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Appalti e proroghe illegali all’Asp 5: veleni giornalistici sul manager Paolo La Paglia. La sospensione della direttrice amministrativa Catena Di Blasi fondata su motivi opposti a quelli rivelati (in esclusiva) dalla Gazzetta del sud. Che fa sua la suggestiva tesi dietrologica e la confonde con i fatti

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Il direttore amministrativo “sospeso” Catena Di Blasi e il direttore generale Paolo La Paglia

 

La Gazzetta del sud nell’edizione di ieri 27 gennaio del 2021, con un servizio a firma di uno dei suoi migliori giornalisti, ha spiegato – in esclusiva – perché il manager dell’Asp 5 Paolo La Paglia il 6 gennaio del 2021 ha sospeso dalle funzioni il direttore amministrativo Catena Di Blasi: “L’appalto conteso e i veleni dell’asp, il titolo del servizio a firma Nuccio Anselmo. “Ecco la vera storia della gara da dieci milioni di euro al centro di forti contrapposizioni“, l’occhiello. “La direttrice amministrativa dell’ente sanitario Di Blasi sospesa per sei mesi dal D.g. La Paglia, dopo aver detto no alla proroga, ha presentato un esposto in Procura e uno al Giudice del lavoro“, il sommario.

A stare alla versione fatta sua dal giornalista, che infatti non usa il virgolettato e precisa di aver letto le carte, c’è una relazione tra  il “no” della Di Blasi alla firma della proroga del contratto a Engie Servizi Spa, titolare da anni dell’appalto di fornitura di energia elettrica e di manutenzione degli impianti energetici di tutti i presidi ospedalieri dell’Asp 5 del valore di 10 milioni di euro all’anno, e il provvedimento di sospensione (adottato “poco tempo dopo”, secondo la testuale espressione della Gazzetta).

Una ritorsione, in altre parole, portata a segno dal Direttore generale.

Quest’ultimo (chissà per quali oscuri motivi è il sospetto che nasce in chi legge) voleva la proroga del contratto di appalto che per legge – come sosteneva la Di Blasi – non si può fare anche perché era necessario affidare l’appalto a Edison Energy Facility Spa, aggiudicataria nel frattempo di una gara centralizzata Consip. 

Una versione analoga ma in termini più prudenti era stata fornita ai lettori qualche giorno prima dalla testata on line meno autorevole (ma solo perché più giovane) messinatoday.it.

Ora, quali carte abbia letto (nell’interesse dei lettori, ovviamente) il giornalista della Gazzetta del sud e a che ora ciò sia accaduto, non è dato saperlo.

E’ sicuramente smentito dalle carte (in altre parole, falso) che la Di Blasi si sia rifiutata di firmare, poco tempo prima della sospensione, la proroga del contratto con Engie Servizi Spa (ex Cofely Spa).

Basta leggere la delibera datata 24 dicembre 2020, n 3749 per verificare non solo che la proroga dall’1 gennaio al 28 febbraio 2021 è stata decisa dai vertici aziendali, ma che reca la firma della stessa direttrice amministrativa Catena Di Blasi (oltre che del direttore generale e del direttore sanitario Dino Alagna).

In precedenza, altre due proroghe (di 11 mesi complessivi) erano state accordate sempre alla stessa Engie Spa: con delibera del 31 gennaio del 2020 n° 888, sino al 31 luglio 2020, la prima; con delibera 2029 del 24 luglio, sino al 31 dicembre 2020, la seconda.

Entrambe sono state firmate dalla stessa Di Blasi.

E’ logicamente possibile che il manager abbia posto a fondamento della sospensione della direttrice una firma “rifiutata” se invece le firme risultano apposte?

Carta canta…(in esclusiva?)

La Paglia  – da quanto si è verificato – nel provvedimento di sospensione invece alla Di Blasi ha contestato l’esatto contrario. 

Più precisamente, di non aver provveduto – quale responsabile di tutta l’attività amministrativa – a predisporre per tempo e correttamente tutti gli adempimenti amministrativi necessari per firmare il contratto con la società Edison Energy Facility Spa. 

Ciò, da un lato, ha obbligato alla proroga con Engie spa, deliberata appunto il 24 dicembre 2020; e, dall’altro, ha fatto spirare il termine ultimo entro cui era possibile stipulare il contratto con Edison Spa alle condizioni favorevoli di aggiudicazione della gara Consip. 

Quest’ultima proroga contrattuale, vietata di regola dalla legge e fonte di possibile responsabilità contabile e disciplinare del direttore generale di un ente pubblico, è seguita alle altre due. 

 

I problemi tecnici e le proroghe

Il contratto con Engie Spa, infatti, era scaduto il 31 gennaio del 2020. 

Le prime due proroghe iniziali sono state motivate con la necessità di procedere a una serie di adempimenti a carico sia della società subentrante Edison che dell’Asp 5, presupposti essenziali alla stipula del nuovo contratto.

Le gare centralizzate Consip sono standard. Nel momento della stipula del contratto bisogna adattare le varie clausole alle caratteristiche specifiche dell’ente pubblico che deve fruire del servizio appaltato.

 

Cronaca di una pubblica amministrazione inefficiente

E’ il 7 gennaio 2020, 23 prima giorni dalla scadenza del contratto con Engie Spa, quando all’Asp 5 sa che è possibile avvalersi dei risultati della gara Consip.

L’azienda sanitaria vi aderisce il giorno stesso.

Si instaura così un contraddittorio tra società Edison Facility Solutions Spa, aggiudicataria della gara Consip, e l’Ufficio Tecnico dell’Asp 5: è infatti la struttura diretta dall’ingegnere Salvatore Trifiletti, titolare e responsabile di tutta la procedura.

Passano i mesi, ma le problematiche tecniche ed economiche che via via insorgono si risolvono con grandi difficoltà.

Dopo la prima proroga del contratto, si rende necessaria la seconda.

Il 23 novembre 2020 la fumata bianca sembra a un passo.

Dieci mesi per stipulare un contratto di appalto con la società aggiudicataria sono un record.

L’Ufficio Tecnico diretto da Trifiletti, infatti, elabora una proposta di delibera per la stipula del contratto con Edison e la invia al direttore generale La Paglia, avvertendolo che ha quattro giorni di tempo per dare il suo assenso. 

Lo schema di contratto non piace per nulla al Energy Manager, responsabile dell’uso razionale dell’energia nell’azienda.

L’ingegnere Carlo Olivo, dopo aver letto le carte, avanza una serie di rilievi.

Nasce un conflitto tra i due ingegneri.

Il manager La Paglia, contrariato per i ritardi con cui la proposta è arrivata sul suo tavolo e per i tempi stretti (4 giorni) per valutare la stessa e non convinto – alla luce del parere dell’Energy manager – della bontà delle soluzione contenute nel contratto elaborato dall’Ufficio tecnico, non firma.

E’ a questa mancata firma che – ha denunciato successivamente e pubblicamente – ricollega “certi attacchi che gli sono giunti da più parti”.

I tempi stringono. Ma la proposta di delibera rimane immutata.

Il 18 dicembre 2020 l’ingegnere Trifiletti informa il manager La Paglia che il termine ultimo per la stipula del contratto con Edison è il 22 dicembre 2020, trascorso il quale l’azienda decade da questa possibilità.

Qualche giorno prima, Trifiletti aveva prospettato allo stesso La Paglia che, in caso di mancata stipula del contratto, l’azienda avrebbe potuto subire un danno di 2 milioni di euro all’anno.

La Paglia, però, è irremovibile.

Ordina agli uffici di formulare una proposta di delibera per la proroga del contratto con Engie Servizi Spa (ex Cofely Italia), 

Che arriva il 24 dicembre e viene firmata anche da Catena Di Blasi.

Qualche giorno dopo, il direttore generale notifica la sospensione per sei mesi alla Di Blasi che egli stesso aveva nominato un anno e mezzo prima evidentemente perché ne conosceva le competenze tecniche.

Secondo La Paglia, chi è a capo e coordina l’attività amministrativa di tutti gli uffici è il responsabile dei ritardi e degli errori nella procedura che doveva portare alla stipula del contratto con Edison Spa.

 

La difesa della direttrice sospesa

Rimanendo a quelli che sono i motivi su cui la sospensione è fondata, la Di Blasi dal canto suo   – è facile dedurlo dalla ricostruzione della vicenda attraverso alcune delibere –  non avrà difficoltà a sostenere davanti al giudice del Lavoro, dov’è finito il contenzioso, che in realtà gli uffici (ovvero l’Ufficio Tecnico di Trifiletti) avevano partorito la proposta di delibera per la stipula del contratto con Edison Spa il 23 novembre 2020, in tempo assolutamente utile e sufficiente per consentirne l’esame al direttore generale.

