Ordinanza “coprifuoco” e sciacallaggio, il flop di Cateno De Luca. Il provvedimento è palesemente nullo, ma il sindaco insiste e terrorizza ipotizzando scenari apocalittici: ” A Messina pochi posti di Terapia intensiva”.

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Il sindaco in mascherina Cateno de Luca

Il sindaco in mascherina Cateno de Luca

Non occorreva la scienza di un giurista per capire che il sindaco Cateno De Luca non potesse adottare l’ordinanza “coprifuoco” sbandierata con l’orgoglio esibizionista di un podestà nelle trasmissioni Rai di ieri e sui giornali di mezza italia.

Il ministro degli Interni e il Prefetto, rappresentante del Governo a Messina, ci hanno messo poco a rilevarlo..

Bastava avere un minimo di cognizioni giuridiche, quelle elementari della scuola superiore, per comprendere che al sindaco mancava completamente il potere di adottare l’ordinanza con cui ha superato (in senso restrittivo per i cittadini) la legge e i decreti attuativi del presidente del Consiglio dei ministri varati per fronteggiare l’emergenza coronavirus.

Sarebbe stato sufficiente, innanzitutto, conoscere (tanto per citarne uno) l’articolo 16 della Costituzione per il quale la libertà di circolazione può essere limitata solo con legge.

Qualunque fosse il contenuto dell’ordinanza cosiddetta contingibile e urgente, anche se per ipotesi avesse recepito completamente il contenuto dei decreti (e nel caso di specie non è assolutamente così), De Luca non aveva alcun potere di adottarla, punto e basta.

E per due ragioni.

La prima: la legge che prevede la possibilità di limitare le libertà dei cittadini per fronteggiare il coronavirus stabiliva che eventuali ordinanze dei sindaci potessero avere efficacia sino all’entrata in vigore dei decreti del presidente della Repubblica.

La seconda: in ogni caso il Testo unico enti locali, all’art. 50, offre la possibilità di ordinanze contingibili e urgenti per fare fronte a situazioni di emergenza sanitaria ,solo se si tratta di problematiche squisitamente locali, cioè che non è sicuramente l’emergenza coronavirus. C‘è una ragione di fondo di logica e di buon senso. Anche a voler sorvolare su un principio fondamentale dello Stato liberaldemocratico, ovvero che la libertà personale possa essere solo limitata per legge. Qualcuno può immaginare  provvedimenti così delicati con ripercussioni gravi sulle libertà della persona, che a fronte dello stesso problema nazionale a Messina valgono, a Villafranca no e poi a Milazzo assumono altre forme?

Ora, De Luca appresa la bocciatura del Viminale e del prefetto di Messina, insiste e annuncia che andrà avanti, ma è chiaro, lo era già prima, che un provvedimento completamente illegittimo, in carenza assoluta di potere, non obbliga alcun cittadino a rispettarlo e obbliga per contro gli agenti di polizia municipale a non eseguirlo, salvo che non vogliano incorrere in responsabilità penale.

Per il sindaco i provvedimenti del Governo, che limitano come mai nella storia della Repubblica italiana la libertà dei cittadini per fronteggiare una situazione di emergenza ingigantita in maniera ingiustificata a tal punto da farla diventare terrore, sono “acqua fresca”.

Saranno acqua fresca, ma lui il sindaco ha giurato di essere fedele alla Costituzione e di rispettare le leggi della Repubblica e nel caso di specie di questo giuramento pare si sia dimenticato.

Ma la condotta spregiudicata del sindaco è ancora più grave perché se n’è dimenticato in un momento particolarmente delicato, strumentalizzando e aggravando lo stato di paura e ansia in cui tutti gli italiani sono stati piano piano, giorno dopo giorno, portati.

“Se si diffondesse il virus a Messina non ci sono sufficienti posti letto in Rianimazione. Ce ne sono solo 10, 44 in tutta la Regione”, ha affermato in una delle tante dirette facebook e facendo così credere ai suoi amati cittadini che sono particolarmente sfortunati e che se li beccasse il virus non avrebbero scampo.

Si tratta di affermazione fondata su dati non del tutto corretti e su scenari al momento ragionevolmente non ipotizzabili.

Il Policlinico universitario ha 22 posti ordinari di Rianimazione; sono stati già portati a 30 e entro marzo saranno totalmente dedicati al coronavirus.. Altri 20 posti sono al Papardo. Nell’azienda universitaria un intero padiglione, l’H,  è stato già svuotato e sarà dedicato agli eventuali contagiati di coronovirus che non avranno bisogno di terapia intensiva.Senza contare la presenza di un’altra azienda ospedaliera, l’Irccs Neurolesi Piemonte.

In ogni caso, lo scenario apocalittico che rappresenta De Luca non ha alcun appiglio epidemiologico, a Messina e provincia tutt’altro che allarmante se si tiene conto che sono già in atto misure di contenimento del contagio senza precedenti: ci sono solo 8 positivi e 4 di questi non sono neppure ricoverati.

De Luca non si è ancora accorto – e forse qualche giurista che circola sempre appresso a lui facendo incetta di incarichi di sottogoverno farebbe bene a ricordarglielo – che sempre secondo Testo unico Enti locali tanto sbandierato ma solo nella parte in cui gli attribuisce poteri, c’è una norma all’articolo 142: “Per atti contrari alla Costituzione e gravi e persistenti violazioni di legge con decreto del presidente del Consiglio il sindaco può essere rimosso”.

Non che ci sia un ministro capace di tanto, specie ai tempi del coronavirus in cui della Carta costituzionale è stata fatta carta straccia.

Qualcuno ieri sera ha scritto che Cateno De Luca non abbia fatto altro che copiare e incollare le misure del Governo o che addirittura le abbia anticipate, con doti di preveggenza formidabili. Poco c’è mancato che tra i suoi adoratori ci fosse qualcuno che affermasse fosse stato lui a dettare il contenuto dell’ultimo decreto di ieri sera al premier Giuseppe Conte.

Nulla di più falso. De Luca nella piena manifestazione di incontrollabile smania di esibizionismo è riuscito ad essere più liberticida di Conte.

E’ sufficiente confrontare l’Ordinanza coprifuoco con i provvedimenti nazionali.

Intanto, quello che per i decreti di Conte è “evitare di circolare se non per comprovate ragioni ecc ecc” è diventato nell’ordinanza di De Luca “divieto di circolare, salve le comprovate ragioni ecc. ecc”, con una differenza di non poco conto sotto il profilo della tassatività del divieto e dell’ eventuale responsabilità penale di chi fosse stato trovato fuori casa magari da solo a fare una passeggiata o anche una corsetta.

Il sindaco sospende tutta l’attività degli studi medici, diagnostiche e laboratori di analisi cliniche, salve comprovate esigenze ecc ecc.

De Luca, ancora, addirittura deroga a quanto stabilisce il presidente Conte nell’ultimo decreto.

Il primo cittadino chiude infatti le attività di front office di banche e uffici postali, per cui chi non possiede l’internet banking o semplicemente una connessione internet non può capire per un mese cosa stia accadendo ai propri conti mentre nel decreto è previsto che “restano garantiti i servizi bancari, finanziari e assicurativi”.

Ancora vieta anche l’attività di consegna a domicilio che per contro per il decreto del presidente del consiglio deve “rimanere consentita”.

Introduce limitazioni non previste dai decreti del premier, sospende tutti gli studi veterinari e le cliniche veterinarie e riduce i giorni e gli orari di apertura dei negozi di prodotti per gli animali. Chiudeva gli ambulatori medici e i laboratori di analisi, tranne di pediatri e medici di famiglia.

Infine, alla sanzione penale in caso di inosservanza ne aggiunge una amministrativa pecuniaria.

Insomma, si tratta di disposizioni peggiorative (rispetto alle libertà dei cittadini) rispetto ai decreti di Conte e dunque da non osservare e non sanzionabili, come gli ha fatto osservare il prefetto di Messina.

Insomma, tanto rumore, per qualche ora di visibilità in più.

Cateno De Luca, il “liberticida illuminato” che sguazza nel clima (ingiustificato) di terrore in cui è stata fatta precipitare l’italia. Il sindaco annuncia di voler violare la Costituzione e il codice penale e ai tempi del coronavirus diventa il “personaggio” del giorno

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Cateno De Luca "in versione "francescano"

Cateno De Luca “in versione “francescano”

“Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salve le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e sicurezza”, stabilisce la Carta Costituzionale.

La legge, o meglio il decreto legge, emanato per contrastare l’emergenza sanitaria determinata dal corona virus è di fatto liberticida: chiude, infatti, un intero paese, recinta nella propria casa milioni di persone ma è giustificato da un’ epidemia virale fatta diventare emergenza e soprattutto (ingiustificatamente) terrore, ammesso che il terrore possa essere razionalmente mai giustificato.

Pur limitando fortemente la libertà sancita dalla nostra Costituzione all’art. 16, una delle libertà fondamentali della persona, il decreto legge del 26 febbraio scorso poi convertito in legge dal Parlamento e attuato con due Decreti del presidente del Consiglio non si era certo spinto a ordinare il coprifuoco, tipico dello stato di guerra o meglio dei regimi dittatoriali.

Quello che il Governo nazionale non si è neppure sognato di fare a Messina diventa realtà.

Cateno De Luca, il sindaco della città, è andato su una delle reti Rai e davanti a milioni di Italiani ha ribadito che a Messina da domani nessuno potrà più uscire di casa: ha già pronta l’ordinanza.

Ma attenzione l’ adotterà nell’interesse dei cittadini, perché li ama, tiene alla loro salute.

E’ insomma un liberticida illuminato e amorevole.

Non bisogna aver frequentato l’Università per capire che un provvedimento del genere, qualora fosse emanato, sarebbe palesemente illegale e nessun pubblico ufficiale potrebbe applicarlo senza andare incontro a responsabilità penale in concorso con lo stesso sindaco.

De Luca ha l’aggravante di aver conseguito – pare – la  laurea in Giurisprudenza. Parafrasando Pier Paolo Pasolini, si potrebbe dire che non c’è nulla di peggio di un laureato in legge che non ha cultura giuridica.

Ma il sindaco che da alcuni giorni fa la ronda per la città in versione “francescano” non è uno sprovveduto e sa benissimo che simile provvedimento (se eseguito) può solo creargli guai giudiziari (per la prima volta probabilmente fondati su prove inconfutabili).

Il suo vero obiettivo De Luca l’ha già raggiunto: è diventato ancora una volta un personaggio pubblico di rilievo nazionale. Questa volta per un’altra emergenza, più precisamente una possibile emergenza.

Dopo l’emergenza baracche, De Luca è entrato nelle case di tutti gli italiani, impauriti da un virus che li bracca ferocemente. Vuole fare ciò che a nessun politico di Italia, a nessun sindaco, neppure quelli delle località dove ci sono centinaia di contagiati, è venuto in mente: violare la Costituzione per evitare l’emergenza sanitaria dovuta alla carenza di posti di rianimazione in città.

Ora se un qualunque cittadino italiano annunciasse che domani ha intenzione di commettere un reato verrebbe fatto visitare da uno psichiatra o tenuto sotto controllo dagli agenti di polizia.

Invece nel paese del terrore che è diventato l’italia è stato ospitato dalla rete del servizio pubblico (pubblico, si fa per dire) .

De Luca ha così soddisfatto la sua smania irrefrenabile di apparire, il bisogno dare un senso al suo ego smisurato.

Ama i suoi cittadini ma si è arruolato (lo aveva già fatto 20 giorni fa,ordinando l’inutile disinfezione delle scuole) tra i tanti, troppi spargitori di terrore e paura: gli unici che hanno spazio sui media e annullano le voci di chi con razionalità e con i dati in mano cerca di spiegare il problema coronavirus senza atterrire le persone.

Vuole proteggere la loro salute, ma aumenta lo stato d’ansia in cui la gente è stata fatta precipitare. I messinesi dopo la sua iniziativa non avranno solo paura del virus, avranno paura che se lo beccano non potranno contare sui posti di Rianimazione e quindi non avranno scampo: sicché più che di posti in Rianimazione ci sarà sempre più bisogno di spazio nei reparti di salute mentale. 

