ma afferma: “La ripresento non appena accerto che le segnalazioni che mi hanno consigliato la decisione sono infondate”

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Il senatore Luigi Gaetti

Il senatore Luigi Gaetti

La ripresento non appena avrò accertato che quanto mi è stato segnalato non corrisponde alla verità“.

L’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia e a quello degli Interni, gettava molte ombre sulla gestione della collaborazione con la giustizia dell’ex boss di Barcellona Carmelo Bisognano, domandando ai ministri un’attività di ispezione per diradare i dubbi e spiegare le anomalie.

Ombre che toccano i magistrati della Procura e della Corte d’appello di Messina (e i due legali del collaboratore) che – secondo le ipotesi contenute nell’interrogazione – avrebbero riservato un trattamento di favore e illecito al collaboratore, arrestato il 24 maggio del 2016 con l’accusa di tentata estorsione, favoreggiamento, intestazione fittizia di beni.

Luigi Gaetti, senatore del M5Stelle e vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, però, l’interrogazione l’ha ritirata dieci giorni dopo averla presentata.

E’ solo una scelta momentanea, per scrupolo”, afferma il senatore

Il motivo? “Mi è stato segnalato che l’atto ispettivo fosse stato scritto su una conoscenza parziale della documentazione. Mi sono fatto mandare quella mancante e la sto esaminando. Sinora non è emerso nulla che mi faccia pensare che l’interrogazione non fosse fondata“, dichiara il senatore.

Ma chi le ha fatto la segnalazione? “Guardi, a me arrivano tante segnalazioni e con estrema umiltà ne tengo conto“, glissa il vicepresidente della Commissione antimafia.

Dietrologie

L’esistenza dell’interrogazione e il contenuto della stessa sono state più volte evocate dal difensore di Carmelo Bisognano, Fabio Repici, nel processo a carico dell’ex boss, in corso di svolgimento davanti al Tribunale di Barcellona: in specie, durante l’esame di Mariella Cicero, il legale che difendeva unitamente a Repici (di cui è collega di studio) Bisognano sino agli arresti, per poi lasciare l’incarico per l’emergere di intercettazioni con il collaboratore, giudicate dagli inquirenti oltre i limiti del rapporto lecito tra assistito e difensore.

L’avvocato Repici ha, infatti, interrotto il collega Ugo Colonna, difensore di parte civile, che stava ponendo delle domande a Mariella Cicero, chiamata da Repici come teste a difesa di Bisognano, sottolineando:  “Si può frodare il Parlamento, non qui in Tribunale”

Il presidente del Tribunale, Fabio Processo, lo ha invitato ad una condotta rispettosa del collega: “Non usi parole scorrette nei confronti innanzitutto del collega”.

L’avvocato Colonna ha ribattuto: “Qui se c’è qualcuno che froda è un’altra persona, quindi….”

Le ombre 

L’interrogazione di Gaetti, ora messa ora nel congelatore, in sintesi, denunciava che Carmelo Bisognano, collaboratore dal 2010, nel 2015, quando è divenuta definitiva una condanna per mafia, sarebbe dovuto andare in carcere e, invece, in violazione di legge ha ottenuto la sospensione della pena su sollecitazione dei suoi difensori; ancora, che Bisognano, al di là della responsabilità penale in corso di accertamento, da collaboratore di giustizia si è reso protagonista di varie e gravi violazioni degli impegni assunti al momento della collaborazione che a norma di legge avrebbe dovuto condurre alla revoca del programma di protezione, revoca mai adottata.

Il vicepresidente della Commissione antimafia nell’interrogazione ha evidenziato come tutto ciò sia accaduto nonostante dall’esame degli atti processuali emergesse che la collaborazione di Bisognano sia stata contrassegnata da omissioni interessate.

 

Scarcerato Carmelo Bisognano: l’ex boss di Barcellona, dal 2010 collaboratore di giustizia, era stato arrestato a maggio 2016 per tentata estorsione, favoreggiamento e intestazione fittizia di beni. In corso il processo per accertare la responsabilità. La misura sostituita con l’obbligo di dimora

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

Dal 24 maggio del 2016 era detenuto in una struttura carceraria. Arrestato con l’accusa di intestazione fittizia di beni, tentata estorsione e favoreggiamento non gli è stato, però, mai revocato il programma di protezione.