Di conseguenza, se la delibera non è stata sottoscritta dal direttore generale – secondo la tesi della Di Blasi – è solamente per sua scelta arbitraria.

In ogni caso, le ipotetiche ed eventuali problematicità di merito in essa contenute che hanno sconsigliato La Paglia dall’esprimere il consenso non sono attribuibili alla sua responsabilità non rientrando nelle sue competenze, ma in quelle di tipo tecnico proprie della struttura di Trifiletti..

 

Quando si confondono lucciole per lampioni

In effetti, a andare indietro nella storia di questo travagliato appalto milionario, Catena Di Blasi un “no” al direttore generale lo oppose.

Era il dicembre del 2019, oltre un anno prima, non “poco tempo prima”.

La Engie Spa a primi del 2019, ad un anno dalla scadenza del contratto, propose di rinegoziare (cosa diversa dalla proroga secca) i termini del contratto. 

Partì così una procedura durata mesi, che impegnò vari uffici dell’Asp 5.

La proposta di Engie Spa includeva lavori di efficentamento energetico di tutti i presidi ospedalieri, la riduzione del canone e, in cambio, l’allungamento di altri 10 anni del contratto.

L’ufficio legale dell’Asp diede il suo via libera alla percorribilità giuridica dell’operazione poiché la rinegoziazione era prevista dalla legge per gli appalti di servizio di energia, ma si rimise tuttavia agli uffici tecnici per la valutazione della convenienza economica della stessa.

L’ufficio tecnico di Trifiletti avanzò forti dubbi. L’Energy Manager Carlo Olivo al contrario espresse tutto il suo favore.

La proposta venne rimodulata da Engie Spa, su richiesta dell’Asp 5.

L’Enea (Ente nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico) diede parere positivo alla convenienza economica dell’operazione.

Il direttore generale La Paglia si convinse della bontà dell’operazione “rinegoziazione”, istituto tuttavia oggetto sotto il profilo giuridico di varie disquisizioni in dottrina e di contenziosi davanti all’Anac, l’Autorità anticorruzione. 

A fine dicembre del 2019 la proposta di delibera di rinegoziazione è pronta: a elaborarla l’Ufficio Economico finanziario diretto da Pietro Frassica e non quello Tecnico, esautorato dalla procedimento dopo aver fatto pervenire – nella prima fase della procedura – dei rilievi negativi.

Catena Di Blasi ritenendo che l’operazione non fosse conforme alle legge nega la sua firma. La stessa posizione la assume l’allora direttore sanitario Domenico Sindoni.

Qualche giorno prima, agli inizi di dicembre, era giunta notizia della possibilità per gli enti pubblici siciliani di avvalersi dei risultati della gara Consip, aggiudicata a Edison Spa.

Il direttore generale avrebbe potuto firmare da solo la delibera essendo il legale rappresentante dell’azienda, ma non se ne assunse la responsabilità.  

La rinegoziazione sfuma. Il rapporto di fiducia e la direttrice amministrativa si incrina.

Parte così la procedura per la stipula del contratto con Edison che ancora non si è conclusa.

 

Dietrologie… sul terreno della follia

C’è una relazione tra il no del dicembre del 2019 della Di Blasi e la sua sospensione decretata da La Paglia a gennaio del 2021?

Cioè è ipotizzabile che il manager l’abbia voluta punire per lo sgarbo subito un anno prima?

E, ancora andando appresso a tesi ancora più dietrologiche, è ipotizzabile che La Paglia nel 2020 abbia artatamente negato la firma alla delibera di stipula del contratto con Edison Spa per legittimare l’ennesima proroga a Engie Spa, con cui già voleva sposare l’Asp 5 12 mesi prima per altri 10 anni? Ed è ipotizzabile lo abbia fatto in modo da scaricare le responsabilità sulla Di Blasi, che invece alla rinegoziazione con Engie Spa si era opposta 12 mesi prima? 

Chi è dalla parte della direttrice amministrativa o “odia” il manager ennese sempre più delegittimato anche dalla campagna di denigrazione portata avanti dal sindaco Cateno De Luca, ritiene che a queste domande si possa o si debba dare una risposta positiva.

A lume di logica, però, per poter sostenere queste tesi è necessario affermarne almeno un’altra.

La Paglia è così coraggioso e freddo che, nonostante sia nell’occhio del ciclone da mesi e mentre è in corso un’ispezione regionale sul suo conto, pur di realizzare questo suo diabolico piano accetta di determinare un danno all’azienda di cui è legale rappresentante e di esporre conseguentemente se stesso a responsabilità erariale e disciplinare. 

Se fosse così, per dirimere il contenzioso tra i due manager non di avvocati  e giudici ci sarebbe bisogno, ma di psichiatri di ottimo livello o forse, meglio ancora, di neuropsichiatri infantili.

 

Difetti di procedura

Il giudice del Lavoro tuttavia potrebbe ordinare la reintegrazione della Di Blasi senza entrare nel merito della fondatezza delle censure mosse da La Paglia (e senza nominare consulenti medico legali).

Infatti – secondo certa giurisprudenza – la sospensione del direttore amministrativo ha natura sanzionatoria e prima di adottarla è necessario consentire alla parte di difendersi esponendo le proprie ragioni. Ciò che nel caso di specie non è accaduto.

 

Caso Bisognano: Il Tribunale amministrativo del Lazio avalla la revoca del programma di protezione e “condanna” l’ex boss di Barcellona a rimanere in carcere. Da collaboratore di giustizia si faceva beffa dello Stato e commetteva reati. Per il suo legale Fabio Repici è però vittima di un complotto

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Carmelo Bisognano

Il suo legale Fabio Repici, al contempo legale di varie associazioni e di familiari di vittime della mafia, denuncia da anni a destra e manca sia stato vittima di un complotto.

Ma anche per il Tribunale amministrativo regionale del Lazio Carmelo Bisognano, il boss della mafia di Barcellona, autore di crimini efferati, dal 2010 collaboratore di giustizia, deve rimanere in carcere.

Più specificamente, l’organo di giustizia amministrativa di primo grado con sentenza depositata il 18 gennaio 2021 ha ritenuto giustificata e legittima la revoca del programma di protezione.

Questo, infatti, in concreto significa per il collaboratore di giustizia non poter godere dei benefici economici e delle misure alternative al carcere (ovvero a vivere pressoché libero e protetto benché riconosciuto colpevole di efferati delitti), obiettivo principale di chi, sicuro di essere condannato a lunghissimi periodi di detenzione, decide di “pentirsi” .

Bisognano, infatti, sta scontando una condanna passata in giudicato a 13 anni di reclusione rimediata nell’ambito del processo Gotha per omicidio e associazione mafiosa. E attende l’esito di altri processi che lo vedono imputato di reati molto gravi, alcuni commessi mentre da collaboratore di giustizia godeva di stipendio e protezione dello Stato, che gli pagava pure i due legali.

Una revoca ritardata

La revoca del programma di protezione fu decisa dalla Commissione centrale su richiesta della Direzione nazionale e della Direzione distrettuale antimafia di Messina l’1 agosto del 2017, a distanza di quasi un anno mezzo dagli arresti scattati il 16 maggio del 2016.

Bisognano, invece, era stato arrestato su richiesta degli stessi magistrati della direzione distrettuale antimafia, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, che ne curarono sin dall’inizio la collaborazione importante per fare luce su delitti rimasti impuniti e mettere alla sbarra decine di affiliati al clan.

Era indiziato dei gravissimi reati di intestazione fittizia di beni, di tentata estorsione, di accesso abusivo al sistema informatico, violazione del segreto d’ufficio false dichiarazioni ai difensori nell’ambito di indagini difensive.

Tuttavia, dal giorno degli arresti e per 15 mesi Bisognano mantenne il programma di protezione nonostante per legge la semplice violazione degli obblighi di condotta assunti dal collaboratore ne debba determinare la revoca, anche se gli inadempimenti dello stesso non sfocino in reati penali.

I giudici del Tribunale amministrativo in un passaggio della sentenza spiegano: “Ciò che appare accertato, e non contestabile, è che le condotte poste in essere dal ricorrente integrano fatti di rilevante gravità (…) Non vi è dubbio che sia imputabile al ricorrente il venire meno, reiteratamente, agli obblighi assunti, perseverando in condotte criminali anche nella vigenza di un programma di protezione che rappresenta un costo elevato per la comunità sia in termini economici che di impiego di personale, oltre a metterne a rischio la sicurezza“.

In precedenza, lo stesso Tar e il Consiglio di Stato avevano rigettato l’istanza cautelare degli avvocati di Bisognano, Biagio Parmaliana e dello stesso Repici.