Fa riflettere che il suo annuncio non abbia suscitato reazioni forti di indignazione o protesta nessuna forza politica,di destra o di sinistra che sia (salvo qualche voce isolata); di nessun sindacato confederale; di nessuna associazione. Tutti allineati.Tutti silenziosi.

E questo è molto preoccupante seppur prevedibile.

Sul clima di terrore si costruiscono le dittature o le si consolidano (non è neppure necessario scomodare Hannah Arendt): non è un caso che la propaganda dei regimi totalitari è stata sempre tesa, attraverso la manipolazione della realtà, a creare il terrore. In nome del nemico, rappresentato in forme mostruose, che mette a rischio la salute o la sicurezza, si limitano le libertà. Oppure si muovono guerre. O si sterminano delle etnie.

Facendo leva sulla paura (quella della morte è la meno controllabile) nelle democrazie si ottiene il consenso.

In pochi si sono accorti che quello che sta vivendo l’Italia è il momento più delicato della sua storia repubblicana: oltre al benessere economico (irrimediabilmente compromesso per anni ormai, specie al sud), sono infatti in gioco la democrazia e la libertà, le vere vittime di un virus descritto come terribile da sciacalli (che diffondono fake di tutti i tipi), personaggi in cerca notorietà e posti di potere e politici inetti o opportunisti, con la complicità determinante e criminale delle testate giornalistiche e dei giornalisti, attirati dall’aspettativa di qualche punto in più di audience o di copie vendute.

Quello che accaduto nelle carceri nei giorni scorsi, con rivolte dei detenuti e 13 morti, è il chiaro segnale di ciò che quando si semina terrore si sa come la storia inizia ma non si può prevedere a quali conseguenze possa portare.

Un virus che crea si dei problemi (a una parte limitata di coloro che lo contraggono) ma che terribile non è, come pure tentano invano di spiegare intimiditi dal clima ostile alcuni scienziati, la cui voce è soffocata dalle urla di colleghi che la pensano in maniera diversa e hanno già da mesi libri pronti da pubblicare in cui si parla giustappunto di virus terrificanti.

Un virus così “terribile” che pur circolando nel paese dal dicembre del 2019, quindi da 4 mesi, ha contagiato (nel senso che hanno manifestato dei sintomi) – secondo i dati diffusi dal quotidiano bollettino della protezione civile – 11 mila persone (su 60 milioni di abitanti, ovvero in termini percentuali lo 0,18%  della popolazione). Il virus ne ha (o avrebbe) uccise 823, il 90% dei quali con età superiore ai 70 anni; il 60% con età superiore agli 80 anni, quasi tutti con due o tre patologie.

Avrebbe, perché in realtà nello stesso bollettino si precisa che “il numero potrà essere confermato solo dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso”. E allora se il numero deve essere confermato, e se deve essere stabilita la causa effettiva del decesso, perché viene diffuso nel corso della drammatica conferenza stampa di ogni giorno alle 18 e propinato alla gente in angosciante attesa come numero certo? 

Comunque, sinora, “sarebbero” decedute neppure un decimo delle persone che ogni anno muoiono (l’80% nel periodo invernale) – secondo i dati dell’Istat – per l’influenza virale stagionale (10 mila persone a cui vanno aggiunte 4 mila per setticemia).

Nel 2009 si affacciò in Italia un virus nuovo come questo, l’N1H1, noto come suina. Descritto come molto virulento e diffusivo mise in allarme le autorità sanitarie. Si temeva una pandemia. Ma nessuno se ne andò in televisione al primo morto a seminare terrore. Non si terrorizzò la gente, non si gettò il paese nel caos, non lo si chiuse.

Si gestì in via ordinaria la problematica sanitaria, che poi si rivelò meno grave di come si fosse paventato perché il sistema immunitario di ciascun individuo si adattò al nuovo virus e lo tenne a bada,secondo quelle che sono le regole della natura e della lotta per la sopravvivenza tra gli essere viventi.

I contagiati furono un milione e mezzo, in molti morirono (sempre tuttavia nella stessa percentuale di ogni anno e sempre tra le persone più anziane e già debilitate).

L’N1H1 ancora oggi fa morti, anche tra persone giovani, come le decine di virus che circolano e circoleranno sempre: salvo che qualche “sindaco scienziato” non sia capace di imporre loro il coprifuoco.

 

 

 

L’OPINIONE (dell’uomo della campagna): Coronavirus, letale solo per una classe dirigente inetta e per il giornalismo delle sciagure inventate. Il contributo (minimo) del sindaco De Luca alla follia ipocondriaca collettiva in cui è precipitata l’Italia

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Non ci sono casi di contagio in città e i virus, tutti i virus, resistono fuori dal corpo umano al massimo, se ci sono condizioni favorevoli, per poche ore.

Ma le scuole di Messina sono state chiuse per tre giorni, dal 29 febbraio al 3 marzo, per effettuare la disinfestazione.

E per le stesse finalità è stato disposta la chiusura a scoppio ritardato, cioè la settimana successiva e in prossimità della festa della donna dell’8 marzo, dei pubblici uffici comunali.

Poteva desistere il sindaco Cateno De Luca, maestro di propaganda politica, dall’unirsi a governanti inetti, scienziati in cerca di notorietà e giornalisti (disutili) idioti e dare così il suo contribuito per alimentare la follia ipocondriaca collettiva e autolesionistica in cui è precipitata l’Italia per effetto dell’emergenza corona virus?

E’ sufficiente leggere le due ordinanze (che De Luca formalmente non firma) e consultare un qualunque virologo per capire come detti provvedimenti siano scientificamente inutili e quindi giuridicamente immotivati.

A Messina chi dovrebbe infettare chi e cosa?

Ma facciamo pure finta che i casi contagio ci fossero stati  e che qualche bambino o docente avesse lasciato il virus sui banchi della scuola.

Il virus non avrebbe superato la notte.

Tant’è che la disinfestazione non è stata disposta neppure in Liguria dove le scuole sono chiuse da una settimana e le lezioni riprenderanno dopo 2 settimane lunedì prossimo.

La chiusura con relativa sanificazione degli uffici comunali aperti al pubblico è ancora più curiosa: il 28 febbraio c’è pericolo di contagio a scuola, ma quello negli uffici comunali è previsto si concretizzi una settimana dopo.

La disinfezione non serve a nulla (uno dei rinomati blitz del primo cittadino a caccia di virus avrebbe avuto lo stesso effetto), se non alle ditte che la effettuano a spese delle istituzioni scolastiche. Ma ha fatto la gioia di insegnanti, di studenti e impiegati comunali, per l’inattesa vacanza e la percezione che qualcuno fintamente si occupi della loro salute, o meglio della paura di una minaccia grave e incombente per la vita, aumentandone i consensi.

Che però non c’è.

De Luca arriva da buon ultimo a dare il suo apporto e le misure adottate dimostrano in quale oscuro tunnel di irrazionalità si è finiti.

Scriveva Leonardo Sciascia, ne Il Cavaliere e la morte, che se non ci fosse il diavolo non servirebbe l’acqua santa.

Il diavolo non l’ha mai visto nessuno, ma grazie al diavolo milioni di persone hanno dato un senso alla loro vita o costruito una professione o carriera.

Se non ci fosse la “diabolica” emergenza coronavirus, i vari “santi” scienziati (o presunti tali) che troneggiano con la faccia preoccupata e l’aria di chi non può dire tutto 24 ore al giorno in televisione, su tutte le reti, come potrebbero dare manifestazione del loro smisurato ego? Quando mai sarebbero divenuti personaggi pubblici?

E i giornalisti che per aumentare l’audience o vendere qualche copia di giornale in più parlano in termini apocalittici di ciò che non conoscono, non dovrebbero occuparsi di cose reali e più difficili da raccontare?

E, ancora, gli uomini di governo invece di bucare perennemente  lo schermo televisivo, facendo finta di proteggere la gente dalla minaccia di una pandemia, non dovrebbero dimostrare di essere in grado di risolvere problemi molto più concreti?

“Chi verrà a contatto con il virus morirà”: è questo il messaggio che tutti questi signori hanno veicolato per giorni, gettando nel terrore gli italiani.

L’italia è finita in un vortice psicotico senza precedenti nella storia del secondo dopoguerra.

Scuole chiuse, assalto ai supermercati, scorte di mascherine, economia sospesa con danni incalcolabili all’immagine dell’Italia.

Erano e sono i numeri ad attestare che l’emergenza corona virus non esiste nei termini apocalittici in cui è rappresentata.

Si tratta di una normale epidemia da virus, una tra quelle con cui l’umanità ha avuto e avrà a che fare da sempre. Ogni anno.

In Italia, dall’inizio dell’epidemia di coronavirus, oltre un mese fa, 2500 persone hanno contratto il virus, ovvero lo 0,041 % della popolazione residente o stabilmente dimorante in Italia. Percentuale in linea con quella che si ottiene analizzando i dati di contagiati e morti in Cina, da dove l’epidemia sarebbe partita due mesi fa.

Ma attenzione la metà di questi non ha alcun sintomo, neppure un mal di gola. Altro che virus letale.

I morti? 79, ovvero il 3% dei contagiati censiti: non si può non ritenere infatti che ci siano in giro per l’Italia migliaia di persone contagiati e non censiti (proprio perché asintomatici). Ma non sono morti per il virus, no. Semmai perché il virus è andato ad aggravare un quadro clinico già compromesso,in persone per lo più anziane.

Esattamente quello che accade ogni anno, in coincidenza con il ciclico virus influenzale. Non c’è famiglia che non possa piangere un morto a causa anche del virus.

Le organizzazioni sanitarie calcolano che tra i 5 e i 6 milioni di persone finiscono a letto ogni anno per l’influenza in Italia. I più vulnerabili, affetti da malattie pregresse, stimati nell’ordine di 10000, ma la stima è per difetto, muoiono.

E’ questo il motivo per cui si procede alla vaccinazione autunnale.

Mai nessuno si è sognato negli anni scorsi di adottare le misure di prevenzione del terrore (chiusura scuola, uffici, negozi, stadi ecc), mettendo in ginocchio un paese.

Neppure nel 2009, quando circolava un virus quello sì letale, l’N1H1, che infatti colpì portandole alla morte persone giovani e sane.

Se questi sono i dati, si capisce benissimo che il clima di terrore non è giustificato, e attiene a voler essere prudenti più al mondo della psichiatria che a quello dell’infettivologia, sempre che non  si voglia scomodare dietrologiche ipotesi economiche.

Erano e sono gli stessi super esperti incaricati di fronteggiare l’emergenza a contraddirsi e ad ammettere che di loro stessi si poteva benissimo fare a meno.

Vittorio De Micheli, responsabile dell’unità di crisi della Lombardia, uno tra coloro che il coronavirus ha fatto diventare protagonista, ha dichiarato a “Il corriere della sera” di qualche giorno fa: «Il virus clinicamente non dà problemi, o comunque è facilmente risolvibile, nel 90% dei pazienti. Ma in oltre il 10%, soprattutto se anziani, comporta problemi gravi che richiedono un ricovero in Terapia intensiva».

Precisamente quello che accade ogni anno, senza però – e qui sta un altro degli effetti disastrosi generato dal clima di terrore – che i reparti di Terapia intensiva fossero presi d’assalto.

Si è mai sognato qualche medico di famiglia di mandare al pronto soccorso un anziano allettato da anni che viene beccato dall’influenza?

Si è mai azzardato il medico del Pronto soccorso di disporre il ricovero in terapia intensiva, che ha posti limitati, un malato terminale di tumore che prenda l’influenza?

Quello che è contro il buon senso e la scienza quest’anno nel clima di terrore è accaduto.

Se domani qualcuno facesse passare l’idea che la candida fosse mortale, gli ospedali sarebbero presi d’assalto da almeno il 50% della popolazione italiana. E non basterebbero tutti i laboratori d’ Italia a smaltire le richieste di tamponi.

Bancarotta Italsea srl, la Corte d’appello conferma le pesanti condanne per l’imprenditore catanese dell’autotrasporto Luigi Cozza e i membri della sua famiglia. Assolto l’ex direttore dell’agenzia delle Entrate di Messina, Salvatore Altomare

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Luigi Salvatore Cozza

Luigi Salvatore Cozza

Aveva rinunciato alla prescrizione, ma in primo grado era stato condannato a 10 mesi di reclusione per abuso d’ufficio. In appello però il giudizio è stato ribaltato e Salvatore Altomare, ex direttore dell’Agenzia delle Entrate di Messina, è andato assolto.