E’ anche per questo motivo che a distanza di un anno l’ex boss della mafia di Barcellona, Carmelo Bisognano, dal 2010 collaboratore di giustizia, torna libero.

O meglio, torna in località protetta, con obbligo di dimora e divieto di uscire dalle 19 di sera alle otto del mattino dall’abitazione che gli ha assegnato il ministero degli Interni, protetto dalla scorta.

Il Tribunale di Barcellona, davanti a cui si celebra il processo a carico di Bisognano per intestazione fittizia di beni e tentata estorsione, ha deciso di accogliere l’istanza avanzata dalla stesso pubblico ministero, che si era pronunciato per la sufficienza dell’obbligo di dimora, e dalla difesa di Bisognano rappresentata da Fabio Repici, che aveva chiesto la revoca o la sostituzione del carcere con gli arresti domiciliari.

“Bisognano è tutt’ora sottoposto a programma di protezione; si avvicina comunque il termine di durata massima delle misure cautelari; tenuto conto dell’attività istruttoria svolta e della condotta nel corso del processo, pur rimanendo i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati contestati, l’obbligo di dimora con divieto di allontanarsi dalla propria abitazione dalle 19 di sera alle 8 di mattina appare idoneo a soddisfare le residue esigenze cautelari”: queste, in sintesi, le motivazioni del Tribunale presieduto da Fabio Processo.

“Non è stata data prova che Saro Cattafi tra il 1993 e il 2000 fosse mafioso”. Pubblicate le motivazioni della sentenza della Cassazione che aveva disposto un nuovo giudizio a Reggio Calabria. Da cui dipende la prescrizione delle residue accuse di mafia per l’avvocato di Barcellona, già assolto per il periodo successivo al 2000

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Saro Cattafi

Saro Cattafi

“La Corte d’appello di Messina non ha indicato nella motivazione in base a quali elementi di prova Rosario Cattafi è rimasto affiliato alla mafia dopo il 1993 (anno in cui fu arrestato rimanendo in carcere per 4 anni) e sino al 2000. La Corte d’appello di Reggio calabria valuti se queste prove ci sono e, in caso negativo, ridetermini la pena”.

E’ questa la sintesi della motivazione, depositata questa mattina, con cui la Corte di Cassazione il primo marzo 2017 ha annullato parzialmente la sentenza della Corte di appello di Messina adottata il 24 novembre del 2015 nei confronti dell’avvocato di Barcellona.

Dunque, all’esito dei tre gradi di giudizio, Saro Cattafi è stato ritenuto colpevole di essere un semplice affiliato alla mafia sino al 1993; e riconosciuto di essere estraneo alla mafia dopo il 2000.

Mentre per stabilire se sia stato un semplice affiliato all’ organizzazione criminale di Barcellona tra il 1993 e il 2000 ci vorrà un giudizio nuovo sull’esistenza delle prove che la Corte di cassazione non ha trovato.

“Cattafi è rimasto in carcere ininterrottamente per 4 anni, e quando è uscito, alla fine del 1997, non ha più potuto contare sulla presenza a Barcellona di Pippo Gullotti, suo referente e amico, che è stato arrestato subito dopo, nel 1998: quindi, dal 1993 in poi non si può dire senza elementi di prova ulteriori non forniti in sentenza di secondo gardo che Cattafi sia rimasto intraneo all’organizzazione”, hanno scritto i giudici della Cassazione.

Ad un passo dalla prescrizione

Il responso della Corte d’appello di Reggio Calabria tuttavia sarà determinante anche per stabilire se il reato di associazione di stampo mafioso commesso da Cattafi sino al 1993 non sia prescritto.

Infatti, nel caso in cui i giudici reggini non trovassero prova dell’appartenenza alla mafia di Cattafi dopo il 1993, il reato di cui pure è stato riconosciuto colpevole sino al 1993 sarebbe da dichiarare prescritto e, dunque, Cattafi andrebbe esente da pena per questo reato.

Infatti, il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso di cui è accusato Cattafi si prescriveva in 15 anni.