Bisognano, rimasto senza programma di protezione e recluso quindi in carcere, in attesa che si pronunciassero i giudici penali e amministrativi, ha continuato a collaborare.

Il ministero degli Interni, a tutela della sua incolumità gli garantisce la scorta e speciali misure di protezione.

 

Incastrato alla Vecchia Maniera

Tra il 2015 e il 2016, gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo scoprirono che Bisognano dalla località protetta, in cui peraltro si muoveva a suo piacimento, usando il fidato collaboratore Angelo Lorisco, aveva costituito una società e, sotto mentite spoglie, aveva ripreso l’attività di impresa, grazie all’aiuto di Tindaro Marino. Quest’ultimo,imprenditore di Gioiosa Marea era sottoposto anch’egli alla misura di prevenzione patrimoniale ed era già condannato in secondo grado per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo poi – secondo gli accertamenti investigativi – Bisognano, tramite lo stesso Lorisco, strumentalizzando il ruolo di collaboratore, aveva preso di mira i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda: nei loro cantieri cominciò a presentarsi assiduamente Lorisco, che spendendo il nome di Bisognano e minacciando dichiarazioni sul loro conto chiedeva utilità di varia natura.

La Procura, oltre all’intestazione fittizia di beni, infatti, a Bisognano e Lorisco contestò il tentativo di estorsione, consistito nell’aver preteso di far lavorare i propri mezzi negli appalti che i Torre avevano in corso di esecuzione.

Qualche tempo dopo Bisognano è stato riconosciuto colpevole del reato di intestazione fittizia di beni e di tentata estorsione in primo e secondo grado e condannato a 5 anni di reclusione: attende di giocarsi le ultime carte in Cassazione.

Nel frattempo, è finito sotto processo a Barcellona per un’altra ipotesi di estorsione, questa volta consumata, sempre ai danni degli stessi imprenditori Torre e sempre commessa da collaboratore di giustizia. Sfuggita in un primo tempo alla Procura, è oggetto di un giudizio pendente in primo grado.

Ancora, al Tribunale di Rieti Bisognano è alla sbarra per accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio.

Sempre dalle indagini del commissariato di Barcellona emerse che due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento con i suoi due legali Fabio Repici e Mariella Cicero e anche con altri collaboratori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

 

La “truffa” a Tindaro Marino

Le intercettazioni dell’Inchiesta Vecchia Maniera disvelarono che Bisognano in cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, si era impegnato nell’ambito di indagini difensive a fare nuove e diverse dichiarazioni favorevoli all’imprenditore di Gioiosa Marea, in modo da alleggerirne la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Al momento della richiesta di misura cautelare, i due sostituti Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato le dichiarazioni rese da Bisognano in precedenza sul conto di Marino con quelle rese il 30 settembre del 2015 al difensore di Marino, Salvatore Silvestro (presenti i difensori del collaboratore Fabio Repici e la collega di studio Mariella Cicero) si erano convinti che questi avesse cambiato effettivamente le dichiarazioni, depositate effettivamente in Cassazione e nel giudizio di prevenzione dal legale di Marino.

Dello stesso avviso Monica Marino, il Gip che accolse la richiesta di misure cautelari.

E’ stato lo stesso collaboratore di giustizia nell’interrogatorio di garanzia ad ammettere: “Mi sono messo d’accordo per modificare le dichiarazioni, ma poi non l’ho fatto”.

Proprio a seguito di questa giustificazione, i due pubblici ministeri cambiarono idea chiedendo per questo capo di accusa l’archiviazione.

Il Gip Monica Marino rimase della sua idea. Ha rigettato e ordinato l’imputazione coattiva: “Le dichiarazioni sono state cambiate per interessi economici”, scrisse il Gip Marino dopo aver messo ancora una volta a confronto le dichiarazioni.

Tre mesi dopo, il 17 novembre del 2017, un altro Gip del Tribunale di Messina Simona Finocchiaro accolse la richiesta di archiviazione ribadita dai due sostituti della Dda.

In conclusione, a seguire le conclusioni dell’inchiesta su questa imputazione, Bisognano “truffò” il suo “socio finanziatore” Tindaro Marino.

 

In attesa di novità da Reggio Calabria

 

L’ex boss di Barcellona attende pure l’esito del giudizio di appello del processo Sistema, nato dalle dichiarazioni di Maurizio Marchetta, l’imprenditore di Barcellona che nel 2008 inizio a collaborare con gli inquirenti della squadra mobile, spiegando tra le altre cose di essere vittima del clan guidato da Bisognano.

Fu a seguito degli arresti nell’ambito dell’inchiesta Sistema fondata sulle dichiarazioni di Marchetta che Bisognano decise di collaborare con la giustizia. 

In primo grado, Bisognano fu condannato a 8 anni di reclusione in abbreviato. In appello fu assolto in quanto Marchetta fu ritenuto non attendibile.

Ma la Corte di cassazione ritenendo che sul punto della inattendibilità di Marchetta i giudici messinesi non avessero motivato logicamente e adeguatamente, ha annullato con rinvio a Reggio Calabria, dove verrà celebrato il processo d’appello. 

 

Il complottismo da operetta

Tuttavia, per il legale Fabio Repici che, insieme alla collega di studio Mariella Cicero, sin dall’inizio della collaborazione lo ha assistito, Bisognano è vittima di un complotto ordito dal commissario Ceraolo, dall’avvocato Ugo Colonna, da Saro Cattafi, l’avvocato di Barcellona accusato da Bisognano di essere stato il capo della mafia di Barcellona sino al 2012 e tuttavia assolto, e dal legale di quest’ultimo, Salvatore Silvestro.

Il collaboratore – a tirare le fila delle accuse di Repici – violava la legge – come hanno stabilito decine di giudici penali e amministrativi – per fare una cortesia ai protagonisti del complotto. 

Repici ha indicato una delle possibili finalità del complotto: “E’ stata un’operazione tesa a fare conseguire a Cattafi l’impunità”, ha ripetuto più volte, anche sfidando la logica, senza offrire né fatti, né elementi di prove.

 

Il complottismo alla prova della cronologia

Le dichiarazioni accusatorie Bisognano su Cattafi sono state ritenute non riscontrate né credibili dalla Corte d’appello di Messina che, riformando la condanna di primo grado, ha assolto Cattafi dall’accusa di essere stato non solo capo della mafia ma anche semplice affiliato dal 2000 in poi.

La sentenza della Corte d’appello, che successivamente ha avuto l’avallo della Corte di Cassazione, è del 24 novembre del 2015, di 7 mesi prima che Bisognano fosse arrestato nell’ambito di Vecchia Maniera e si conoscessero le imprese che realizzava mentre era collaboratore di giustizia.

 

Covid, emergenza sprechi: l’Asp 5 assume decine di medici a 40 euro all’ora ma lascia da 7 mesi inoperosi 9 medici dei Presidi di primo intervento. I sanitari aspettano i pazienti nei due ambulatori della città in cui però è vietato entrare

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Il poliambulatorio di via del Vespro sede di un Ppi dell’Asp 5 di Messina

 

Da 7 mesi, dall’estate scorsa, non hanno alcuna incombenza quotidiana se non aspettare che passino i secondi, i minuti, le ore di servizio. E poi controllare a fine mese che sul conto corrente giunga regolarmente la paga dell’Azienda sanitaria provinciale di Messina.

Sono i medici dei due Ppi, Punto di primo intervento, della città di Messina: strutture aperte dalle 8 di mattina alle 20 di sera, che nella logica della politica sanitaria regionale dovrebbero assicurare l’assistenza sanitaria ai casi più semplici, in modo da impedire l’afflusso incontrollato ai Pronto soccorso degli ospedali, riservati ai casi più gravi e urgenti.

Mentre l’Asp 5 – guidata da Paolo La Paglia (e tutte le altre aziende del servizio sanitario regionale) – ha messo sul libro paga a 40 euro all’ora centinaia di medici e infermieri senza o con poca esperienza per fronteggiare l’emergenza (infinita) Covid 19, che a Messina e in Sicilia non c’è stata, e altri ne sta assumendo ora che l’emergenza viene rappresentata dai media locali e dal sindaco di Messina Cateno De Luca, 9 medici con anni di esperienza sulle spalle rimangono inoperosi.

La ragione? Gli ambulatori in cui prestavano servizio nel marzo scorso vennero chiusi al pubblico come misura precauzionale per evitare il diffondersi del contagio. Non sono mai stati riaperti, neppure nel periodo estivo, e gli operatori in servizio sono stati impiegati nelle attività funzionali al contenimento del contagio solo per il periodo iniziale della pandemia.