Il secondo grado di giudizio non è stato altrettanto positivo per i componenti della famiglia di Luigi Salvatore Cozza, imprenditore del settore dei trasporti molto conosciuto in Sicilia: di recente la società riconducibile a lui e alla sua famiglia, la Lct Spa (acronimo di Luigi Cozza Trasporti), azienda leader nella logistica intermodale e nel trasporto alimentare e di merci pericolose, si è aggiudicata la gara di concessione per la gestione novennale dell’Interporto di Catania: un affare valutato in milioni di euro.

La Corte d’appello di Messina ha infatti condiviso in toto le motivazioni del collegio giudicante presieduto da Silvana Grasso che il 27 giugno del 2017 aveva riconosciuto la responsabilità per i reati di bancarotta documentale e bancarotta per distrazione, ma ha lievemente rideterminato le pene a carico di Luigi Salvatore Cozza (8 anni di reclusione), i figli Luigi e Pamela (4 anni a testa), la moglie Giuseppa Pistorio (4 anni e 7 mesi) e i collaboratori Francesco Altomare (4 anni) e Claudio Reinhold D’arrigo (6 anni e sei mesi), Giuseppe Basile (3 anni e dieci mesi) che a turno hanno avuto incarichi di responsabilità nella società al centro del processo. Si tratta di Italsea Srl con sede a Taormina, messa in liquidazione il 14 dicembre del 2009 e dichiarata fallita l’11 maggio del 2011 e di cui Cozza padre è stato ritenuto il dominus effettivo.

I giudici d’appello hanno dichiarato la prescrizione per le restanti accuse di evasione fiscale, alcune delle quali erano già state considerate estinte nel giudizio di primo grado.

Tutti i fatti di reato sono risalenti ad almeno 10 anni fa.

I reati in pillole

La condotta che – secondo i giudici di primo e secondo grado – è valsa la condanna per bancarotta documentale è la stessa – quanto all’elemento materiale – oggetto della denuncia ad opera degli imputati, o meglio di uno di loro, da cui per paradosso partirono le indagini: ovvero lo smarrimento dei documenti contabili della società.

E’ il 25 maggio del 2006 quando Claudio Reinhold D’arrigo, autista ma anche ex presidente del cda della società, denuncia il furto di un furgone con cui stava trasferendo verso la nuova sede tutti i documenti contabili della società.

Il mezzo fu ritrovato qualche giorno dopo, senza alcun documento all’interno. Gli inquirenti accertarono ancora che quella che fu indicata come la nuova sede in realtà non aveva ancora neppure i certificati di abitabilità.

Fu facile inferirne – è questa le tesi sostenuta con successo della pubblica accusa –  che la denuncia simulasse il reato di furto e fosse tesa in  realtà ad occultare la distruzione dei documenti contabili, in modo da impedire gli accertamenti fiscali ed evadere così le imposte.

La condotta  – dal momento in cui è stato dichiarato il fallimento della società – è stata declinata (bei confronti di tutti gli imputati, tranne la Pistorio) in termini di Bancarotta documentale, posto che la distruzione della documentazione contabile impedendo la ricostruzione della reale situazione finanziaria e patrimoniale della società è stata fonte di danno per i creditori.

Luigi Salvatore Cozza è stato condannato anche per tre ipotesi di bancarotta per distrazione: i due figli e la moglie per due di queste.

In specie, per avere organizzato la vendita alla società un immobile di proprietà della moglie Giuseppa Pistorio gravato da procedure esecutive – e quindi in frode ai creditori della stessa società – per un milione e mezzo di euro. L’immobile peraltro dopo la vendita rimase nella piena disponibilità della venditrice e dei suoi familiari.

Giuseppa Pistorio – ecco la seconda ipotesi di bancarotta – dalla società Italsea spa ha comprato anche due immobili per un corrispettivo pagato di 250 mila euro. Il prezzo di acquisto è stato ritenuto congruo, ma l’operazione per i giudici è stata organizzata e ha avuto l’effetto di diminuire il patrimonio della società ai danni dei creditori.

Ancora, la terza ipotesi si è consumata allorché nel bilancio della società sono state esposte passività create ad arte attraverso l’emissione di fatture false di acquisto, intestate a terzi inconsapevoli per un totale di quasi 8 milioni di euro. In questo modo – secondo di giudici – si sono danneggiati i creditori poiché sono state occultate le poste di bilancio attive.

Prescrizioni a go-go

I giudici d’appello non hanno potuto non rilevare l’intervenuta prescrizione per tutte le accuse di evasione fiscale (nella specie Iva), computata dagli inquirenti per il periodo di imposta compreso tra il 2004 e il 2006 in oltre due milioni di euro.

 

Agenzia sotto accusa

Sotto processo per abuso d’ufficio finirono pure Aldo Corrado Pittari e Guido Schiavoni, due funzionari dell’Agenzia delle entrate di Taormina e il direttore della direzione provinciale Altomare: i due impiegati furono gli autori dell’accertamento con adesione che portò l’Agenzia a riconoscere alla società della famiglia Cozza una detrazione di Iva per 244 mila euro relativa all’anno 2004 sulla base di documentazione – scoprì la Guardia di finanza – in parte palesemente falsa e in parte relativa a mezzi di altre società.

Altomare aveva avallato l’operazione mettendoci il visto.

Pittari e Schiavone si sono avvalsi della prescrizione e già in primo grado andarono esenti da pena.

L’assoluzione di Altomare è giunta in appello: i giudici, al contrario dei colleghi di primo grado, hanno ritenuto che il direttore aveva solo una competenza limitata alla regolarità formale dell’atto e non di merito; né era emersa alcuna sua attività di pressione su due funzionari.

Sull’intera vicenda giudiziaria comunque sarà la Corte di cassazione a dire l’ultima parola. I legali degli imputati hanno proposto ricorso di recente: le motivazioni della sentenza state depositate il 27 dicembre del 2019.

Affari in movimento

Nel frattempo, nell’estate del 2019, gli imprenditori catanesi hanno messo a segno un colpo molto significativo e importante: l’aggiudicazione della gara pubblica di concessione per la gestione dell’Interporto di Catania, polo logistico del sud est della Sicilia, da anni completato e solo da pochi mesi in funzione.

Alla gara, bandita dalla partecipata della regione Sicilia Società Interporti Spa, la società della famiglia Cozza ha partecipato in solitaria offrendo un rialzo – sulla base d’asta minima di 400 mila euro di canone annuo – pari allo 0,010%.

A leggere la visura camerale, quindi sotto il profilo formale, nessuna delle persone condannate figura come azionista né ha funzioni direttive  nella Spa Luigi cozza trasporti, che conta circa 350 dipendenti e decine di autoarticolati giornalmente in movimento per l’intera penisola italiana.

Corruzione in atti giudiziari, la Procura di Reggio Calabria (ri) chiede il rinvio a giudizio per il presidente della sezione Fallimentare del Tribunale di Messina Giuseppe Minutoli, l’imprenditore Gianfranco Colosi e l’ex capo della Dia di Messina Letterio Romeo. Ecco la vicenda, raccontata da 8 mesi di intercettazioni. E la difesa del magistrato

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Il presidente del Tribunale fallimentare Giuseppe Minutoli

Il presidente del Tribunale fallimentare di Messina, Giuseppe Minutoli

 

L’accusa è di corruzione in atti giudiziari. Gli imputati “eccellenti” sono tre.

Per loro la Procura di Reggio Calabria ha chiesto il rinvio a giudizio.

Il presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Messina, Giuseppe Minutoli; l’ex capo della Direzione investigativa antimafia di Messina, Letterio Romeo e uno degli imprenditori della ristorazione più noti di Messina, Gianfranco Colosi, dovranno comparire davanti al Giudice per le indagini preliminari Alessandra Borselli il prossimo 21 gennaio del 2020.

Si tratta di un remake, per usare un termine cinematografico, di una prima richiesta di rinvio a giudizio che oltre un anno fa, il 26 luglio del 2018, si arenò al termine dell’udienza preliminare trasformata in giudizio abbreviato su richiesta del magistrato Minutoli.

Il giudice di quell’udienza, Davide Lauro, restituì infatti gli atti al pubblico ministero perché esercitasse correttamente l’azione penale.

Lauro ritenne che i fatti descritti dal capo di imputazione fossero materialmente diversi da quelli, in ipotesi sempre penalmente rilevanti, che emergevano dal materiale probatorio raccolto dalla Procura e posto all’esame del giudice (leggi articolo).

I sostituti procuratori Roberto Di Palma e Gerardo Dominijanni hanno così rimodellato i termini fattuali dell’accusa, declinati sempre nel reato di corruzione in atti giudiziari, facendo loro le osservazioni del Gup Lauro, e a distanza di 16 mesi hanno esercitato nuovamente l’azione penale.

I termini dell’accusa

Minutoli è ora accusato di aver stretto un pactum sceleris con l’amico (ex compagno di classe e suo testimone di nozze) Gianfranco Colosi, titolare del ritrovo “Casaramona” di viale San Martino, accettando la promessa dell’assunzione della moglie in una società di Colosi in cambio dell’aiuto che il presidente della sezione Fallimentare avrebbe dovuto dare per permettere all’imprenditore di entrare nella gestione dei servizi relativi alle vendite forzate del Tribunale di Messina.

L’operazione sarebbe dovuta passare dall’esautoramento (o comunque ridimensionamento) dell’Istituto vendite giudiziarie, la società facente capo alla famiglia Attinà che per conto del Tribunale di Messina, in regime di concessione, si occupa della vendita all’asta dei beni mobili espropriati.

Specificamente, Minutoli – secondo l’accusa – per concretare questo pactum e contravvenendo ai suoi doveri istituzionali ha prima messo al corrente Colosi delle problematiche relative alla vendite giudiziarie benché si trattasse di questioni attinenti al proprio ufficio; poi, ha posto in essere una serie di atti diretti a far dichiarare l’Istituto vendite giudiziarie non più idoneo ai servizi svolti per conto del Tribunale fallimentare in modo che fosse di conseguenza sostituto o costretto a farsi affiancare da altri operatori del settore individuati prima in Astelegali.net e, successivamente, in Edicom Srl; nel contempo, ha messo in contatto Colosi con i rappresentanti di quest’ultime società in modo da indurre (in forza delle sue funzioni) le stesse ad appoggiarsi per l’attività in loco alla costituenda società del titolare di Casaramona.

L’accordo illecito tra Minutoli e Colosi – stando al capo di imputazione –  è stato sostenuto dall’allora capo della Dia di Messina Romeo, che in cambio della promessa di assunzione della convivente “ha messo a disposizione di Colosi e Minutoli i suoi rapporti con l’ambiente messinese”.

L’ufficiale è abituale frequentatore di Colosi e, in misura minore, di Minutoli.

 

Otto mesi di passione e poi… lo stop

Il materiale probatorio dell’inchiesta scattata all’inizio del 2015 è costituito da una fitta rete di intercettazioni tra i tre imputati: specie tra Colosi e Minutoli.

Tutta la vicenda si snoda tra la viglia dell’estate del 2015, quando le telefonate tra il magistrato e l’imprenditore fanno emergere l’interesse comune, e il gennaio del 2016, quando improvvisamente i protagonisti della vicenda diventano prudentissimi e l’idea di defenestrare l’Istituto vendite giudiziarie subisce un brusco stop.

Il piano d’azione….per favorire l’amico

Il 28 giugno del 2015 Minutoli informa Colosi della faccenda “Istituto vendite giudiziarie”, usando il pronome personale plurale “noi”, come se parlasse di una questione di comune interesse: “Per quanto riguarda quel discorso delle vendite…si. Conviene per il momento fermarci perché io volevo chiamare l’amministratore di quella società (….) Deve essere convertito entro sessanta giorni un decreto legge in cui si dice che è possibile istituire nuovi commissionari al posto dell’Istituto vendite giudiziarie con determinate caratteristiche….quindi in questo momento iniziare a fare affinità o ipotizzare qualcosa se prima non sappiamo le regole, certo non conviene (….) però sicuramente visto che tu sei una persona di supporto, ci siamo detti, e quindi attendiamo…“, comunica il giudice.