La storia di un processo

La Corte d’appello, ora corretta dalla Cassazione, aveva riconosciuto colpevole l’avvocato di Barcellona di essere un semplice affiliato alla mafia e solo sino al 2000, e non come aveva stabilito il Giudice di primo grado di essere capo promotore dell’organizzazione mafiosa barcellonese sino al momento degli arresti, scattati il 24 luglio del 2012.

La corte di Cassazione il primo marzo scorso ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale che per contro tendeva alla riforma della parte della sentenza d’appello che aveva corretto quella di primo grado, adottata in abbreviato dal giudice Monica Marino, in modo da farne rivivere la dichiarazione di colpevolezza di Cattafi.

Le pene del carcere

Saro Cattafi in primo grado, al termine del giudizio abbreviato era stato condannato a 12 anni di reclusione (grazie alla riduzione di un terzo della pena per il rito).

Sedici anni di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso aggravata dall’essere capo promotore e due anni per l’accusa di calunnia ai danni del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano e del suo legale Fabio Repici: 18 anni in tutto, poi ridotti di un terzo a 12.

In appello la pena è scesa a 7 anni di reclusione (6 anni per mafia e un anno per calunnia).

La calunnia

La pena ad un anno per calunnia è invece passata in giudicato, essendo stato rigettato il ricorso per Cassazione dei difensori di Cattafi, Salvatore Silvestro e Giovambattista Freni.

Cattafi nel corso del 2011, prima degli arresti, in esposti/denuncia aveva indicato il legale Repici, come ispiratore, e Bisognano, come esecutore, di una sorta di complotto ai suoi danni teso a portarlo in carcere.

L’avvocato Cattafi era finito sotto processo con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e di aver tenuto, in questa veste, i contatti con le famiglie di Cosa nostra catanese e palermitana.

Con questa contestazione è stato arrestato il 24 luglio del 2012 e tenuto al 41 bis sino alla scarcerazione avvenuta dieci giorni dopo la sentenza d’appelllo emessa il 24 novembre del 2015.

Il Ne bis in idem rispettato

Gli avvocati di Cattafi, dinanzi ai giudici l’ermellino, hanno tentato si sostenere che l’accusa che gli è stata mossa a Messina nel 2012 in realtà aveva già costituito oggetto di un processo celebrato a Milano al termine del quale Cattafi era stato assolto definitivamente nel 2000 e quindi vi sarebbe stata violazione del Ne bis in idem, principio secondo cui una persona non può essere giudicato e condannato due volte per lo stesso fatto di reato.

La Cassazione, d’accordo con il giudice di primo grado e con quelli d’appello, ha ritenuto che Cattafi a Milano fu accusato di aver fatto parte di una specifica consorteria e a Messina di un’altra e dunque non si è trattato della medesima accusa.

Caso Cattafi: la Cassazione annulla la condanna per mafia e chiama la Corte d’appello di Reggio calabria a giudicare se l’avvocato di Barcellona prima del duemila fosse un associato. Rigettato il ricorso della Procura generale: è definitiva l’assoluzione per il periodo successivo. E la condanna per calunnia ai danni del collaboratore Bisognano e del suo legale Repici

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Saro Cattafi

Saro Cattafi

 

Non è il capo dei capi della mafia di Barcellona. Non è neppure un semplice affiliato a partire dal 2000. E per stabilire se prima dell’anno 2000 Saro Cattafi sia stato un affiliato alle cosche del Longano, come aveva stabilito la sentenza della Corte d’appello di Messina, è necessario un nuovo giudizio davanti alla Corte d’appello di Reggio Calabria.

E’ questo in estrema sintesi (e facendo affidamento al solo dispositivo pubblicato nella tardissima serata di oggi) il responso del giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione.

I supremi giudici hanno, infatti, accolto il ricorso del difensore di Cattafi, Salvatore Silvestro, annullando con rinvio la sentenza della Corte di appello di Messina, relativamente alla condanna per la condotta di associazione per delinquere di stampo mafioso tenuta prima del duemila.