Basta fare un giro negli immobili dell’Asp 5 di via Del Vespro e di Pistunina che ospitano i due ambulatori per verificarlo. 

Alla porta c’è scritto: “Il servizio è sospeso”.  Appena la porta si schiude si intravedono i medici di turno presenti. 

Insomma, sono medici  pagati per prestare assistenza a pazienti che non possono accedere nei locali in cui dovrebbero effettuare le visite e prescrivere le cure.

Per completezza, oltre ai due presenti in città c’è un Punto di primo intervento per ognuno degli altri 5 distretti sanitari in cui è suddivisa l’Asp 5:Taormina, Patti, Barcellona, Milazzo e Sant’agata Militello.

Tutti e cinque i Ppi sono egualmente chiusi al pubblico dall’inizio della pandemia.

Cinque medici per 5 distretti sanitari fanno altri 25 medici.

Se dall’estate scorsa siano inoperosi come quelli di Messina o svolgono attività che non è propriamente tipica dei medici, chi scrive non è stato in grado di accertarlo con sicurezza.

Il motivo? L’emergenza Covid 19.

Emergenza Covid ingigantita e trovate “ridicole”: il sindaco di Messina Cateno De Luca supera persino il presidente della Regione Nello Musumeci

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Cateno De Luca e Nello Musumeci

Attività sportiva limitata solo nelle fasce orarie tra le 8 e le 10 di mattino o le 18 e le 20 di sera, ricevimento dei clienti negli studi professionali concentrato entro le ore 16.

Facciamo pure finta, dando retta agli spargitori di terrore travestiti da giornalisti, che a Messina si sia in presenza di un’emergenza sanitaria inattesa (a dieci mesi all’inizio dell’emergenza) che richieda misure ancora più drastiche di quelle della zona Rossa in cui si trova la Sicilia. Ma non è assolutamente così: i dati dei contagi, della mortalità e dei ricoveri ad oggi sono migliori di quelli di tutte le altre più grandi città siciliane. 

Facciamo pure finta che un qualunque sindaco di uno degli ottomila comuni italiani possa dettare regole più restrittive delle libertà personali di quelle emanate con l’ausilio di tecnici e comitati scientifici dal Governo per contenere il virus. Ma non è esattamente così: la giurisprudenza di tutti i Tar d’Italia, tranne quelli siciliani (chissà perché), è approdata a conclusioni esattamente opposte.

Qualcuno riesce a spiegare, a lume di buon senso e logica, perché – come stabilisce l’ultima ordinanza del sindaco Cateno De Luca – far giungere negli studi professionali decine di persone entro le 16 e farli poi aspettare tutti insieme sino alle 20 in modo da poterle ricevere riduca la possibilità di contagio?

Qualcuno riesce a spiegare perché correre da soli ma tutti di mattino presto o alla sera, nelle ore più fredde della giornata o mentre piove, riduca le (nulle) possibilità di contagio in ipotesi (per De Luca) esistenti invece se ciascuno decidesse di correre nei momenti più caldi della giornata o più propizi?

Forse Cateno De Luca oltre a fruire dello straordinario aiuto degli scienziati del diritto gode anche della consulenza di inarrivabili luminari della medicina e dell’epidemiologia, pronti a giustificare queste (ennesime) misure bislacche?

La cosa in terra sicula non stupirebbe.

Nello Musumeci la primavera scorsa in una delle innumerevoli ordinanze per motivare l’introduzione del divieto di attività sportiva, consentita tuttavia dalla normativa nazionale, scrisse: “Studi scientifici dimostrano che chi fa attività sportiva si stanca e così s’indeboliscono le difese immunitarie e maggiori sono le possibilità se positivo di finire in ospedale”.

De Luca ha assoldato gli stessi super scienziati, con l’impegno a consigliargli misure più ridicole di quelle adottate da colui di cui vorrebbe prendere il posto a Palazzo d’Orleans?

E’ una gara a chi spara la cosa più illogica? 

E, infine, un’ultima domanda.

Il prefetto Maria Carmela Librizzi, rappresentante a Messina del Governo nazionale, lo stesso che adotta da mesi i Decreti legge e i Dpcm che De Luca viola un giorno si e l’altro pure senza che la stessa abbia nulla da dire, ha almeno convocato un tavolo tecnico, uno di quelli che inutilmente si svolgono ogni giorno nei suoi uffici, per farsi almeno rivelare il nome di questi insigni scienziati?

Al cospetto di quest’ultimi, la sensazione di vivere nella città della follia di un paese precipitato nel caos quantomeno si stempererebbe un pò.

 

“A Messina la scuola non s’ha da fare”: Cateno De Luca continua a negare il diritto all’istruzione e alla socialità dei più giovani alimentando la propaganda del terrore. Eppure, il Tar Calabria esclude la competenza dei sindaci. Ecco cosa ha stabilito

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Prima il sindaco Cateno De Luca: a ottobre, novembre e dicembre; poi, come regalo della Befana, ci ha pensato il Presidente della regione, Nello Musumeci, su richiesta del commissario dell’emergenza Covid, Maria Grazia Furnari. Infine, da oggi 18 gennaio e sino al 31, ancora di nuovo il primo cittadino.

A Messina, “la scuola non s’ha da fare”, di nessun ordine e grado.

Mentre in tutte le altre città d’Italia, i bambini della scuola dell’infanzia, delle elementari e della prima media frequentano regolarmente le scuole, anche se la loro regione è inserita in zona rossa, quella di massima allerta e di elevato rischio epidemiologico, nella città dello Stretto, invece, a partire dalla fine di ottobre, le porte delle istituzioni scolastiche sono state serrate e tali sono rimaste anche nei periodi in cui la Sicilia è stata classificata zona arancione.

Tutto merito del sindaco.

Per Cateno De Luca, i diritti costituzionali all’Istruzione, alla socialità e allo sviluppo armonioso dei più giovani, funzionali al principio di uguaglianza, contano zero. Praticamente dal marzo scorso a Messina i ragazzi messinesi hanno trascorso non più di una quindicina di giorni sui banchi della scuola.

Eppure, la legge di emergenza e tutto l’apparato normativo messo in piedi (sulla scorta di valutazione di scienziati ed esperti, nel contemperamento dei valori in gioco) per contenere la diffusione del coronavirus sono chiari.

La scuola, nel rispetto delle regole di sicurezza, anche nelle regioni in cui c’è il massimo grado di rischio sanitario (rosse) devono rimanere aperte: a meno che non si individuino (ci devono essere, non basta siano probabili) dei focolai specifici nelle scuole o nelle classi e non sia possibile contenere il contagio chiudendo le sole classi o gli istituti interessati.

Ma ciò che è vincolo di legge per gli ottomila sindaci di Italia, per Cateno De Luca è soltanto inchiostro sprecato che egli con le sue ordinanze, a suo piacimento, deroga  e cancella. Nessuno protesta se non quando vengono toccati interessi economici; il prefetto Maria Carmela Librizzi lascia correre. 

A novembre per giustificare la chiusura delle scuole ha strumentalizzato le carenze in capo all’Asp 5 di Messina nel tracciare i contagi in città, cosa questa che – come scrive l’Istituto superiore di Sanità – si è verificata in tutta Italia.

Nelle scuole messinesi poi, a dire del sindaco, il fatto che non si trovassero abbastanza positivi era ascrivibile sempre a inefficienze dell’azienda sanitaria. La prova infatti, sarebbe stata nel fatto che la polizia giudiziaria della polizia municipale ha scovato, non si è ben capito come, più positivi di quelli individuati tramite tampone dal Dipartimento di prevenzione dell’Asp -proprio cosi ha scritto per motivare l’ordinanza “cancellascuole” – : dal 26 ottobre al 21 dicembre 130 positivi in tutte le scuole (tra decine di migliaia di persone, tra studenti docenti e operatori). Davvero un record allarmante.

Oggi, alla base della chiusura c’è il terrore che con l’aiuto dei giornalisti sparge da settimane strumentalizzando l’ aumento del numero delle morti di persone anziane e i numeri della positività al virus. Detto per inciso, si tratta di numeri tutt’altro che più alti – in percentuale – rispetto a quelle di altre città italiane e siciliane dove le scuole sono regolarmente aperte. Ma questo è diverso tema che merita altro spazio.

Nessun sindaco rispettoso delle istituzioni, infatti, si sogna di chiudere tutte le scuole nelle città d’ Italia che hanno dati di contagio e di mortalità molto più allarmanti di Messina, mentre peraltro il Governo con Decreto legge ha previsto la riapertura graduale delle scuole superiori, chiuse (solo quelle) qualunque sia il colore attribuito alle regioni.