Qualche settimana dopo Minutoli è ancora al telefono con Colosi: “A Reggio cosa è accaduto? Il Tribunale ha fatto un’ispezione e si è accorto c’erano una serie irregolarità. Ha invitato a sanarle, quelli non l’hanno fatto e allora ha revocato la concessione. Ora nel momento in cui il Tribunale ordina..si rende conto che i beni non sono sistemati, che c’è confusione…perchè l’Ivg (di Messina, ndr) in questo momento è una Snc…Forse lui e la figlia…il padre è vecchissimo (….) Se quando uno ordina la sistemazione dei beni e questi non sono in grado di farlo allora potrebbe esserci l’immissione di un nuovo socio“, ipotizza il presidente della sezione fallimentare il 17 luglio del 2015.

Parola d’ordine: minimizzare

Il magistrato, interrogato il 21 luglio del 2016 dai procuratori reggini titolari delle indagini che gli hanno letto e contestato le intercettazioni (in quel momento a lui ancora ignote), non ha potuto negare di aver coinvolto  l’amico nella questione dell’Istituto vendite giudiziarie, la cui inadeguatezza peraltro gli era stata segnalata dallo stesso Colosi benché l’imprenditore non avesse un ruolo istituzionale: “Il suo doveva essere solo un contributo”, ha però minimizzato. Ma non ha convinto i colleghi.

Anche perché Colosi parlando con la moglie riconosce candidamente di essere un ignorante della materia: “Non ne capisco e cerco di prendere acqua, per capire il meccanismo perché mi viene complicato, (….) non capisco come si prendono gli incarichi….”, ammette il 20 novembre del 2015.

 

Presentazioni di peso

Colosi non sa nulla del settore. Da solo non potrebbe mai operare: non all’inizio almeno. Ecco allora che ha bisogno di creare sinergie con chi invece opera da anni e già lavora per conto della sezione fallimentare di Messina per l’offerta all’asta dei beni immobili espropriati: le società Astelegali.net. Spa ed Edicom srl, i due colossi (tra di loro concorrenti) delle vendite telematiche.

Il titolare di Casaramona non conosce i vertici delle due società. E’ Minutoli a creare il contatto.

Il primo amore…

Il 23 settembre 2015 chiama Colosi: “Ti devo dire una cosa al volo”. Dopo il fugace incontro Colosi si mette in moto. Ma ha capito male il cognome della persona da contattare. Manda un sms a Minutoli. Che risponde: “Il cognome è Raco, avvocato Daniela Raco“.

Colosi si procura così il numero dello studio ma il telefono squilla a vuoto.

Chi sia Daniela Raco e quale la ragione della telefonata lo si scopre qualche ora dopo. Colosi telefona infatti a Claudio Palazzetti, amministratore delegato della società di vendite telematiche Astelegali.net Spa: “Sono Colosi. Si ricorda? Ci siamo visti dal dottore Minutoli“, esordisce. “Si certo…certo“, risponde l’interlocutore. “Vediamo se possiamo andare avanti per quel discorso che ci eravamo detti….”, incalza Colosi. “Il progetto lo dobbiamo portare avanti (…..) L’idea sarebbe quella di poter avere un’operatività sul posto, quindi verrebbe benissimo avere un appoggio tipo…penso insomma a quello che potrebbe dare lei….“, precisa Palazzetti. Colosi aggiunge: “Mi diceva il dottore Minutoli che mi cercava Daniela Raco. Non è la vostra….?Si. E’ la nostra dipendente sul posto…quindi parla tranquillamente a nome dell’azienda”, conferma l’amministratore di Astelegali.net, che fornisce all’imprenditore il numero di cellulare della referente a Messina.

Passano poche ore e Colosi telefona all’avvocato Raco: “Sono Colosi. Ci siamo incontrati dal dottore Minutoli. Il dottore Palazzetti mi ha dato il suo numero. Mi diceva il dottore Minutoli che appunto le aveva detto un attimino se potevamo incontrarci ..non so per vedere se quel discorso è…è possibile portarlo avanti“, spiega Colosi. L’avvocato Raco dichiara la sua disponibilità. Da quel giorno in poi, vengono registrati diversi incontri tra Colosi, Raco e Palazzetti. L’oggetto è sempre lo stesso.

La liaison va avanti alcune settimane.

Il tradimento

A novembre il nuovo colpo di fulmine.

Colosi raffredda i rapporti con i vertici di Astelegali.net Spa e inizia febbrili contatti con i vertici di Edicom Srl, con cui imbastisce i contatti più seri e più concreti.

Il presidente della fallimentare nel corso dell’interrogatorio ha negato di aver fatto da tramite.

Sul punto però le intercettazioni lo smentiscono.

In effetti, il primo contatto telefonico tra Alessandro Arlotta il legale rappresentante di Edicom Srl e Colosi è telefonico ed è finalizzato a un incontro.

E’ il 12 novembre del 2015. I due non si sono mai visti, ma la ragione della telefonata è chiara come è chiaro chi sia stato indirettamente a favorire il contatto. “Avevo parlato con la mia collaboratrice Daniela Bottari e….volevamo parlare un attimo per quel discorso della vendita telematica del Tribunale (….) volevo parlare con lei perché so che insomma c’era questo interesse“, spiega Arlotta a Colosi.

Si, c’era questo interesse”, ribatte subito Colosi. “Ci possiamo vedere dove la sua collaboratrice ha preso il cocktail assieme al dottore Minutoli, da Casaramona“, sottolinea.

Minutoli d’altro canto è entusiasta di Daniela Bottari, distaccata, quale referente a Messina di Edicom srl, in una stanza del Tribunale e del suo capo Arlotta e viene a sapere da subito che Colosi è entrato in contatto con quest’ultimo.

Il giorno dopo, il 13 novembre 2015, infatti, Colosi è nell’ufficio di Minutoli: “Adesso c’è un buon feeling con la Bottari…“, osserva Colosi. “Questa della Edicom“, completa Minutoli. “E’una persona intelligente.Che tra l’altro il suo capo, Arlotta, è bravo. Un cervellone“, aggiunge Colosi. “Sono in gamba questi, me ne sono accorto che sono persone attive“, rincara Minutoli. Che si spinge oltre gli apprezzamenti: “Chissà se un domani si può….“. “Certo“, risponde Colosi.

L’antefatto al tradimento

Nel mese di ottobre del 2015, proprio mentre si susseguono i contatti tra Colosi Raco e Palazzetti di Astelegali.net Spa, Minutoli è preso dall’organizzazione di un evento formativo in materia di processo di esecuzione per il 4 dicembre a cui invita un alto giudice della Corte di Cassazione.

Ci sono da pagare le spese di organizzazione (compresa la cena sociale) e di vitto e alloggio del prestigioso ospite. Si rivolge agli ordini professionali. Ma si rivolge pure alla società privata Edicom Srl, che non si tira indietro.

Il 25 ottobre è a colloquio con Daniela Bottari: “Ne parli con Arlotta (….) e al limite se voi ritenete un 3, 400 euro per coprire le spese della trattoria. Lui (riferito ad Arlotta, ndr) mi aveva detto: “Assolutamente me la vedo io” “.

Il convegno è stato inserito negli eventi formativi della Scuola superiore della magistratura. Il regolamento di contabilità della Scuola fa divieto di usare finanziamenti da società private. Ma Minutoli, dopo un’iniziale ritrosia, procede egualmente.

La trascuratezza e la delusione

Lo scemare dell’interesse di Colosi e delle sollecitazioni di Minutoli viene registrato dai referenti di Astelegali.net Spa, che però non immaginano sia frutto dell’intensificarsi dei rapporti con la concorrenza: “Minutoli inizialmente voleva che mettessimo a suo compare, poi ha fatto marcia indietro“, afferma Daniela Raco l’11 novembre del 2015 al telefono con un collega. Qualche ora dopo è a colloquio con altra collega. Che attacca: “L’interesse che aveva Minutoli era circoscritto perché….“. “Adesso se ne sta sbattendo, cioè loro avevano interesse a fare entrare l’amico…“, conferma la Raco. “Adesso è rimasto tutto come prima…non ha dato neanche impulso..cioè non ha fatto nient’altro….“, rilancia la collega.

Ma in realtà non c’era stato alcuno stop.

Negli stessi giorni di novembre infatti i contatti tra Arlotta e Colosi si fanno intensi.

L’imprenditore messinese è certo che l’operazione possa andare in porto.

Si attiva, infatti, per cercare un locale da adibire a deposito dei beni da mettere all’asta e soprattutto si reca dal commercialista prima e dal notaio poi per costituire una società ad hoc (cui era stato già trovato un nome: Servizi vendite giudiziarie Srl).

I “non ricordo” di un giudice

“Sa se Colosi si sia recato dal notaio per costituire una società?”, chiedono a Minutoli i magistrati reggini. “Non me lo ricordo”, ha risposto il giudice nell’interrogatorio del 21 luglio del 2016, a pochi mesi dai fatti.

Eppure, Colosi il 20 novembre del 2015 nel corso di un colloquio con la moglie riferisce: “Giuseppe mi ha detto..se trovi un dottore commercialista che ti fa da amministratore è meglio, io non so niente, non voglio sapere niente”.

Sinergie fruttuose

Tutti i passaggi per la creazione della nuova società sono concordati proprio con l’amministratore di Edicom Srl, Arlotta, con il quale sono registrati contatti continui.

“Con l’anno nuovo si può partire tranquillamente”, si sbilancia Arlotta in una telefonata intercorsa con Colosi il  23 novembre del 2015.

Nelle stesse ore in cui Colosi e Arlotta (mai iscritto nel registro degli indagati nell’ambito di questa inchiesta) congegnano la forma della nuova società che deve approdare al Tribunale, Minutoli chiama l’amministratore di Edicom srl. E’ il 3 dicembre. La società da tempo si era impegnata a pagare le spese di organizzazione della sala dove si sarebbe tenuto il convegno. Ma ci sono da definire dei dettagli. Tra questi le spese per il pranzo tra Minutoli e il giudice della Cassazione e le rispettive famiglie.

Offro io… e pagano loro

“Lei ha sistemato per quanto riguarda il pranzo?”, chiede a un certo punto Arlotta. “Per il pranzo avevo pensato se era possibile fare riferimento a voi…”, risponde il presidente della Fallimentare. “Si”, afferma subito Arlotta. “Si metta d’accordo con Gianfranco Colosi… per la fatturazione elettronica…(…) ma anche di essere limitato nelle pretese…”, suggerisce Minutoli. “Non si preoccupi. Avevamo appuntamento per domani… E’ una persona generosa”, lo rassicura Arlotta. “E’ una persona in gamba“, ribadisce il giudice. “Ci siamo trovati….Per qualsiasi cosa mi chiami, sono a sua disposizione“, lo congeda Arlotta.

Com’è andata?“, chiede per sms Colosi a Minutoli non appena gli ospiti lasciano Casaramona. “Complimenti per il pranzo…Abbiamo mangiato benissimo…Me lo ha ripetuto più volte e lui (il giudice della Cassazione, ndr) gira molto“, risponde Minutoli qualche ora dopo. “Meno male – esclama Colosi – Domattina poi ci vado lì… a che ora parte?“. Minutoli suggerisce: “Se gli vuoi portare qualche cosettina gli fa piacere“. Detto, fatto.

La prova del patto corruttivo

Nel corso dell’interrogatorio del 26 luglio del 2016 Minutoli ha negato di aver avuto “l’intenzione di favorire il suo ex compagno di classe nel settore delle vendite giudiziarie”.

Secondo gli inquirenti, invece, decine di intercettazioni provano che – facendo valere il suo peso di giudice – si sia prodigato a tal fine.

Così come – sempre per gli investigatori – è chiara la ragione del suo interessamento. E si fonda, oltre che su deduzioni logiche, su due intercettazioni.