La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale che tendeva per contro alla riforma della parte della sentenza che aveva riconosciuto Cattafi di non essere capo promotore dell’organizzazione mafiosa barcellonese sino al momento degli arresti scattati ad agosto del 2012, come aveva stabilito invece la sentenza di primo grado.

Quindi relativamente alla condotta tenuta dopo il duemila la sentenza è passata in giudicato e dunque può dirsi definitivo il riconoscimento di estraneità alla mafia da parte di Cattafi.

I giudici con l’ermellino non hanno invece accolto il ricorso del difensore di Cattafi avverso la parte della sentenza di secondo grado che condannava Cattafi per calunnia ai danni del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano e del suo legale Fabio Repici.

Pertanto, la condanna per calunnia (e il relativo risarcimento danni) ha ottenuto il sigillo di cosa giudicata.

L’avvocato Cattafi era finito sotto processo con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e di aver tenuto, in questa veste, i contatti con le famiglie di Cosa nostra catanese e palermitana. Con questa contestazione è stato arrestato il 24 luglio del 2012 e tenuto al 41 bis sino alla scarcerazione avvenuta dieci giorni dopo la sentenza d’appelllo emessa il 24 novembre del 2015.

In primo grado, al termine del giudizio abbreviato era stato condannato a 12 anni di reclusione (grazie alla riduzione di un terzo della pena per il rito). Sedici anni di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso aggravata dall’essere capo promotore e due anni per l’accusa di calunnia ai danni del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano e del suo legale Fabio Repici: 18 anni in tutto, poi ridotti di un terzo.

La Corte d’appello ha escluso che Saro Cattafi sia un capo promotore e lo ha riconosciuto colpevole, in quanto semplice affiliato, per le condotte tenute sino al 2000.

Gli stessi giudici avevano confermato la condanna per calunnia.

Cattafi nel corso del 2011 in esposti/denuncia aveva indicato il legale Repici, come ispiratore, e Bisognano, come esecutore, di una sorta di complotto ai suoi danni teso a portarlo in carcere.

Notizie riservate dall’avvocato, accesso alla Banca dati delle Forze dell’Ordine, incontri a piacimento in località protetta: nella carte dell’inchiesta ecco come il collaboratore di giustizia Bisognano si faceva beffa dello Stato e tesseva le sue trame

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

 

“… il Giudice Salamone gli ha fatto fare la relazione che Stefano Rottino parlava con lei … … cioè proprio ha chiamato il Carabiniere… questa cosa … ora lei mi fa una cortesia, esce tra un poco, cinque minuti e si viene a sedere anche con i Carabinieri dove ci sono io … così se Stefano Rottino viene qua e parla io gli dico: “lei se ne deve andare è una mattinata che ci rompe i coglioni”

E’ il 16 febbraio del 2016. Il procuratore generale Maurizio Salomone vedendolo liberamente colloquiare nel Tribunale di Messina con Stefano Rottino, fresco di condanna per mafia, chiede al carabiniere presente di fare una relazione di servizio.

Il suo avvocato, Mariella Cicero, si allarma, e gli telefona sul cellulare consigliandogli cosa fare per dare una giustificazione (di comodo) ex post allo strano colloquiare di un collaboratore di giustizia con chi era stato un affiliato al clan che capeggiava prima di “pentirsi”.

A Carmelo Bisognano, 51 anni, i contribuenti italiani pagavano la scorta, due avvocati, la casa, i viaggi e un assegno mensile di 1600 euro.

Lui, boss della mafia di Barcellona e autore di decine di delitti, oltre a girare libero e scortato per i Tribunali della Sicilia a puntare l’indice a destra e a manca, consentendo una serie di operazioni di polizia che hanno decapitato i vertici della mafia del Longano, teneva contatti con esponenti dei clan mafiosi impartendo loro istruzioni; svolgeva attività imprenditoriale sotto mentite spoglie, si incontrava a suo piacimento nella località protetta (anche con altri collaboratori di giustizia) e, soprattutto, concordava dichiarazioni assolutorie con condannati per mafia o minacciava di fare dichiarazioni che aveva omesso al fine di ottenere vantaggi economici.