Infatti, non si è sognato sinora di chiuderle il sindaco di Palermo (se non per un paio di giorni), né quello di Catania.

Nella vicina Calabria, qualche “sindachetto” in cerca di notorietà ha provato a negare il diritto all’istruzione, forse dopo aver assistito agli show di De Luca in televisione da Barbara D’Urso e nella speranza di essere invitato anch’egli.

Ma il Tribunale amministrativo regionale, presieduto da Giancarlo Pennetti, cui si sono rivolti un gruppo di genitori, ha spazzato via questi provvedimenti stabilendo che in materia di misure di contenimento del Covid e in specie di chiusura delle scuole il sindaco ha poteri di manovra limitatissimi.

Si trattava, nella specie, dell’ordinanza di chiusura delle scuole di Paola fondata sulle stesse argomentazioni con cui De Luca ha chiuso le scuole a Messina a novembre e lo fa oggi.

Ecco cosa ha spiegato con sentenza del 18 dicembre il Tar (n° 02077/2020 Reg.Provv.Coll; n°. 01346/2020 Reg. Ric.), vigente la stessa normativa di oggi:

“(….) Nel contesto dell’epidemia in corso, dove è stato già messo in atto un articolato sistema di risposta all’emergenza, con l’adozione di misure di mitigazione del rischio epidemico via via più restrittive a seconda della concreta situazione del territorio regionale, il potere di ordinanza sindacale è quindi limitato ai casi in cui sia necessaria una risposta urgente – che vada al di là delle misure adottate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, dai Ministri competenti ed, eventualmente, dalle singole Regioni – a specifiche situazioni che interessino il territorio comunale.

– In altre parole, il Sindaco non può sostituire il proprio apprezzamento, per quanto prudente e ponderato, alla valutazione epidemiologica e al bilanciamento degli interessi operato dall’Autorità governativa ed, eventualmente, dalle singole Regioni.

Innanzitutto perché, contrariamente opinando, la naturale pluralità di misure adottate dai sindaci minerebbe la risposta unitaria e organica a una crisi sanitaria di carattere planetaria; non a caso, proprio con riferimento all’emergenza sanitaria attualmente in atto, il Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che “in presenza di emergenze di carattere nazionale (…), pur nel rispetto delle autonomie costituzionalmente tutelate, vi deve essere una gestione unitaria della crisi per evitare che interventi regionali o locali possano vanificare la strategia complessiva di gestione dell’emergenza, soprattutto in casi in cui non si tratta solo di erogare aiuti o effettuare interventi ma anche di limitare le libertà costituzionali” (Cons. Stato, Sez. I, parere 7 aprile 2020, n. 735).

Ma soprattutto perché, sul piano strettamente normativo, non sussistono quegli ambiti di “vuoto ordinamentale” nel contesto del quale è ammissibile l’esercizio di poteri contingibili e urgenti.

Invero, come è stato acutamente osservato dalla dottrina costituzionalistica, nell’odierno contesto emergenziale, una volta intervenuti i decreti governativi, non è preclusa l’adozione di ordinanze sindacali, ma il potere di ordinanza non può sovrapporsi ai campi già regolati dalla normazione emergenziale dello Stato, restando libero di intervenire solo in quelli lasciati scoperti (ancorché con il limite del necessario rispetto del bilanciamento tra principi e diritti costituzionali diversi operato in sede centrale) e in presenza di specifiche esigenze locali.

– In sintesi, nel contesto dell’emergenza derivante dall’epidemia di Covid-19, l’ordinanza contingibile e urgente è adottabile dal sindaco a fronte di situazioni proprie del territorio comunale, che, per la loro specificità o per la loro improvvisa manifestazione non sono state considerate in sede di adozione delle misure a carattere nazionale o regionale.

Va da sé che a monte dell’adozione di tale provvedimento extra ordinem vi deve essere un’istruttoria adeguata, basata su dati oggettivi e scientificamente attendibili, e una motivazione congrua (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 29 maggio 2019, n. 3580).

 – Ciò è ancor più vero con riferimento alle modalità di istruzione scolastica, laddove vi è a monte la decisione, contenuta del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di continuare a consentire lo svolgimento in presenza della scuola dell’infanzia, della scuola primaria, dei servizi educativi per l’infanzia, del primo anno di frequenza della scuola secondaria di primo grado, anche nelle Regioni con il più alto rischio epidemiologico.

E laddove vi è una puntigliosa regolamentazione delle modalità di svolgimento delle lezioni, intesa a minimizzare il rischio di contagi.

In questa materia, dunque, i vari interessi coinvolti, quello alla salute, quello all’istruzione, quello allo svolgimento della personalità dei minori e degli adolescenti in un contesto di socialità, sono stati bilanciati e ricomposti a livello nazionale, peraltro con modalità tali da garantire una flessibile risposta ai diversi gradi di emergenza epidemiologica.

 – In proposto, il Tribunale deve ricordare che, se è innegabile che il diritto alla salute è al vertice dei diritti sociali, perché consente all’individuo di godere delle libertà e degli altri diritti che la Repubblica riconosce, nondimeno il diritto all’istruzione si colloca poco dietro.

Esso è il principale strumento con cui lo Stato provvede, ai sensi dell’art. 3, comma 2, a rimuovere, specie nei territori più svantaggiati, gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Attraverso l’istruzione, inoltre, si hanno più ampie prospettive di accesso al lavoro su cui la Repubblica è fondata.

– Dunque, il bilanciamento tra i due diritti in un contesto di epidemia non può essere demandato all’intervento, per sua natura episodico e frammentario, dei Sindaci, i quali avranno potere di emettere ordinanza contingibile e urgente negli scarsi “spazi liberi” la sciati dalla regolamentazione nazionale e con i limiti già sottolienati.

– Peraltro, non si può omettere di ricordare che il principio di precauzione, cui pure questo Tribunale ha riconosciuto un rilievo primario (cfr. la già citata sentenza del maggio 2020, n. 841), non può essere invocato oltre ogni limite, ma secondo il principio di proporzionalità, come ricordato tanto dall’insegnamento, nelle materie di competenza dell’Unione europea, dalla Corte di Giustizia (cfr. CGUE, Sez. I, 9 giugno 2016, in causa C-78/2016, Pesce), tanto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale  (Corte cost., 9 maggio 2013, n. 85, sul bilanciamento tra valori dell’ambiente e della salute da un lato e della libertà di iniziativa economica e del diritto al lavoro dall’altro).

Dunque, la doverosa necessità di tutelare la salute non può risolversi in una tirrania di questo diritto rispetto alle altre libertà e agli altri diritti fondamentali, dovendosi ricordare che tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri (ancora Corte cost. n. 85 del 2013) (…..)”.

Il caso: Giornalisti per impedire la diffusione del Covid-19 a Messina, l’interpello “impossibile” del direttore generale dell’Asp 5 Paolo La Paglia. Il diktat al manager della segretaria provinciale del sindacato Assostampa Graziella Lombardo

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Il manager Paolo La Paglia

Ci possono essere pubblici dipendenti che siano al contempo iscritti all’albo dei giornalisti professionisti?

La risposta è ovvia e negativa per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con le norme di diritto e con la logica.

Tuttavia, per il direttore generale dell’Asp 5 di Messina, Paolo La Paglia (e per i suoi stretti collaboratori) ciò che per l’ordinamento è vietato all’interno dell’azienda che dirige sarebbe possibile.

Il manager infatti all’indomani del servizio della Rai che raccontava del reparto di terapia intensiva fantasma dell’ospedale di Barcellona, su direttiva dello stesso assessorato regionale alla Sanità, ha deciso di assumere due giornalisti, due in un colpo solo, come addetti stampa: fondamentali evidentemente per il contenimento della diffusione del Covid 19 e per il buon funzionamento del servizio sanitario.

Prima, però, ha dovuto procedere – come prevede la legge (art. 7, co. 6 Dlgs 165/2001) al fine di  evitare un inutile aggravio di spesa e non andare incontro a contestazione di danno erariale – a verificare se tra i 5 mila dipendenti (o tra i duemila amministrativi) dell’azienda sanitaria ci fosse qualcuno (e qualcuno c’è) con i titoli, disponibile ad assumere questo incarico.

Se ci fosse stato allora avrebbe dovuto dare precedenza agli interni e non avrebbe potuto bandire la procedura selettiva.

L’avviso interno però è un esempio mirabile di assurdità giuridica e un segno chiaro, tra gli altri, che all’Asp 5 più che giornalisti servono persone competenti.

La Paglia, un passato da sindacalista, ha rivolto l’interpello a eventuali  dipendenti a condizione che fossero solo e soltanto giornalisti professionisti iscritti al relativo albo che raccoglie solo coloro che hanno conseguito l’abilitazione nazionale.