Ho chiuso una bella operazione. Bella. Ottima. Fantastica. Mi ha dato l’ok…“, afferma Colosi il 19 settembre del 2015. “Per cosa“, gli chiede il figlio che sta viaggiando insieme a lui e agli altri familiari in auto di ritorno da una cena con Minutoli e famiglia. “Per fare una certa cosa lì al Tribunale. L’Ivg ora lui glielo svuota. Dopo questa chiacchierata sono molto contento perché vuole che faccia lavorare pure a lei, ad Ersilia (moglie di Minutoli, ndr)”.

Qualche mese dopo, è stata registrata un’altra conversazione, dal tenore molto meno netto e più ipotetico.

E’ il 20 novembre del 2015. Colosi è in auto con la moglie. L’argomento è sempre quello delle vendite giudiziarie. “Secondo me l’anello per questo lavoro è Ersilia…Se tu gli trovi….“, dice Colosi. “Un posto ad Ersilia tu dici….quello si p….ma non in questa cosa…in questa cosa no..perché non lo fa…non glielo farebbe fare“, sottolinea la moglie Immacolata Caserta.

La difesa del magistrato

Minutoli nell’interrogatorio ha negato seccamente di aver avuto alcuna intenzione di far assumere la moglie da Colosi: “Non ho mai chiesto di far lavorare mia moglie, né ciò mi è stato mai prospettato. Mia moglie ha tre bambine piccole e addirittura in una società che lavorava per il Tribunale…no… e poi non avrebbe mai voluto lavorare con Colosi, non gradisce molto il tipo di modalità, anche lavorativa. Sono stupito delle affermazioni intercettate di Colosi”, ha spiegato.

Dubbi in cerca di soluzione

Saranno ritenute sufficienti le due intercettazioni per provare che le condotte di Minutoli (quantomeno quelle di presentazione dei vertici delle due società) fossero frutto del patto corruttivo con Colosi, avente ad oggetto l’assunzione della moglie, come ipotizza la Procura?

E se così non sarà e Minutoli si fosse mosso soltanto per amicizia è ipotizzabile qualche altro reato a suo carico?

Sono questi alcuni dei temi salienti della vicenda processuale che inizierà il prossimo 20 gennaio.

O Romeo….romeo

Chi invece è sicuramente in attesa dell’assunzione è la compagna dell’allora capo della Dia “Lillo” Romeo.

L’ufficiale è convinto che Colosi da un momento all’altro avrebbe iniziato la nuova attività

Dall’attività di indagine è emerso che Colosi lo ha tenuto costantemente informato sugli incontri e le trattative con i vertici delle due società di vendita telematica.

Ad alcuni, documentati con appostamenti, ha partecipato lo stesso ufficiale che poi ha intrattenuto relazioni telefoniche con l’amministratore di Edicom Srl Arlotta.

A dicembre del 2015 la sua convivente Maria Laura Pulejo è in fibrillazione: ha problemi lavorativi; Gianfranco Colosi le ha prospettato la possibilità di lavorare nella nuova società e la necessità di fare prima tirocinio nella sede Edicom Srl di Reggio calabria, ma cerca qualche certezza in più.

Romeo tenta di offrirgliela: “La cosa di Gianfranco mi pare la più concreta. Perché la farà..questa cosa lui la farà…si deve vedere quando…se a gennaio, a febbraio…ma la farà sicuramente“, afferma l’ufficiale il 15 dicembre del 2015. “Appena questo (il riferimento è ad Arlotta, ndr) capita a Messina te lo fa incontrare cosi tu da quel momento puoi andare a Reggio a vedere come funziona il lavoro…“, sottolinea Il tenente colonnello dei carabinieri Romeo. Che nel frattempo è finito nella rete dell’inchiesta su Antonello Montante, uno dei (tanti) paladini dell’antimafia della Sicilia, ed è sotto processo a Caltanissetta accusato di aver distrutto una relazione di servizio in cui dava atto che l’allora presidente di Confindustria Sicilia l’aveva minacciato.

Il cambio di rotta e il naufragio

Nonostante le certezze di Romeo, l’avventura di Colosi viene stoppata.

D’improvviso, subito dopo l’epifania del 2016, altro colpo di scena.

Minutoli prende le distanze da Edicom srl. Colosi dal canto suo sospende ogni attività diretta a realizzare il progetto. Non vengono più registrate telefonate scottanti. L’Istituto vendite giudiziarie della famiglia Attinà stipula una convenzione con la società concorrente Astelegali.net Spa e da allora, anche con il placet del presidente Minutoli, continua a lavorare per la sezione fallimentare del Tribunale di Messina.

Cos’è accaduto?

 

LA PRECISAZIONE DI ALESSANDRO ARLOTTA

“Premesso che la nostra società opera in ambito nazionale e si contraddistingue per la massima trasparenza e professionalità, siamo
ad osservare, che la ricostruzione dei fatti relativi all’attività da noi svolta nella qualità di software house e soggetto specializzato, appare artefatta e con sfumature romanzesche, nonché ricavata da stralci di intercettazioni di dubbia provenienza, con relativa pubblicazione di nome e cognome per
esteso di persone e società non coinvolte nel procedimento”.

E’ questa la precisazione dell’amministratore unico di Edicom Srl inviata a seguito della pubblicazione dell’articolo.

(L’articolo è stato scritto sulla base delle risultanze di indagini, a chiunque legge è chiaro che Arlotta, la sua società o altri dipendenti della stessa non risultano indagati o coinvolti, semmai – nella prospettazione dell’accusa – vittime. (M.S.).

Corruzione del pm Olindo Canali, nell’inchiesta entra anche il boss Pippo Gullotti. La lettera partita dal 41 bis e le accuse, a scoppio ritardato, del pentito Carmelo D’amico. Il viaggio del “Testamento” del magistrato brianzolo, diffuso – per la Procura di Reggio Calabria – per riaprire il processo Alfano. I nodi da sciogliere

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Il magistrato Olindo Canali

Il magistrato Olindo Canali

Un “testamento”, scritto da un magistrato e affidato a un giornalista, con l’obbligo di non divulgarlo se non in un caso estremo.

Una lettera, partita dal carcere, vergata da un detenuto eccellente al 41 bis da 22 anni e contenente un messaggio criptato.

Le dichiarazioni di uno degli esponenti di vertice dell’organizzazione criminale barcellonese degli anni duemila  autore di decine di omicidi, fatte a un anno di distanza da quando, nel 2014, è divenuto collaboratore di giustizia.

Il Testamento, la lettera, le dichiarazioni del “pentito”.

Sono questi i tre tasselli fondamentali che la Procura di Reggio calabria ha assemblato per arrivare a un’ ipotesi processuale precisa, condensata in un avviso di conclusioni indagini, che ipotizza per il magistrato, il boss in carcere e il collaboratore di giustizia il reato di corruzione aggravata dal favoreggiamento alla mafia.

I personaggi

Il magistrato è Olindo Canali. Da sostituto procuratore del Tribunale di Barcellona, tra le altre, ha coordinato l’inchiesta e sostenuto l’accusa nel processo che ha portato alla condanna definitiva per il mandante e l’esecutore materiale dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano, avvenuto l’8 gennaio del 1993. Nel “Testamento”, tuttavia, ha seminato molti dubbi sulla verità processuale che si è raggiunta e sull’attendibilità del testimone principale, Maurizio Bonaceto, la cui collaborazione aveva gestito.

Scritto nel 2006, il “Testamento” è stato depositato nel processo d’appello “Mare nostrum” alla mafia barcellonese nebroidea nell’udienza del 9 marzo del 2009. Il conseguente putiferio portò al trasferimento per incompatibilità ambientale di Canali al Tribunale civile di Milano, dove si trova attualmente.

Il boss autore della missiva che a fine del 2008 superò la censura del 41 bis è Pippo Gullotti: riconosciuto colpevole con sentenza passata in giudicato come mandante dell’omicidio Alfano, all’epoca era imputato proprio in “Mare nostrum” per associazione mafiosa e per un duplice omicidio (quello di Pippo Iannello e Giuseppe Benvenga).

L’accusa

Secondo il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Gaetano Paci, Canali ha scritto e recapitato il Testamento a uno dei legali di Gullotti, Franco Bertolone, in modo che questi lo usasse a favore del suo cliente, nel processo Mare nostrum e per tentare di ottenere la revisione del processo Alfano. Tutto questo in cambio di denaro. Tanto denaro, corrisposto dal cognato di Gullotti, Salvatore Rugolo: medico e consulente tecnico del Tribunale di Barcellona con Canali intratteneva una frequentazione pubblica (evidenziata nell’informativa Tsunami dei carabinieri del 2005).

Morto da incensurato il 26 ottobre del 2008, Rugolo – sempre secondo l’ipotesi dei magistrati reggini – a sua volta il denaro lo chiese a Carmelo D’amico, il teste chiave. Quest’ultimo oltre a Canali chiama in causa anche l’ex procuratore generale Franco Cassata, indagato ma non destinatario dell’avviso di conclusioni indagini.

 

Le dichiarazioni del collaboratore

Nel 2015 Carmelo D’amico raccontò agli inquirenti: “Tra il 2007 e il 2008, vidi passare Rugolo a bordo della jeep. Mi fece segno di seguirlo e io obbedii. Ci incontrammo. Nell’occasione mi disse che c’era la possibilità di riaprire il caso Alfano e di sistemare Mare nostrum, che ne aveva parlato con Canali e con Cassata e che bisognava pagare 600 mila euro. I soldi li avrei dovuti dare io che all’epoca avevo grande disponibilità. Rugolo mi disse che 300 mila erano per Canali e 300 mila per Cassata. Io accettai. Precisai però che avrei pagato 100 mila euro a colpo, ossia in corrispondenza di qualche risultato positivo in quei processi. Dopo qualche tempo, a metà del 2008 ci siamo incontrati e gli consegnai 100 mila euro in contanti. Dopo qualche tempo incontrai Rugolo che mi confermo di avere consegnato 50 mila euro a Canali e 50 mila a Cassata. Rugolo non mi disse come Canali e Cassata sarebbero intervenuti a favore di Gullotti. Ero pronto a sborsare gli altri soldi se avessi visto dei risultati, che però sino alla data del mio arresto avvenuto agli inizi del 2009 non vidi. Successivamente seppi che Gullotti era stato assolto nel processo Mare nostrum“.

L’intermediario Salvatore Rugolo muore: “Qualche mese dopo che gli consegnassi i 100 mila euro“, ricorda D’amico. Precisamente, in un incidente stradale. Ma a fine del 2018 a Barcellona arriva una lettera. E’ firmata da Pippo Gullotti ed è diretta ad un suo parente.

Sulle tracce di questa lettera gli inquirenti vengono messi dallo stesso collaboratore. E scoprono che esiste davvero.

E’ su questa missiva che si basa l’accusa di concorso in corruzione a Gullotti, in prima battuta, ovvero nel primo avviso di conclusioni indagini, ora aggiornato, lasciato fuori dall’inchiesta.

Gullotti al termine del processo Mare Nostrum viene condannato per associazione mafiosa a 14 anni, ma assolto per l’omicidio di Iannello e Benvenga (decisione confermata dalla Cassazione): il Testamento di Canali – a leggere le motivazioni – non ha avuto alcuna rilevanza. Decisiva è stata invece la ritenuta non attendibilità del collaboratore Maurizio Avola, su cui era stata fondata la condanna all’ergastolo in primo grado.

La lettera e l’interpretazione del boss D’amico

La lettera mi fu sottoposta. Notai che c’era scritto una frase del tipo “Si devono portare i soldi…”. In quella lettera Gullotti sembrava si riferisse alla necessità di consegnare dei soldi agli avvocati, ma Io capii subito che si riferisse al denaro che doveva essere consegnato a Canali e Cassata. Io non feci nulla perché non sapevo come avvicinare quei magistrati. Successivamente fui arrestato“, ha raccontato D’amico.

 

Il viaggio del Testamento

E’ un dato accertato processualmente che il Testamento fu scritto l’11 gennaio del 2006 e fu affidato al giornalista della Gazzetta del sud Leonardo Orlando. “Lo devi rendere pubblico solo se verrò arrestato”, gli raccomandò Canali, la cui paura di finire in carcere nasceva proprio dai suoi rapporti con Salvatore Rugolo, finiti in quel periodo all’attenzione della magistratura reggina.