L’inchiesta “Alla Vecchia maniera”, condotta dagli uomini del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto ha portato il 18 maggio del 2016 Bisognano dalla casa in cui viveva sotto protezione alle celle del carcere e ha mostrato come Bisognano si sia fatto beffa delle Istituzioni e della legge e, in realtà, – secondo gli investigatori – non avesse alcuna intenzione di abdicare definitivamente al suo ruolo di boss mafioso per percorrere la via della legalità.

Le stesse indagini, fatte di intercettazioni e di appostamenti, hanno però portato gli investigatori al convincimento, ora rimesso alla valutazione della Procura di Messina, che tutto ciò sia stato possibile grazie alla complicità di coloro che avrebbero dovuto assicurare la sua incolumità o offrigli assistenza legale: gli uomini della scorta e uno dei suoi avvocati. L’operato di Mariella Cicero, storico collega di studio dell’altro legale di Bisognano, Fabio Repici, infatti, non ha convinto per nulla il dirigente del Commissariato di Barcellona, Mario Ceraolo.

Il vice questore Mario Ceraolo

Il vice questore Mario Ceraolo

 

AVVOCATI NEL MIRINO

Secondo il vice questore, infatti, “Bisognano ha avuto la possibilità di accedere ad informazioni, anche coperte dal segreto istruttorio che quasi quotidianamente gli vengono fornite dal suo difensore Maria Rita Cicero con condotte che non rappresentano soltanto una evidente violazione dei doveri deontologici ma configurano precisi reati penali e che consentono al Bisognano di meglio operare nel comprensorio della provincia di Messina”. Il dirigente Ceraolo evidenzia ai magistrati della Procura di Messina come “I rapporti che intercorrono tra il legale ed il collaboratore di giustizia, come emerso in diverse altre intercettazioni, sono caratterizzati da uno scambio di informazioni a volte anche riservate che sembrano essere estranee al mandato difensivo”. Di più, ha insistito Ceraolo: “Carmelo Bisognano gode di informazioni privilegiate, ed a volte riservate, provenienti dal suo difensore  Maria Rita Cicero, che il collaboratore utilizza per meglio realizzare i suoi disegni criminosi”

Carmelo Bisognano, aveva pure la possibilità di accedere alle banche dati interforze (SDI) “strumento investigativo di grandi potenzialità specie se ne nelle mani di un mafioso e conseguentemente dei suoi complici”, come scrivono gli inquirentiimpegnati ora a dare risposta ad una serie di domande inquietanti.

INQUIETANTI DOMANDE.

Chi gli consentiva l’accesso allo SDI e ottenere informazioni riservate su persone e mezzi è stato lo stesso collaboratore a raccontarlo a magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina, nel corso di un lungo e teso interrogatorio avvenuto 15 giorno dopo gli arresti.

Invece, se si provasse che in effetti da parte dell’avvocato Cicero siano state divulgate notizie riservate, sul tavolo dei magistrati della Direzione distrettuale ci sarebbero a cascata altre domande: chi forniva le informazioni riservate all’avvocato Maria Rita Cicero che poi le girava a Bisognano? E, ancora, perché l’avvocato Cicero dava queste informazioni a Bisognano? E perché, lo stesso avvocato si intratteneva in lunghe telefonate con il  collaboratore “estranee” – secondo gli inquirenti – al mandato difensivo e si preoccupava di coprirne gli scivoloni, come il colloquio con Rottino?

 

DIFFAMAZIONE STRISCIANTE

Scrive ancora Mario Ceraolo, in un altro passaggio di comunicazioni inviate alla Procura: In generale va evidenziata l’evidente, quanto preoccupante, inopportunità  delle diffamatorie propalazioni del legale che manifesta una disinvolta tendenza a fornire al collaboratore di giustizia rappresentazioni negative e fuorvianti di appartenenti alle istituzioni”.

E’ lo stesso Ceraolo a rilevare che ad un certo punto, a marzo del 2016, improvvisamente Bisognano si fa molto prudente al telefono. “in questo momento non ce né telefono e né niente, ordina a un suo uomo.