Ovviamente, l’interpello è andato deserto.

La legge professionale obbliga chi è dipendente pubblico a cancellarsi dall’albo dei professionisti (optando, volendo, per quello dei pubblicisti) o ne vieta comunque iscrizione.

Andata a vuoto la selezione interna, il manager ha così proceduto a pubblicare il bando diretto a reclutare giornalisti esterni.

Richiederà soltanto giornalisti professionisti, immaginerà il lettore.

No, vanno bene anche i pubblicisti, cioè coloro che sono iscritti ad altro albo, non avendo conseguito l’abilitazione.

Insomma, finché si trattava di trovarli all’interno dell’azienda al manager servivano professionisti iscritti al relativo albo (che non ci potevano essere) mentre se si cercano all’esterno vanno bene di qualsiasi lignaggio.

La procedura selettiva è ancora in corso.

I due giornalisti sono attesi con ansia da Maria Grazia Furnari, la super commissaria Covid inviata a Messina alla vigilia di Natale dal presidente Nello Musumeci e dall’assessore Ruggero Razza per gestire l’emergenza corononavirus, a distanza di un anno dall’inizio della stessa.

La manager lo ha specificato nel suo atto di strutturazione dell’ufficio straordinario datato 29 dicembre 2020: “I due giornalisti avranno il compito di instaurare un raccordo stabile con gli organi di informazione per un’adeguata comunicazione istituzionale”. Un impegno davvero gravoso quest’ultimo e decisivo per la buona riuscita della missione della commissaria.

A sollecitare con forza l’Asp 5 a dotarsi di un ufficio stampa è stata la segretaria provinciale di Assostampa, Graziella Lombardo, nell’occasione in cui è intervenuta per difendere i giornalisti della Rai autori del servizio sulla terapia intensiva di Barcellona e minacciati a caldo da La Paglia di querela. 

La responsabile del sindacato dei giornalisti che nella provincia di Messina conta una ottantina di iscritti (su 700 giornalisti presenti a livello provinciale nei due albi), ha attaccato: “L’Asp 5 come altre aziende sanitarie e ospedaliere del territorio, non ha ritenuto di dotarsi neppure di un ufficio stampa, come più volte richiamato da questa segreteria provinciale. I comunicati della stessa Asp risultano redatti in maniera abusiva da ignoti estensori, che violano apertamente le previsioni della legge 150 sulla comunicazione pubblica“, ha dichiarato la sindacalista.

Secondo la giornalista, che tra i suoi rappresentati ne ha alcuni che contemporaneamente scrivono sui giornali e (talvolta sotto mentite spoglie) fanno gli addetti stampa di sigle sindacali o politicanti di turno (in palese violazione, questa si, della legge professionale), quello che la legge 150 del 2000 prevede – basta andare a leggerla – come facoltativo, ovvero dotarsi di un ufficio stampa, è un obbligo; una nota inviata agli organi di informazione da un’azienda sanitaria che ha un vertice ben definito è “un comunicato stampa redatto in maniera abusiva da ignoti estensori”, quindi – si inferisce – privo di ogni valore.

Insomma, per la rappresentante di Assostampa o un’azienda sanitaria pubblica ingaggia – pagandoli con i soldi dei contribuenti – dei giornalisti o quello che comunica per informare la gente vale poco o nulla.

 

 

Anziani “carne da macello” nel business delle case di riposo: se il “colpevole” si traveste da Pubblico ministero. Il sindaco Cateno De Luca accusa anche per questo l’Asp 5. Ma le vere responsabilità si annidano proprio a Palazzo Zanca

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Il sindaco/ufficiale giudiziario Cateno De Luca sfratta Il manager dell’Asp 5 Paolo La Paglia

 

L’Asp 5 di Messina a tutela degli anziani chiese all’allora sindaco di Messina, l’unica autorità competente in materia, di chiuderle immediatamente e i Nas dei carabinieri depositarono in Procura circostanziate informative di reato a carico dei titolari.

Otto anni dopo, l’emergenza Covid 19 ha disvelato il segreto di Pulcinella.

Le stesse case di riposo private per anziani da chiudere (22 secondo l’elenco trasmesso a Palazzo Zanca nel 2012), erano ancora tranquillamente aperte. A queste se ne sono aggiunte via via altre, egualmente fuorilegge, eppure operative, complice la distrazione del Comune.

Questi in sintesi i fatti.

Ma i fatti e i dati – come sta mostrando la propaganda del terrore – possono essere manipolati facilmente.

E’ accaduto allora che chi dovrebbe essere messo sul banco degli accusati,  si è travestito da tribuno della plebe.  

Il “colpevole”, cioè, ha vestito la toga di pubblico ministero di un processo tenuto nel teatro dell’assurdo.

 

Teatro dell’assurdo

Protagonista dell’opera d’arte il sindaco di Messina.

Per Cateno De Luca, procuratore generale dell’accusa appunto, la responsabilità di quanto è accaduto e sta accadendo nelle strutture per anziani è dei vertici dell’Asp 5 di Messina.

Dovrebbero essere fanculizzati”,  ha scritto, giusto per fare un esempio, in un forbito post di qualche settimana fa. “Se avessi avuto un genitore in quella casa di riposo abbandonato dalla maledetta burocrazia non so come avrei reagito. E Voi?“, ha domandato per arringare (istigare) la folla virtuale degli abitanti di face book, come fece contro i famigerati sciatori colpevoli di aver diffuso il contagio in città, che infatti non ci fu.

Ringrazio il mio assessore ai servizi sociali Alessandra Calafiore e Valeria Asquini presidente della nostra Messina social city per aver impedito che questi anziani diventassero carne da macello“, ha sottolineato.

Nonostante non era nostra competenza ci siamo occupati anche di questa vergognosa vicenda che stava per trasformarsi in tragedia“, ha concluso la sua requisitoria.

II pubblico (virtuale) al termine dell’invettiva ha pure applaudito.

La stampa ventriloqua del potere all’unanimità ha approvato.

Gli accusati – i vertici attuali dell’Asp 5 –  vittime della loro inadeguatezza hanno subito, silenti.

De Luca, svestita la toga e assunte le sembianze di ufficiale giudiziario,  alla vigilia di Natale ha notificato l’avviso di sfratto al direttore generale Paolo La Paglia, anche ma non solo per le presunte colpe sulle case di riposo.

La requisitoria di De Luca è chiaramente mistificatoria.

E’ infatti il Comune che per legge ha la vigilanza sulla case di riposo private, iscritte giustappunto ad apposito albo comunale. 

E’ al Comune che si propone la domanda per l’iscrizione all’albo.

E’ il Comune a dover disporre la verifica del possesso degli standards: questi ultimi sono previsti proprio a garanzia della sicurezza e della salute degli stessi anziani.

Più gli anziani vengono ammassati in strutture fatiscenti e meno personale è presente e maggiori sono i rischi per la salute degli ospiti.

E’ il sindaco ad avere la responsabilità politica e amministrativa dell’operato degli organi del Comune: De Luca è sindaco da due anni e mezzo, non da un giorno.

L’Asp 5, invece, non ha alcuna competenza, se non quella di rilasciare i pareri igienico sanitari ove richiesti dal privato o, su richiesta del Comune, di partecipare ai controlli.

Altra cosa – in  molti fanno confusione – sono le Residenze sanitarie assistite (Rsa), strutture sanitarie per anziani convenzionate con l’Asp 5 che ne ha la vigilanza e il controllo.

Segreto di pulcinella 

Che a Messina gli anziani fossero “carne da macello” – come ha scritto il sindaco De Luca – funzionali al business di privati che si lanciano in spericolate operazioni imprenditoriali, aprendo case di riposo prive dei requisiti strutturali e di personale imposti dalla legge, non è una scoperta dell’era dell’emergenza Coronavirus.

Il Covid 19 e la correlata propaganda del terrore che tiene in ostaggio da 9 mesi l’intera italia hanno avuto solo l’effetto di fare deflagrare il fenomeno.

Gli anziani, soggetti comunque fragili si sono ammalati, come accade ogni anno soprattutto nel periodo invernale. Nel clima di terrore, non appena uno di loro ha manifestato sintomi riconducibili al virus, il personale della case di riposo, nella stragrande maggioranza dei casi sottopagato e con scarsa preparazione, è entrato in fibrillazione ed è “scappato”.

I titolari sono stati così costretti a lanciare l’allarme. 

L’intervento delle pubbliche autorità a quel punto ha fatto emergere che la casa di riposo o non è iscritta all’albo o non rispetta gli standard.