Invece, il memoriale di tre pagine entrò ben presto in possesso di diverse persone. Il modo in cui questo documento si diffuse meriterebbe un lungo capitolo. “Io non l’ho dato a nessuno. Non ne avevo colto neppure l’importanza. Qualche settimana dopo l’ho solo fatto leggere al bar all’avvocato Fabio Repici. Dopo qualche mese ancora, lo stesso Repici mi telefonò e mi disse che ce l’avevano varie persone senza dirmi chi. Tempo dopo ancora Canali mi contattò per contestarmi che questo documento circolava a Barcellona e per chiedermi se lo avessi diffuso io“, ha raccontato il giornalista il 10 ottobre del 2011 ai magistrati della Procura di Reggio calabria.

Fatto sta che a depositarlo al processo Mare Nostrum è il legale Bertolone che ha dichiarato di averlo ricevuto nella buca della posta.

Emerse poi che qualche mese prima, il 2 dicembre del 2008, il sostituto della Procura di Messina Rosa Raffa aveva già interrogato Canali, che riconobbe come suo il “Testamento”  esibito.

Dopo l’interrogatorio della Raffa Canali mi chiamò per lamentarsi che il “Testamento” era stato diffuso. “Io non l’ho dato a nessuno”, ho ribadito. Seppi in quell’occasione che era stato Repici a fare qualche tempo prima l’esposto. Solo dopo che il Testamento divenne pubblico Repici mi telefonò e mi disse: “Non ti preoccupare ho detto a chi di dovere chi me l’ha dato. Non ti posso dire chi è“, raccontò sempre Orlando a Reggio Calabria.

Canali ha spiegato il movente, ma non ha mai raccontato le ragioni e soprattutto gli scopi per cui ha scritto il memoriale, che consegnò comunque a un giornalista che sapeva essere in ottimi rapporti con l’avvocato Repici, il legale della famiglia Alfano, ovvero chi poteva essere danneggiato dal documento di tre pagine.

 

A seguire l’ipotesi accusatoria…qualcosa non fila

Riassumendo, Canali ha scritto il “Testamento” nel 2006 e lo ha affidato a un giornalista.  La copia, a distanza di qualche mese, entra nelle mani di diverse persone o, comunque, nella loro sfera di conoscenza: tra questi Repici. L’ avvocato per due anni, almeno sino a quando non arriva a conoscenza della Procura di Messina, non fa niente.

Canali stesso già nel 2008 viene a conoscenza della diffusione indiscriminata, ma se ne sta con le mani in mano pure lui, salvo lamentarsi con il giornalista che sospetta essergli stato infedele.

Nel 2015, D’amico, collaboratore da 2 anni, si ricorda che a metà del 2008, quando tuttavia il Testamento era già diffuso e Canali aveva già contestato a Orlando la diffusione, diede i soldi a Rugolo per pagare Canali in modo che questi diffondesse il memoriale e così si tentasse di riaprire il processo Alfano e di “aggiustare” Mare nostrum.

Gullotti dal canto suo, dal 41 bis – a seguire l’imputazione –  doveva essere stato informato che il cognato nel 2008 era impegnato a corrompere il giudice perché diffondesse un documento che a Barcellona già avevano in molti e sapeva pure che non erano stati pagati tutti i soldi. Morto il cognato, scrive una lettera che – secondo l’interpretazione che ne dà D’amico – conteneva un ordine: continuare a pagare.

 

L’altra corruzione… prescritta

La sentenza di assoluzione per Carmelo D’amico e Salvatore Micale fu depositata dalla Corte d’assise di Messina il 20 novembre del 1999.

I due erano accusati del triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino, avvenuto il 4 settembre del 1993. Si trattava di una sentenza molto controversa perché nel corso del dibattimento una serie di testimoni avevano ritrattato, tra questi soprattutto la moglie di Geraci, sopravvissuto per un periodo all’attentato nel corso del quale aveva indicato ai parenti gli autori dell’imboscata proprio in D’amico e Micale.

Il pm Olindo Canali che aveva sostenuto l’accusa, presenta appello il 7 aprile 2000. Ma il termine ultimo fissato dalla legge è il 3 aprile precedente. Qualche giorno dopo, Canali rinuncia all’appello per “errore di calcolo”. La sentenza diventa irrevocabile.

Questi i fatti. Per anni finiti nel dimenticatoio finché nel 2015 D’amico non fa le sue rivelazioni. Tirano sempre in ballo il defunto Salvatore Rugolo e costano a Canali la seconda imputazione per corruzione aggravata: “Negli anni 1997/98 notai Rugolo frequentarsi con notevole assiduità con il magistrato Canali. La cosa mi sorprese molto perché per noi Canali era il nemico numero uno. In quel periodo ero sotto processo per il triplice omicidio. Per caso incontrai Rugolo. Nel corso della chiacchierata gli dissi: “Canali mi sta processando per il triplice omicidio. Non gli puoi chiedere se può fare qualcosa?” “Ti faccio sapere”, mi rispose.  Dopo alcuni giorni mi venne a cercare e mi disse: “Ci vogliono cento milioni per sistemare il processo”. Andai da Eugenio Barresi (esponente di vertice dell’organizzazione mafiosa, ndr) che mi disse che per lui andava bene. Dalle sue risposte capii che sapeva già tutto. Qualche giorno dopo Barrresi mi fece avere i soldi avvolti in un sacchetto di carta, che io consegnai a Rugolo. Nell’occasione questi mi disse che Canali gli aveva detto che io avrei dovuto avvicinare la moglie di Geraci, in modo da convincerla a dichiarare in udienza che suo marito non aveva riconosciuto i killer. La moglie di Geraci, che aveva prima testimoniato contro di me, prima di deporre mi fece l’occhiolino. Canali se ne accorse ma fece finta di nulla. Chiese nei miei confronti la condanna a trent’anni. Ma fui assolto. I miei avvocati, Giuseppe Lo Presti e Tommaso Calderone, mi avvisarono che il pm l’avrebbe sicuramente appellata. Dopo qualche giorno mi incontrai con Rugolo e gli consegnai i restanti 50 milioni di lire. Gli dissi: “Vedi che il processo deve finire”. “Non preoccuparti”, mi rispose. Canali in effetti fece appello in ritardo. Rugolo qualche tempo dopo ridendo mi disse che Canali aveva fatto un poco di scena, facendo finta di sbagliare i conti“, ha dichiarato il collaboratore, che già in precedenza, all’inizio della collaborazione, si era autoaccusato del delitto.

I fatti sono risalenti a 19 anni fa e il reato ampiamente prescritto. Olindo Canali, però, ha rinunciato alla prescrizione.

Pentito sul filo del rasoio

La tenuta delle dichiarazioni di D’amico rispetto a questa imputazione dipende dalla risposta positiva a una domanda: Canali conosceva e frequentava Rugolo sin dal 1997/1998 e prima comunque che il processo – secondo la procura reggina – “aggiustato” finisse?

Il magistrato nel corso di un interrogatorio tenuto il 16 aprile 2009, 6 anni prima delle accuse di D’amico, davanti al capo della Procura di Reggio, Giuseppe Pignatone, spiegò: “Conobbi Rugolo per la prima volta nel 2000. Ebbi un malore nel corso di una requisitoria e mi soccorse in Tribunale“.

 

L’irresponsabilità dei magistrati e la credibilità della giustizia

Nonostante Canali non avesse impugnato una controversa sentenza di assoluzione nei confronti di due killer della mafia e avesse quindi così oggettivamente favorito la loro l’impunità, rimase tranquillamente al suo posto, a Barcellona, e nessun provvedimento disciplinare fu mai assunto dal Consiglio superiore della magistratura. Come se nulla fosse, benché la mancata presentazione dell’appello fosse conosciuta tra gli addetti ai lavori e minasse la sua credibilità di magistrato oltre ad esporlo a ricatti di ogni sorta.

Nessun provvedimento disciplinare venne assunto neppure quando emersero i rapporti di frequentazione pubblica, giunti all’attenzione della Procura di Reggio Calabria, di Canali con Salvatore Rugolo: quest’ultimo, per quanto incensurato, era sempre il cognato e il figlio del boss di Barcellona e questo, in un ambiente piccolo come quello della cittadina del Longano, lo esponesse a insinuazioni e dubbi. O ad accuse postume che attentano alla fiducia dei cittadini nella giustizia, com’è puntualmente accaduto.

Né mai il magistrato brianzolo stesso, neppure a seguito di questi fatti, ha sentito l’esigenza di cambiare aria, chiedendo il trasferimento, che arrivò forzatamente a distanza di 18 anni dal suo insediamento a Barcellona solo dopo l’approdo davanti all’autorità giudiziaria del “Testamento”.

Anzi, nel frattempo trovò pure il tempo di avventurarsi in un’iniziativa senza precedenti: spargere dubbi e veleni, nero su bianco, in un documento che poteva giungere a chicchessia, su una verità processuale che egli stesso aveva contribuito a realizzare.

 

Teoremi e…. assoluzioni

Il “Testamento” fu già fonte di guai giudiziari per Canali. Dopo il deposito a Mare Nostrum, il magistrato venne chiamato a testimoniare. Sulla base delle sue risposte, l’avvocato Repici lo denunciò per due ipotesi di falsa testimonianza.

Fu processato, ma assolto dopo tre gradi di giudizio “perché il fatto non sussiste”.

La paura Cassata… fa brutti scherzi

Il collaboratore di giustizia Carmelo D’amico, boss di Barcellona e autore di efferati omicidi, non ne ha parlato nel verbale illustrativo della collaborazione; non ne ha parlato nei 180 giorni dall’inizio della collaborazione, come prevede la legge; non se n’è ricordato, incalzato dal pm e dagli avvocati di parte civile nel corso di alcuni processi in cui è stato chiamato a testimoniare su fatti strettamente connessi, come nel processo d’appello a Saro Cattafi, imputato di essere il capo della mafia di Barcellona; né nel corso del processo sulla presunta “Trattativa tra lo Stato e la mafia” tenuto a Palermo, in cui aveva mosso accuse gravissime a uomini dello Stato.

Ma ad aprile del 2015, a un anno dall’ inizio della collaborazione, chiede con urgenza di essere sentito dai magistrati e mette nero su bianco le nuove dichiarazioni che riguardano Canali e Cassata.

Non ho riferito prima queste cose perché non le ricordavo in maniera cosi precisa e perché continuo ad avere paura di un personaggio come Cassata, molto potente, che ha dalla sua parte appartenenti alla forze armate, carabinieri ecc“, si è giustificato.

 

IL CORSIVO. “Ex gil”: come ti risolvo un problema trentennale in diretta facebook e in un’ora. Se il metodo “deluchiano” del blitz non colpisce i veri responsabili, non migliora le cose e lascia il deserto

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Il sindaco Cateno De Luca e il custode dell'ex Gil

Il sindaco Cateno De Luca e il custode dell’ex Gil

“Licenziare i custodi per scarso rendimento e chiudere l’impianto per carenze igieniche strutturali”.

E’ bastato che il sindaco Cateno De Luca si spostasse per un’oretta da Palazzo Zanca  ed ecco che uno dei tanti problemi della città è stato risolto.

Il clamore, quello che tanto eccita il primo cittadino, che nei suoi continui blitz si muove con telecamera al seguito, in questo caso è stato pure amplificato: il custode, sorpreso a vedere la televisione in orario di servizio e umiliato da De Luca in veste di attore comico, è salito su un tetto minacciando di buttarsi giù.

Il problema “ex Gil” è stato risolto radicalmente.

In un batter baleno ci si è liberati di custodi ignavi, scansafatiche e “ruba stipendio” e dei costi di manutenzione dell’unico impianto sportivo di atletica del centro città, la cui pista solo un anno fa era stata rifatta per la modica cifra di 200 mila euro.

Un risparmio per le esangui casse del Comune senza precedenti: da “Manuale del (perfetto) aspirante amministratore comunale”, per citare il libro che il sindaco ha pubblicato qualche tempo prima di essere eletto, a maggio del 2018, alla guida della città.

E gli sportivi? Gli utenti dell’impianto? Le decine di ragazzini che al pomeriggio si allenano? I giovani che invece di stare nelle sale giochi o nei luoghi di spaccio socializzano con i coetanei, abituandosi alla fatica? Le persone di mezza età o anche anziane che preferiscono lo sport alle sale bingo?