Allo stesso modo e contemporaneamente si trasformano in telegrafici i lunghi colloqui con il difensore Cicero, “la quale – rileva il dirigente Mario Ceraolo – nelle ultime settimane ha evitato – a differenza di quanto accadeva prima – di dilungarsi nelle conversazioni telefoniche intrattenute con il suo assistito limitandosi a brevi comunicazioni di “servizio” “.

Mariella Cicero

Mariella Cicero

 

LA REPLICA DELLA CICERO

L’avvocato Mariella Cicero raggiunta telefonicamente nella tarda serata di venerdì 24 giugno, spiega: “Ho la coscienza apposto di chi ha fatto il proprio lavoro per bene. Non ho nulla da rimproverarmi, se non di aver esperito ogni goccia di energia in questa attività di assistenza. Escludo di aver instaurato con il collaboratore un rapporto di eccessiva confidenza. Nessuna leggerezza c’è stata da parte mia”.

Entrambi i legali di Bisognano, Repici e Cicero, erano presenti quando il collaboratore, tenendo fede all’accordo con l’imprenditore Tindaro Marino, intessuto tramite Lorisco e registrato in presa diretta dagli inquirenti, rilascia le nuove dichiarazioni che alleggeriscono la posizione dell’imprenditore di Brolo.

 

DICHIARAZIONI “ADDOMESTICATE” …

Secondo gli accertamenti del commissariato di Polizia di Barcellona Pozzo di Gotto, fatti di intercettazioni telefoniche, Carmelo Bisognano tramite il fidato Angelo Lorisco, finito anch’egli in carcere, nel 2015 è entrato in contatto con Tindaro Marino, imprenditore di Gioiosa Marea, all’epoca agli arresti domiciliari e in attesa dell’esito del ricorso per Cassazione avverso la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa e del procedimento di appello di confisca del suo patrimonio.

Nel corso dell’estate del 2015, i contatti tra Bisognano e Lorisco sono stati frenetici. Così come quelli tra Lorisco e Marino.

Le intercettazioni – secondo gli inquirenti – hanno evidenziato che, in cambio del denaro necessario a svolgere attività imprenditoriali all’estero attraverso una società intestata a teste di legno, il collaboratore si è impegnato a modificare le dichiarazioni rese in precedenza contro l’imprenditore.

“….Vi interessa poi a tutti e due, in base a quello che ha detto lui ….”, dice Lorisco a Bisognano. Che ribatte: “Ah,mi potrebbe pure interessare a me, per dire… Perché sono più cose che riguardano di più a lui, che a me”. “Certo, lui esce tranquillo… E se liberano, quelli che liberano il cinquanta per cento è tuoCome ha parlato lui… eh se lui è come dice lui che esce tranquillo, sono tanti … perciò vi potete sistemate tutti e due!”, conclude Lorisco.

Promesso, fatto.

 

FATIDICO GIORNO

E’ il 30 settembre del 2015 quando Bisognano assistito dai suoi due legali Fabio Repici e Mariella Cicero risponde alle domande che gli pone nell’ambito di indagini difensive il legale di Marino, Salvatore Silvestro.

Il verbale riepilogativo viene depositato in Cassazione, dove pende il ricorso e, soprattutto, ciò che più interessa Marino, nel procedimento per la confisca dei beni dello stesso imprenditore.

E’ destinato a passare al vaglio di giudici che nulla sanno di cosa avesse detto Bisognano di Marino 5 anni prima. Ma qualcosa va storto. Perché gli sviluppi del patto scellerato sono seguiti in presa diretta dagli inquirenti.

Dal confronto delle dichiarazioni – secondo i magistrati della direzione distrettuale antimafia, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, che anni prima avevano raccolte tutte le dichiarazioni di Bisognano, poi usate nei processi, e il giudice Monica Marino – emergono delle differenze notevoli: Bisognano che aveva dipinto Marino come associato alle organizzazioni e come imprenditore che si è avvalso dei suoi rapporti con la stessa organizzazione per ampliare i suoi affari, lo dipinge 5 anni dopo, a processi fatti, come estraneo alla mafia e vittima.

Il confronto tra le dichiarazioni fatte nel 2010 sul conto di Marino e quelle fatte e contenute nel verbale riassuntivo il 30 settembre del 2015 mostrano – a leggere l’ordinanza di misure cautelari – un virata di rotta clamorosa. Non solo.