Tra i 70 ospiti della casa di riposo, “Come d’incanto di Donatella Martinez,  si sono contati nella scorsa primavera 34 morti. 

Tra il 2010 e il 2012 il settimanale Centonove pubblicò una serie di inchieste a firma di Michele Schinella con tanto di nomi e cognomi per raccontare le illegalità che costellavano la giungla selvaggia della case di riposo e degli interessi che gravitavano attorno.

Le reazioni? Politici, sindacalisti, intellettuali (ora più che mai impegnati su face book) si mobilitarono preoccupati non per gli anziani ma per chi avrebbe potuto perdere il lavoro, peraltro sottopagato. Gli stessi familiari degli anziani manifestarono la preoccupazione per la chiusura delle strutture benché queste non garantissero la salute i loro cari.

I giornalisti, ora indignati, diedero loro ampio spazio.

A un dirigente del Comune, Salvatore De Francesco, incaricato di disporre una serie di chiusure venne un’idea geniale, che esplicitò pure in alcune interviste: “I titolari delle strutture se vogliono evitare la chiusura  presentino una Scia, Segnalazione di inizio attività, con cui dichiarino di iniziare ora l’attività e di possedere gli standards e il problema è risolto”.

Insomma, una sorta di invito a dichiarare cose false. Alcuni lo raccolsero: tanto i funzionari del Comune mai sarebbero andati a controllare se quanto dichiarato nella Scia fosse vero. 

Altri accettarono la cancellazione dall’albo, ma sicuri che nessun funzionario comunale sarebbe andato mai a controllarli hanno continuato a rimanere aperti. Nuovi imprenditori hanno investito nel settore, garantiti dalla stessa sicurezza.

Dell’inchiesta della Procura di Messina, innescata dalle informative dei Nas, si è persa ogni traccia.

Uno specchio per il sindaco

Se il pubblico ministero/tribuno della plebe De Luca volesse davvero capire come sia stato possibile che ci siano case di riposo che dovevano essere cancellate dall’albo nel 2012 e sono ancora iscritte nel 2020, o cancellate che hanno continuato ad operare o di nuova apertura e mai controllate, e di chi sia la responsabilità non ha bisogno di fare blitz a destra e manca, né di notificare avvisi di sfratto.

Basta che rimanga seduto alla sua scrivania di Palazzo Zanca, convochi qualche dirigente e, magari con l’ausilio dell’interprete per sordomuti, si domandi: “Ma il sindaco sapeva e ha fatto finta di non sapere o colpevolmente non si è occupato della questione?”

IL CORSIVO. Il capolavoro dei “gattopardi” e la credibilità dei magistrati: il sindaco De Luca attacca il manager La Paglia e il Governo regionale. Il presidente Musumeci e l’assessore Razza inviano a Messina il super commissario Covid Maria Grazia Furnari, cognata di Maurizio De Lucia, capo della Procura.

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L’assessore Ruggero Razza e Maria Grazia Furnari

 

Il sindaco di Messina Cateno De Luca ne ha chiesto con la solita violenza verbale la rimozione per manifesta incapacità nella gestione sanitaria dell’ emergenza Covid 19, denunciando inefficienze e disservizi dell’Asp 5: alcune sono già finite sul tavolo dei magistrati della Procura di Messina e altre sono state usate arbitrariamente dal primo cittadino per negare per settimane il diritto all’istruzione ai ragazzi della città.

Il presidente della Regione Nello Musumeci e l’assessore alla Sanità Ruggero Razza, a loro volta già destinatari di attacchi, non hanno accolto il diktat del sindaco/sceriffo ma non si sono neppure esposti per difendere il direttore generale dell’Azienda sanitaria provinciale 5 Paolo La Paglia, pur avendo la responsabilità politica dell’operato del manager.

Governatore e assessore, su richiesta dello stesso La Paglia, hanno percorso la terza via: una sorta di compromesso al ribasso dai risvolti inquietanti degno della migliore tradizione “gattopardesca”  siciliana.

A distanza di 10 mesi dalla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del Governo nazionale hanno inviato in riva allo Stretto un commissario straordinario, plenipotenziario in materia di Covid-19. Sostituisce Carmelo Crisicelli, voluto nel marzo scorso dallo stesso direttore La Paglia.

Su chi è caduta la scelta?

Maria Grazia Furnari.

E’ questo il nome e il cognome della manager che dovrà coordinare tutta l’attività di contrasto all’emergenza Covid, un’emergenza che – detto per inciso, non essendo questo il tema – a Messina e in Sicilia (e nel sud italia) nella realtà non c’è. E’ virtuale. Indotta. Sottovuoto spinto.

Viene infatti alimentata da chi, complici i media, attraverso la propaganda del terrore mira ad aumentare le clientele e il consenso facendo assunzioni di personale inutile e, con enorme spreco di denaro pubblico, affari (magari in famiglia) non proprio “puliti”, ciò che – è facile prevederlo – si scoprirà nei prossimi mesi.

Maria Grazia Furnari ha però una caratteristica che ne avrebbe dovuto sconsigliare la nomina e indurre la stessa manager a non accettarla: è la cognata del capo della Procura di Messina.

E’ legata da uno stretto rapporto di affinità, infatti, a Maurizio De Lucia, a colui cioè che coordina i sostituti procuratori che sull’Asp 5 di Messina, sull’operato dei suoi vertici e funzionari e sullo stesso sindaco Cateno De Luca, a cui La Paglia ha pure promesso una querela, devono per legge indagare e nei confronti dei quali esercitare eventualmente l’azione penale.

D’ora innanzi anche il futuro operato della super commissaria, magari sottoposto alle dure critiche dello stesso De Luca, potrebbe finire sotto la loro lente.

E’ una questione di opportunità, di rispetto delle regole fondamentali che presiedono l’esercizio della funzione giudiziaria.

Non è certo in discussione, sino a prova contraria, l’onestà o la competenza delle persone.

Ma è in gioco la credibilità delle Istituzioni e degli uomini che le impersonano.

Considerato il contesto, la decisione del’assessore Razza di nominare la Furnari potrebbe legittimamente essere interpretata anche come vagamente intimidatoria. Stupisce perché opera di un avvocato, presuntivamente pregno di cultura giuridica e istituzionale; non sorprende di certo perché atto incoerente rispetto all’azione politica spartitoria e consociativa con cui Musumeci governa (si fa per dire) ogni giorno la Sicilia.

La nomina cade mentre la Procura di Messina ha diverse indagini in corso sulla gestione dell’emergenza Covid a Messina. E altre potrebbe aprirne quando l’allegra gestione dei fondi per l’emergenza che non c’è verrà alla luce.

Basti pensare, per fare qualche esempio, a quella sulle responsabilità per la morte, avvenuta nella scorsa primavera, di 40 anziani, ospiti (paganti) della casa di Riposo Come d’incanto di proprietà della signora Donatella Martinez.

Ancora, si pensi all’inchiesta sulla miriade di case di riposo per anziani abusive della città. O, ai fascicoli che nascono dalle denunce e querele che va collezionando il sindaco Cateno De Luca, protagonista di una serie di sortite amministrative abnormi (alcuni bocciati dagli organi della giurisdizione amministrativa) e di attacchi denigratori personali, strumentali o propagandistici: tra queste la minaccia, senza precedenti, di occupare l’Asp se non verrà rimosso La Paglia.

De Luca comunque è ancora sotto processo nell’ambito dell’inchiesta per l’evasione fiscale della Fenapi, il potente ente di assistenza fiscale che ha fondato.

Scriveva il grande giurista Piero Calamandrei che i magistrati non solo devono essere imparziali ma anche apparire di esserlo.

Per apparire imparziali, perché la loro azione non possa essere letta come ispirata a principi diversi da quelli stabiliti dalla Costituzione o dalla legge, è necessario che non si pongano in condizioni tali che agli occhi dei cittadini generino il naturale sospetto che il loro agire sia ispirato da logiche ritorsive o, per contro, omissive o di insabbiamento.

E’ possibile che tra le decine di tecnici in forza all’assessorato alla Sanità, di manager che figurano negli elenchi degli idonei a direttore generale o sanitario, tra le decine di epidemiologi siciliani la scelta del super commissario non potesse cadere, ammesso che fosse necessaria, su altra persona?

Giocoforza, d’ora in poi qualunque atto dei sostituti della Procura di De Lucia riguardante la gestione passata e futura dell’emergenza Covid verrà letta con gli occhi e la mente della dietrologia e del sospetto.

Qualsiasi provvedimento giudiziario anche non attinente al Covid potrà essere interpretato o strumentalizzato da De Luca (o dai suoi fans), se a lui indigesto, come una nuova “lupara giudiziaria”.