Beh,quelli se ne facciano una ragione. Il risparmio prima di tutto.

D’altronde, basta attendere qualche mese e l’impianto verrà dato in gestione a qualche privato che lo renderà funzionale, moderno, pulito.

Qualche privato disposto pure a perdere denaro pure di mostrare che De Luca è un genio dell’amministrazione della cosa pubblica.

Anzi, non si capisce perché non lo si imiti pure nelle altre città d’italia, dove ancora i sindaci e gli assessori  pensano che siano eletti (e anche pagati) per risolvere i problemi: trovare i fondi e ristrutturare gli immobili pubblici fatiscenti; fare pulire e far lavorare il personale e in caso estremo licenziarlo dopo aver seguito le procedure di legge.

Dove fanno i conti con un principio elementare: ci sono servizi pubblici i cui ricavi non possono coprire i costi, servizi che vanno finanziati con la fiscalità generale.

Invece De Luca è avanti: per un anno lascia marcire il problema e poi con un blitz lo risolve.

E’ come se il direttore generale di un ospedale, che per un anno ignora le segnalazioni dei pazienti sui disservizi in un reparto e sulle perdite di acqua dai soffitti, poi una mattina si sveglia, va nel reparto, trova i medici e infermieri che sono nei corridoi a chiacchierare e che fa?

Licenzia tutti e chiude il reparto, facendo pentire gli utenti di aver segnalato le disfunzioni.

E’ ovvio, non c’è neppure bisogno di scomodare gli avvocati, che nessun giudice avallerà il licenziamento dei custodi operato secondo i metodi “deluchiani”. E per le casse pubbliche c’è da augurarsi che i dirigenti, cui il sindaco ha dato disposizioni in tal senso, non le traducano in un provvedimento concreto e suicida.

Non perché i custodi non meriterebbero di essere licenziati. E De Luca, più in generale, non colga nel segno, come tutti sanno, nell’individuare ad ogni blitz sacche vergognose di lassismo e di parassitismo, a cui nessuna amministrazione precedente ha mai provato a rimediare. 

Chiunque frequenta quell’impianto sportivo sa che da sempre i custodi omettono di compiere qualsiasi attività che sia diversa da chiudere e aprire la porta, accendere e spegnere le luci. E passano le otto ore di servizio a non fare niente.

L’erbaccia invade la pista e le radici la deteriorano? “Non è compito nostro”. Ci sono bottiglie e rifiuti sulla pista? “Non è compito nostro”. Gli spogliatoi e i bagni sono sudici? “Non è compito nostro”.

E’ stata sempre questa la risposta che hanno dato, spalleggiati da complici sindacalisti che invece di difendere il lavoro e gli interessi collettivi, difendono il loro posto di lavoro e i relativi privilegi.

Per non dire di alcuni di loro che alla sera in inverno arrivano a chiudere un’ora prima o, più in generale, quando fa loro comodo. E non raccontare di come per un anno a un “signore”  (peraltro medico di professione) i custodi abbiano permesso che ogni lunedì mattina entrasse direttamente negli spogliatoi, si depilasse testa e il corpo, facesse la doccia e andasse via lasciando sul pavimento un tappetino di “morbido tessuto”.

Nessun dirigente, e qui vengono a galla le vere e gravi responsabilità, però ha mai imposto con ordine di servizio lo svolgimento delle mansioni ai custodi, benché il contratto collettivo enti locali sia chiaro sul punto: disciplina sola la figura di custode del cimitero e prevede che questi debba pulire finanche la stanza settoria, dove si fanno le autopsie, figurarsi se il custode degli impianti sportivi, peraltro dotato di abitazione gratis, possa limitarsi ad aprire e chiudere le porte, giustificandosi così uno stipendio pari a quello del collega.

Né quindi nessun dirigente del Comune, magari uno di quello che da anni incassa al 100% l’indennità di risultato come se avesse centrato tutti gli obiettivi, ha mai adottato sanzioni disciplinari idonee a fondare progressivamente un licenziamento legittimo.

Né tantomeno mai è stato istituito un orologio marcatempo, con tanto di badge, pure obbligatorio per legge.

Altro che “tutto era pulito, funzionante e in ordine durante la precedente sindacatura di Renato Accorinti”, come ha scritto tra lo stupore di tutti gli addetti ai lavori in un comunicato stampa “Messina accomuna”, sigla riconducibile all’ex assessore Guido Signorino e allo stesso Accorinti.

A ben vedere, di questi ordini di servizio non ce ne dovrebbe essere neppure bisogno se solo chi ha la fortuna di avere un lavoro in una città con punte di disoccupazione di oltre il 30%, desse dignitosamente un senso allo stesso, senza nascondersi dietro cavilli giuridici,  interpretazioni contrattuali e sindacalisti pessimi.

Il custode non può certo rispondere delle carenze strutturali.

Queste invece richiamano alle responsabilità i dirigenti, su cui De Luca per la verità ha acceso egualmente i riflettori, gli assessori e lo stesso sindaco, sempre più specialista della politica del blitz che, però, alle spalle lascia solo il clamore mediatico e davanti il deserto.

L’ASSOLUZIONE. Poliziotti infedeli: cadono le accuse di corruzione, violazione del segreto istruttorio, truffa e falso nei confronti di 4 poliziotti e due medici. Due ufficiali erano accusati di aver aiutato il boss emergente della zona sud Francesco Arena a dribblare la legge.

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Francesco Arena

Francesco Arena: per la Procura è stato aiutato da poliziotti infedeli

 

Tutti assolti per non aver commesso il fatto. E’ finito così il giudizio di primo grado nei confronti di 4 poliziotti messinesi, su uno dei quali pendeva un’accusa infamante.

Soldi in cambio di informazioni riservate per consentire al boss e ai suoi sodali di farla franca.

Era da questa imputazione, declinata in termini di corruzione, infatti che doveva difendersi Giuseppe Bartuccio, sovrintendente della Polizia di Stato, in servizio all’epoca dei fatti (risalenti al 2016) alla Squadra mobile di Messina.

Il boss che – sempre stando all’accusa compendiata nell’avviso di conclusione indagini – lo ha foraggiato e si è avvantaggiato della sua opera è Francesco Arena, arrestato nell’operazione “Snife” del gennaio scorso perché considerato il capo di un’organizzazione criminale dedita allo spaccio di droga nella zona sud della città.

Il Sovrintendente ha in cambio – sempre secondo l’impianto accusatorio – rivelato al capo dell’associazione criminale l’esistenza di un’ordinanza di misure cautelari nei confronti di soggetti a lui vicini e notizie riguardanti atti di indagini.

Le prove sono contenute in una serie di intercettazioni captate proprio nell’indagine “Snife”, condotta dai carabinieri.

Dalle intercettazioni è emerso pure che Bartuccio si è reso protagonista di altre violazioni del segreto istruttorio.

Mentre indagava sull’omicidio di Giuseppe De Francesco, consumato ad aprile del 2016, ha rivelato ai pregiudicati Gaspare Caracci e Alberto Di Blasi e a Gaetano Alessandro l’autore dell’omicidio, le circostanze dell’arresto dell’autore e il movente.

Mentre collaborava all’inchiesta sul ferimento di Angelo Arrigo, avvenuto nell’aprile del 2016, Bartuccio nell’immediatezza del fatto ha rivelato alla convivente della vittima il possibile movente e, soprattutto, le ha preannunciato una perquisizione domiciliare alla ricerca di cocaina.

Come dribblare le prescrizioni

Francesco Arena, 37 anni, secondo le conclusioni cui sono giunti i sostituti della Procura Liliana Todaro e Federica Rende ha potuto per anni contare anche sull’aiuto  di un altro poliziotto.

Domenico De Michele, sostituto commissario, coordinatore del settore anticrimine del Commissariato Messina sud, è infatti accusato solo di plurime ipotesi di omissioni in atti d’ufficio.

Omissioni che hanno consentito ad Arena di muoversi a suo piacimento eludendo in diverse occasioni  i provvedimenti limitativi della sua libertà adottati dal Questore di Messina.

Il lavoro stanca

Nell’inchiesta coordinata dai sostituto Liliana Todaro e Federica Rende sono rimasti invischiati anche altri due poliziotti in servizio al commissariato di Villa San Giovanni e due medici messinesi.

L’assistente capo Giovanni De Michele, 36 anni figlio del sostituto commissario Domenico, è accusato di truffa perché mentre era in servizio al commissariato di Villa San Giovanni si è allontanato arbitrariamente dal servizio in più occasioni nel periodo compreso tra marzo e maggio del 2016.

De Michele, sempre a seguire l’accusa, si è dato da fare per procurare al suo collega Marco Rappazzo, 40 anni anch’egli in servizio a Villa, un certificato medico falso attestante l’inidoneità a svolgere il servizio per 10 giorni.

Specificamente, De Michele si è rivolto al suo medico curante Francesco Asciutto, anche se il certificato datato 26 aprile del 2016 l’ha redatto un collega di studio .

Il medico doveva rispondere di falso ideologico.

Tutte queste accuse però si sono rivelate per il Tribunale di Messina non fondate e al termine del processo sono stati tutti assolti.

 

 

 

Caso “Il Detective”: tutti assolti. L’inchiesta della Procura di Messina sulla storica società di vigilanza si sgonfia come una bolla di sapone. Il vizio originario

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il detective

 

“Assolti perché il fatto non sussiste”.

Finisce come una bolla di sapone l’inchiesta sulla società di vigilanza Il Detective che tra il 2007 e il 2010 mobilitò l’intera sezione della polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e mise sulla graticola la moglie dell’allora rettore dell’ateneo Franco Tomasello.

Il Tribunale di Messina presieduto da Mario Samperi ha dichiarato non responsabili dei reati loro contestati gli ultimi 6 imputati sopravvissuti alla prescrizione.

Lo straordinario…abbaglio

Sono stati assolti dalla grave accusa di estorsione Enzo Savasta, uomo di fiducia prima del fondatore della società Antonino Corio e poi, dopo la sua morte, avvenuta nel 1998, della moglie Antonia Privitera; Salvatore Privitera, fratello di quest’ultima, e Mariella Russo, sorella (non germana) del fondatore Antonino Corio: in qualità dipendenti amministrativi erano accusati di aver obbligato alcuni dipendenti ad accettare pagamenti in nero dello straordinario e in misura minore al dovuto, attraverso la minaccia  di licenziamento.

Teste principale dell’accusa per questo capo di imputazione era Salvatore Di Natale, sindacalista aziendale della Cgil: sentito in fase di indagine dalla Guardia di Finanza aveva fatto delle dichiarazioni di accusa nette e dure ai tre imputati.

Nel corso del processo, Di Natale, costituito parte civile,  rispondendo alle domande del pubblico ministero ha ribadito le accuse, ma incalzato dal legale di Savasta, Salvatore Saccà, che aveva iniziato a dare lettura di alcune intercettazione da cui emergeva la sua posizione di sindacalista tutt’altro che neutra rispetto alla guerra intestina societaria, ha lamentato un malore. Il Tribunale è stato costretto a rinviare il contro esame.

Che non si è mai potuto tenere: Di Natale ha ripetutamente presentato certificati medici finché il Tribunale non ha revocato l’ordinanza ammissiva.

La tesi difensiva – emersa nel corso del dibattimento – è che non ci fu alcuna minaccia, né avesse motivo di esserci: i dipendenti che hanno lamentato di aver avuto corrisposto lo straordinario in nero (6 su 100) erano guardie che mensilmente facevano più straordinario di quanto la legge consentisse.

Per cui questo ulteriore straordinario non poteva essere  per legge inserito nella busta paga,  ma veniva pagato in nero. Il dipendente, in realtà, così non solo non veniva danneggiato ma addirittura avvantaggiato: percepiva – dati alla mano – di più per ogni ora di straordinario per così dire “ultra legem”, perché quanto corrisposto era netto non dovendosi pagare ritenute fiscali e contributive.

Il Tribunale, sulla scorta di queste argomentazioni logico giuridiche, mai prese in considerazione durante le indagini, e anche delle testimonianze di altre guardie giurate, ha ritenuto non credibile Di Natale, assolvendo i tre imputati.