Il collaboratore si è dimenticato completamente che 5 anni prima lo aveva indicato come persona che aveva curato per conto dei clan la latitanza di boss di vertice del clan palermitano Lo Piccolo in provincia di Messina.

“Può senz’altro sostenersi che Bisognano in osservanza di accordi precedentemente rese abbia rilasciato su Marino dichiarazioni più favorevoli in quanto ne attenuavano non poco la sua responsabilità penale”, ha scritto il Gip Marino nell’ordinanza di misure cautelari.

ASSISTENZA SILENTE

I legali di Bisognano assistono alla deposizione senza nulla eccepire e senza dimostrare nel corso della stessa alcuna sorpresa. L’avvocato Cicero mentre il collaboratore risponde alle domande sul suo pc scorre i verbali di interrogatorio che Bisognano aveva fatto anni prima sul conto di Marino. L’avvocato Silvestro invece sottolinea che questi verbali lui non li ha mai visti. Il verbale è firmato da tutti i legali e da Bisognano. L’interrogatorio è stato registrato su supporto audio.

“L’interrogatorio di Bisognano – sostiene l’avvocato Cicero – è stato più complesso di quanto il verbale riassuntivo (il solo preso in esame dagli inquirenti) dica. Non appena sarà disponibile il file audio tutto sarà più chiaro. Credo ci sia stato un difetto nelle indagini”.

E gli accordi a monte con Marino e tutta l’attività delittuosa di Bisognano? “Non ne so nulla. Se ci sono stati questi accordi non lo so. Bisogna chiedere a Bisognano, a Marino e alla Procura. Io e il mio collega non ci siamo accorti di nessun cambio di rotta su Marino”.

I due legali non si accorgono del cambio di rotta di Bisognano, benché l’avvocato Cicero quando viene contattata dall’avvocato Salvatore Silvestro che le comunica la richiesta di esame di Bisognano si allarma, temendo un’imboscata da parte di chi (Silvestro) è difensore anche di Saro Cattafi, “nemico” storico di Cicero, Repici e dell’ex presidente della commissione parlamentare antimafia europea Sonia Alfano, della cui famiglia Repici è legale.

In quel momento, infatti, il processo d’appello nei confronti di Cattafi è alle battute finali. Sulla condanna in primo grado con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona sono pesate come macigni le dichiarazioni di Bisognano.

L’avvocato chiama subito Bisognano per sapere se lui sa già di questa iniziativa e per raccomandargli di non prestare il fianco a possibili autogol. Quest’ultimo, prima fa finta di non saperne nulla, poi ammette: “si..si io so tutto…sono chiaroveggente io so tutto e non so..lei lo sa…“, infine, la tranquillizza: “Non si allarmi”. La Cicero lo incalza: “perchè io di questo se devo dire la verità, mi sono preoccupata …“. “No…no…dico io faccio il chiaroveggente poi ognuno può dire quello che vuole…“, ribadisce Bisognano. A cui risponde la Cicero: “si l’ho capito io!.. io già lo sapevo che lei faceva il chiaroveggente…

 

“Avevo rappresentato ai magistrati della Procura l’inopportunità di questa iniziativa ritenendo vi fosse un traccheggio per favorire non Marino, ma Cattafi”, rivela Mariella Cicero.

ALL’INCASSO….

Quattro giorni dopo l’interrogatorio, il 4 ottobre del 2015, Bisognano è al telefono con Lorisco: “Io quello che dovevo fare, per dire per l’affare mio, l’ho fatto, dove sono i soldi? Ma non per me, per fare queste cose”, dice il collaboratore.

Le risorse economiche arrivano qualche giorno dopo.

 

RINUNCIA ALLA DIFESA….MA NON TROPPO

Lo stesso giorno degli arresti, Salvatore Silvestro ha rinunciato all’incarico di difesa di Marino. Mariella Cicero ha aspettato qualche giorno: “Ho rinunciato all’incarico dopo aver letto l’ordinanza e capito che c’è un appendice che può riguardare la mia persona. E io mi devo pure tutelare”, rivela, mettendo così il giornalista alla ricerca delle carte dell’ “appendice”. “Credo – aggiunge il legale – che io abbia delle cose da raccontare come testimone in questa storia e se fossi rimasta legale avrei potuto danneggiare Bisognano”.