La polizza della discordia

Sono stati assolti, sempre dall’accusa di estorsione, Antonella Corio e il marito Marco Lenci: secondo l’accusa avevano minacciato la mamma (e suocera) Antonia Privitera, proprietaria de Il Detective di non farle più vedere il proprio figlio (ovvero il nipotino), se non avesse trasferito alla figlia una polizza vita, che aveva come beneficiaria la stessa Antonella.

L’accusa si fondava sulla testimonianza di Maria Bongiovanni, donna delle pulizie di casa Corio che era stata sempre vicina alla signora Privitera nel periodo della malattia.

Maria Bongiovanni e il marito Carmelo Maceli, quando scoppiò la guerra tra le 4 sorelle si schierò dalla parte di Daniela Corio e nel periodo in cui fa le dichiarazioni contro la sorella Antonella, ottiene da Daniela dei miglioramenti di stipendio per se stessa e il marito Carmelo Maceli.

Il Tribunale – a leggere il dispositivo d’assoluzione – non ha ritenuto credibile la Bongiovanni.

Se Maometto non va alla montagna…

E’ stato assolto Carmelo Altomonte, dirigente del Comune di Messina. Era accusato di aver autenticato la firma di Antonia Privitera che – secondo l’accusa – mai incontrò di persona, visto che, come ha riferito Carmelo Maceli, autista della signora Privitera,  questa mai poté andare al Comune e mai ci andò a causa delle sue condizioni di salute.

La tesi difensiva – che ha trovato ora l’avallo dal Tribunale – è che fu Altomonte ad andare a domicilio della Privitera, nella sede de Il detective, per autenticare la firma, eventualità questa mai scandagliata dagli inquirenti.

Fioccano le prescrizioni

All’inizio del giudizio di primo grado, nel 2012, i capi di imputazione erano 65. In piedi, dopo 5 anni, nel 2017, ne rimasero 9.

Il 22 maggio del 2018 il Tribunale dichiarò l’avvenuta prescrizione per il decorso del tempo di 56 capi di imputazione.

Tredici imputati, infatti, hanno beneficiato della sentenza di non doversi procedere per il decorso massimo del tempo dai fatti contestati.

I fatti oggetto delle ipotesi di reato erano stati commessi nel 2007.

Uscirono dal processo Daniela Corio, figlia dei proprietari della società di vigilanza, e Pietro Cacace, il marito; la figlia Federica Cacace; Cristina Corio e Natala Corio le altre due sorelle figlie dei proprietari de Il Detective; Corrado Emanuele Galizia, ex agente dei servizi segreti, per un periodo amministratore de Il Detective, consigliere e braccio destro di Daniela Corio; Giuseppe Giammillaro, marito di Cristina Corio; Antonino Lo Giudice, avvocato e consulente della società; Pietro Sofia e Massimiliano Morabito, guardie giurate; Pietro Previte e Massimiliano Carrozza, titolari di ditte che avevano lavorato per il Detective; Maria Gabriella Ciriago, funzionaria della Prefettura di Messina.

I reati contestati e dichiarati prescritti andavano dalla turbativa d’asta, all’appropriazione indebita, alla falsa testimonianza, alla truffa attraverso false fatturazioni, alla circonvenzione di persona incapace, alla rivelazione del segreto d’ufficio.

 

Origini interessate e assunzioni di favore

Le indagini coordinate all’epoca dai sostituti Antonino Nastasi e da Adriana Sciglio sono nate dalle denunce di una delle figlie di Antonino Corio e Antonia Privitera, Daniela Corio, presentate un paio di mesi dopo la morte della mamma, avvenuta il 3 maggio del 2007, al termine di una malattia.

Daniela Corio, in quel momento  minoranza nella società di famiglia (dopo alcuni di mesi da direttore generale) si presentò insieme alla sorella Cristina in Procura denunciando una serie di fatti che accusavano coloro che in quel momento avevano la guida della società: le sorelle Antonella e Natala e Enzo Savasta, socio con il 5% e amministratore della società,  ago della bilancia nella battaglia tra le 4 sorelle.

Le indagini condotte dalla sezione della polizia giudiziaria della Guardia di Finanza, guidata da Diego Arena, furono caratterizzate – per come è emerso – dai rapporti frequenti tra Daniela Corio e Corrado Emanuele Galizia e il luogotenente Giuseppe Smedile, che di fatto svolgeva le indagini.

L’ufficiale Smedile, con le indagini ancora in corso, si ritrovò assunto il genero da parte di un’altra società di vigilanza, la Corio srl (ex Vigilnot) nel frattempo acquisita da Daniela Corio e Cristina Corio.

Le due sorelle, rimaste minoranza nella società di famiglia ma prima che un’assemblea dei soci certificasse ciò, avevano affittato a prezzo irrisorio l’azienda de Il Detective proprio a Corio Srl, appena acquistata.

Alla fine, tirando le fila di un’indagine durata tre anni e fatta di intercettazioni telefoniche, la procura contestò reati anche a Daniela Corio e Corrado Emanuele Galizia, commessi secondo la procura proprio nel periodo in cui i due entravano e uscivano dagli uffici della Guardia di Finanza.

Nell’inchiesta rimase invischiata la moglie dell’allora rettore dell’ateneo di Messina Franco Tomasello, Melitta Grasso (deceduta tre anni fa), amica di vecchia data di Antonia Privitera: indagata inizialmente per corruzione anche in base alle dichiarazioni di Maria Bongiovanni, la Procura chiese e ottenne per lei l’archiviazione.

Effetto boomerang: fallimenti e condanne

La società Il detective, che quando iniziarono le indagini della procura aveva 7 milioni di euro di fatturato e 100 dipendenti, nel 2013 è stata dichiarata fallita.

Fallita è stata dichiarata pure la società Corio srl (ex Vigilnot).

Da quest’ultimo fallimento è nato un procedimento penale per bancarotta fraudolenta che al termine del processo d’appello ha visto condannate Daniela Corio  e Cristina Corio a  3 anni e 6 mesi di reclusione.

Daniela Corio, nell’ambito di un’altra costola dell’inchiesta principale, è stata condannata con sentenza passata in giudicato ad otto mesi di reclusione per rivelazione del segreto d’ufficio: nel corso della guerra societaria aveva chiesto e ottenuto informazioni riservate da impiegati della Prefettura di Messina.

 

L’OPINIONE: Navigator, a 20 mila persone impedito di partecipare al concorso in base al voto di laurea e… alla fortuna. Il buon senso, la legge e la giurisprudenza però lo vietano

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E’ giusto e legittimo che a migliaia di persone sia impedito di partecipare a un pubblico concorso, cioè di mostrare quanto siano bravi e preparati, in base al voto di laurea?

Chiunque, uomo della strada, a lume di buon senso e di logica, risponderebbe d’istinto “no”.

E risponderebbe di no, perché il voto di laurea non è un criterio oggettivo e, soprattutto, sicuro della preparazione del candidato, né delle sue capacità e competenze e quindi non assicura alla pubblica amministrazione di selezionare davvero i migliori (scopo questo del concorso).

Non è metro oggettivo ed affidabile per diverse ragioni: perché, ad esempio, i parametri di valutazione delle commissioni di esami variano da ateneo ad ateneo, variano da facoltà a facoltà, variano da periodo storico a periodo storico, variano dalle università pubbliche alle (decine ormai) di Università private, le quali più generosamente rilasciano lauree e più facilmente attirano clienti e denaro.

Non lo è anche per altri motivi che riguardano specificamente la storia umana e professionale di ciascun candidato: ad esempio, si può sostenere che uno che è laureato in Economia con 90/110 e ha alle spalle 10 anni di esperienza come manager in un’azienda privata e voglia passare al settore pubblico, sia meno preparato rispetto a un neolaureato con 110 e lode in un’Università telematica?

Eppure, ciò che per l’uomo della strada avrebbe una soluzione scontata per chi governa l’Italia e per la classe dirigente cui è stato affidato il compito di fare gli interessi collettivi, la domanda ha una risposta opposta.

Il voto di laurea, infatti, è stato usato per impedire a 20 mila persone di partecipare al pubblico concorso che si terrà il prossimo 18, 19 e 20 giugno a Roma a 3 mila posti di navigator, figura ideata e voluta dal Movimento 5 Stelle e dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio per aiutare i destinatari del reddito di cittadinanza a cercare e trovare il lavoro (che non c’è).

Trenta mila euro all’anno lordi per due anni, avevano indotto 80 mila muniti di laurea in diverse specialità (unico titolo richiesto dal bando) ad avanzare domanda di partecipazione al concorso organizzato e gestito dall’ Anpal, Agenzia nazionale politiche del lavoro, ente di diritto pubblico dello Stato italiano.

Circa ventimila aspiranti navigator, però, sono stati privati della possibilità di cimentarsi nelle prove e di mostrare il loro valore, proprio in base al voto di laurea.

La ragione? Limitare il numero dei partecipanti all’unica prova selettiva e velocizzare la procedura, che già di per sè per come è stata strutturata è velocissima: un test a risposta multipla di 100 domande, chi totalizza i punteggi più alti vince. 

A Messina e provincia, ad esempio,  sono stati esclusi 600. In tutta la Sicilia, più o meno 3 mila.

L’uomo della strada però subito dopo aver risposto d’istinto “no”, sarebbe comunque stato assalito dai dubbi: “La legge magari lo consente, per i giudici è giusto così. Se è stato previsto vuol dire che si può fare”, penserebbe.

 

Cosa dicono i giudici

Non avrebbe alcuna incertezza a rispondere allo stesso modo chi, invece, ha un minimo di competenza giuridica.

Che l’esclusione da un pubblico concorso in base al voto di laurea, si ponga fuori dalle regole non solo dell’ordinamento italiano ma ancor prima di quello comunitario è principio di diritto consolidato nella giurisprudenza.

Da ultimo, con sentenza del 15 febbraio del 2019, il Tribunale amministrativo del Lazio ha annullato la procedura selettiva bandita dall’Enac, Ente nazionale aviazione civile, per reclutare ingegneri, proprio perché era stato previsto il voto di laurea come sbarramento alla partecipazione al concorso.

I giudici amministrativi, ribadendo altre pronunce precedenti, hanno stabilito che: “la previsione di un ulteriore requisito di accesso alla relativa procedura selettiva (oltre alla laurea, ndr), non può dunque fondarsi sulla semplice volontà dell’ente di limitare preventivamente il numero dei partecipanti al concorso. E’, infatti, evidente che l’ENAC abbia inteso introdurre un illegittimo indice selettivo, correlato ad un predeterminato obiettivo di preparazione culturale degli aspiranti concorrenti, con il fine precipuo di escludere dalla partecipazione al concorso i soggetti che abbiano ottenuto risultati meno brillanti nel corso degli studi universitari, per di più adottando un parametro (il voto di laurea) che, a ben vedere, potrebbe non rappresentare un indice attendibile di preparazione del candidato, dipendendo esso da un rilevante numero di variabili (tra gli altri, il tipo di laurea conseguito e presso quale Università)”.

Esattamente quello che è accaduto per buttare fuori 20 mila laureati dalle prova per navigator.

I paradossi non finiscono mai

 

Ma nel concorso per navigator è successo qualcosa di ancora più paradossale.

La possibilità della partecipazione al concorso, oltre che al voto di laurea, è stata pure affidata al caso, alla fortuna.

Poiché ciascun candidato all’atto della domanda poteva concorrere solo per una provincia e gli ammessi al concorso sono stati definiti a livello provinciale in proporzione al numero dei posti messi in palio, è accaduto che azzeccando la provincia “giusta”, alcuni candidati sono stati ammessi pur con un voto di laurea più basso di altri che invece potevano vantare su un voto di laurea più alto, ma che avendo beccato la provincia sbagliata sono rimasti tagliati fuori.

In conclusione, se anche il voto di laurea per assurdo (così infatti non è) potesse essere usato come criterio per filtrare la partecipazione alle prove di un pubblico concorso, per come è stato applicato si è risolto nella violazione del principio di uguaglianza.

Insomma, un capolavoro. Realizzato, e qui c’è anche l’ulteriore paradosso, per “risparmiare” una sola sessione di prove di una giornata, da aggiungere alle tre già previste.