La rinuncia all’incarico riguarda solo il procedimento “Alla vecchia maniera”, e non tutti gli altri procedimenti in cui Bisognano è coinvolto come imputato e collaboratore di giustizia ed è difeso pure da Fabio Repici.

E’ quest’ultimo, collega di studio di Mariella Cicero, ad assistere Bisognano nell’inchiesta che gli potrebbe costare la revoca del programma di protezione. E’ con l’assistenza di Repici che Bisognano è stato interrogato dai pm Cavallo e Di Giorgio che gli hanno chiesto conto di una serie di condotte, ma non si sono soffermati neppure un attimo sui rapporti con il suo avvocato.

 

SCORTA… DI COMPLICITA’

Mi controlli se questa persona ha precedenti penali? Mi controlli di chi è questa macchina? Mi controlli se questo mezzo è sotto confisca? Quando Bisognano aveva bisogno di un’informazione riservata gli bastava chiamare Domenico Tagliente (che eseguiva materialmente l’accesso) o Diego Pistelli o Enrico Abbina. Sono tre uomini, carabinieri, del Servizio di Protezione che avrebbero dovuto proteggere Bisognano. Invece, secondo le risultanze delle indagini, avevano instaurato con il collaboratore un rapporto di complicità che sfociava nell’illegalità.

I tre uomini deputati alla protezione di Bisognano, gli consentivano  invece di frequentarsi liberamente, senza che fosse chiesta alcuna autorizzazione, con altri collaboratori di giustizia. E, ancora, consentivano che Bisognano ricevesse visite da parte di Dora Simone, dipendente del comune di Mazzarà “in contatto con diversi soggetti gravitanti in ambienti criminali tra cui lo stesso Lorisco Angelo”, secondo gli inquirenti. Gli inquirenti hanno pure annotato un incontro di Bisognano con Dora Simone al Tribunale di Messina in presenza dell’avvocato Cicero, proprio qualche ora prima che Bisognano rendesse le dichiarazioni che alleggerivano la posizione di Tindaro Marino.

 

IRONIA DELLA SORTE

Il Giudice delle Indagini preliminari Monica Marino, accogliendo la richiesta di arresti avanzata dalla stessa Direzione distrettuale di Messina, che ne aveva curato la collaborazione iniziata sin dall’estate del 2011, è stata molto dura: “Le condotte poste in essere dal collaboratore sono di straordinaria gravità perché da un lato lumeggiano la strumentalizzazione del ruolo di collaboratore di giustizia e dall’altro testimoniano il tentativo posto in essere dallo stesso di reinserirsi nel contesto territoriale di provenienza, non disdegnando per conseguire tali finalità di ricorrere ai metodi illeciti”.

Il Tribunale della Libertà rigettando il ricorso del legali di Bisognano ha condiviso la valutazione molto dura del giudice Marino.

Quest’ultimo giudice, giudicando in abbreviato Saro Cattafi aveva – come ha scritto la Corte d’appello in un passaggio –  “aderito senza riserve al narrato del collaboratore Carmelo Bisognano”, i cui racconti su Cattafi, tendenti ad affermarne l’attualità del ruolo di capo dei capi della mafia di Barcellona, sono stati determinanti per la condanna in primo grado di Cattafi come boss di vertice, ma sono stati ritenuti sguarniti di prova dalla Corte d’appello che, con sentenza emessa prima degli arresti di Bisognano, ha riconosciuto comunque Cattafi colpevole di essere stato sino al 2000 membro dei clan mafiosi, ma come semplice affiliato e non capo dell’organizzazione.

L’ATTENDIBILITA’ SALVATA

I sostituti Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo che ne hanno chiesto gli arresti, hanno sottolineato che l’attendibilità di Bisognano non è messa in discussione dai reati che in ipotesi ha commesso mentre era sotto protezione, visto che le sue dichiarazioni, usate per infliggere condanne pesantissime, sono state sempre puntualmente riscontrate. ll Giudice Monica Marino ha condiviso.