A fare gli onori di casa a Maria Grazia Furnari all’arrivo a Messina è stato Ferdinando Croce.

Avvocato e capo del Gabinetto dell’assessore Razza, Croce è da giorni in pianta stabile negli uffici della sede dell’Asp 5: una sorta di agente diplomatico distaccato a Messina.

Croce, candidato a sostegno di Musumeci alle ultime elezioni regionali del 2017 pur non essendo eletto ha ottenuto l’allettante incarico all’assessorato: ciò gli ha impedito di tornare a Fratelli di Italia di Giorgia Meloni, come invece ha fatto – dopo lo strappo del 2015 – il gruppo Vento dello Stretto, cui ha sempre appartenuto.

Con la Furnari ha in comune la parentela/affinità a un alto magistrato.

E’ infatti il nipote di Luigi Croce, precedessore di De Lucia alla Procura di Messina, che conta ancora oggi tra i suoi componenti alcuni pm che lo zio all’epoca coordinò.

Mentre lo zio magistrato dirigeva la Procura di Messina, l’altro zio, il fratello del procuratore Eugenio Croce (il cui figlio Maurizio il presidente Musumeci ha confermato Commissario per il dissesto idrogeologico della Sicilia), fu messo a capo dell’azienda ospedaliera Piemonte, sulla cui attività i sostituti di Palazzo Piacentini erano tenuti al controllo di legalità.

Insomma, un ritorno al passato. Che si ripete con puntualità svizzera.

Cateno De Luca, gli azzeccagarbugli e i numeri dell’Asp 5, che non tornano. Il sindaco chiude tutte le scuole, sfidando la legge, la logica e 300 cittadini. E il suo fidato giurista Marcello Scurria scende in campo contro il legale Santi Delia, che si è già rivolto al Tar

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Il sindaco Cateno De Luca e l’avvocato Marcello Scurria

Un sindaco annuncia via face book un provvedimento che per Legge non può adottare:  chiudere tutte le scuole della città. E fin qui nulla di strano.

Infatti, la città è Messina e, soprattutto, il sindaco si chiama Cateno De Luca.

A lui delle bocciature in diritto piace fare collezione. L’importante è che soddisfi l’irrefrenabile desiderio di esibizionismo.

Sulla base del semplice annuncio del primo cittadino e prima ancora che seguisse un provvedimento formale, un dirigente di una delle scuole della città, l’Istituto comprensivo “Giuseppe Catalfamo”, cosa fa?

Questa domenica mattina emana una circolare, la pubblica sul sito della scuola e comunica la chiusura di tutti i plessi della scuola che dirige sino all’11 novembre prossimo.

Se qualcuno avesse ancora bisogno di toccare con mano la deriva politica, giuridica e culturale in cui la propaganda del terrore ha condotto l’Italia, Angelo Cavallaro – è questo il nome del dirigente della scuola di Contesse – ne ha offerto oggi un’ulteriore possibilità.

“Sentite le dichiarazioni pubbliche del Sindaco della Città di Messina che proroga quanto previsto dalla propria Ordinanza n°307 del 30.10.2020 si comunica la chiusura fino all’ 11.11.2020 di tutti i plessi di ogni ordine e grado del nostro Istituto”, ha scritto Cavallaro.

“Sentite”, si proprio così. “Sentite”.

Un funzionario con la qualifica di dirigente dello Stato, messo a capo di un istituzione fondamentale per la formazione dei cittadini di un Paese, “sente” un sindaco che blatera su face book o in televisione e decide di annullare il diritto all’istruzione previsto dalla Costituzione.

E se non avesse sentito bene?

E se il signor sindaco De Luca, l’uomo che un giorno vuole chiudere tutto, il successivo aprire tutto, e ancora il giorno a seguire richiudere ma solo le scuole, aprendo però i negozi, cambiasse idea? O la cambiasse parzialmente.

L’idea De Luca non l’ha cambiata. Non del tutto almeno.

Domenica, all’ora di pranzo, ecco l’ennesima ordinanza. 7 pagine di norme e codicilli, in cui non si saprebbe orientare neppure Francesco Carnelutti, per ordinare la chiusura di tutte le scuole il 9 e il 10 novembre..

Si tratta delle scuole dell’infanzia, della scuola elementare e della prima media delle varie scuole della città: le altre comunque sarebbero state chiuse in forza dell’ultimo DPCM e della zona arancione in cui è stata inserita la Sicilia.

Solo il 9 e il 10 per adesso. L’11 novembre no, ancora no: che qualcuno lo comunichi al dirigente scolastico Cavallaro in modo che modifichi la circolare.

A meno che, non abbia “sentito” De Luca dire: “Per ora facciamo 9 e 10, ma poi il 10 sera, magari a mezzanotte, farò un’altra ordinanza”.

Tanto a chi importa della confusione e incertezza in cui vengono gettate le famiglie e gli studenti?

In un paese serio, in cui si applicano ancora le norme di uno Stato di diritto, ci si aspetterebbe che intervenisse il prefetto, Maria Carmela Librizzi, la rappresentante del Governo presieduto dal signor Giuseppe Conte, perennemente in televisione a chiedere il rispetto delle regole ai cittadini, benché nella babele normativa chiunque stenti a capire quali siano e i rappresentanti delle Istituzioni facciano come pare loro, mossi solo da logica clientelare o narcisistica.

Anzi, ci si sarebbe aspettato che il Prefetto fosse intervenuto già al momento dell’annuncio del sindaco. Se lo ha fatto, non è stato convincente.

Sarebbe bastato ricordasse a De Luca che la Legge ha tolto ai sindaci ogni potere in materia di misure di contenimento del Coronavirus.

Invece no, per rimembrare questo dato elementare si sono mobilitati 300 cittadini messinesi che hanno dato mandato all’avvocato Santi Delia. Il suo compito è di provare a impedire questo abuso di potere, attraverso un ricorso al Tribunale amministrativo regionale, già notificato.

De Luca, da par suo, invece di rimanere alle argomentazioni giuridiche, ha etichettato il giovane e noto avvocato con il termine “azzecagarbugli” di manzoniana memoria.

Che Delia non sia un azzeccagarbugli lo ha attestato anche e persino Marcello Scurria, giurista di livello.

Scurria, che nel giro di 10 anni è stato il consigliere giuridico dei 4 sindaci (di colore e sentimenti politici i più diversi) che si sono succeduti alla guida della città, sostiene, da persona super partes, che “Delia non è un azzeccagarbugli ma il collega sbaglia clamorosamente”. Insomma, se non è zuppa è pan bagnato.

Da abile legale, per dimostrare che De Luca abbia il potere di emanare ordinanze in materia di contenimento della diffusione del virus, Scurria ricorda che nel corso di una recente intervista, la Ministra (dell’Istruzione) ha ammesso che esiste la possibilità di chiusure locali: “Sono i Comuni o le Asl a decidere se chiudere un istituto. L’importante è che non si proceda senza criterio. Abbiamo dei protocolli ed è fondamentale che siano rispettati in modo omogeneo su tutto il territorio“, ha riportato l’avvocato messinese in una sua dichiarazione pubblica di questa sera.

Si apprende così da Scurria che “le interviste” del ministro dell’Istruzione – dando per pure per certo che quanto abbia detto sia stato riportato correttamente – sono fonti del diritto, al pari – come ha insegnato il dirigente Cavallaro – degli “annunci” del sindaco De Luca.

Si ammetta, per assurdo, sia così. Sorge una domanda: Il ministro ha parlato di un istituto o di tutte le scuole di una città?

E’ evidente che la chiusura delle scuole, di tutte le scuole, è altro dalla chiusura di una scuola e costituisce misura di contenimento della diffusione del virus sull’intero territorio comunale, un’intera fetta della regione e non rientra di sicuro nelle competenze del sindaco, per quanto dotato di capacità paranormali come De Luca.

Il giurista messo a capo da De Luca di una società partecipata, l’Arisme Spa, ha infatti (clamorosamente?) omesso di citare l’articolo 3, comma 2 del Decreto Legge n. 19 del 2020, convertito in Legge: “I Sindaci non possono adottare, a pena di inefficacia, ordinanze contingibili ed urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza in contrasto con le misure statali, né eccedendo i limiti di oggetto di cui al comma 1”. La stessa omissione la si rintraccia nell’ordinanza firmata dal sindaco.

La norma è attualmente in vigore, salvo che Scurria non voglia sostenere che la fonte di diritto “intervista” prevalga sulla fonte “Legge”, il che di questi tempi non stupirebbe.

Persino il presidente della Regione, Nello Musumeci, ogni volta che emana un’ordinanza in materia di Covid richiama e sottolinea nel preambolo questa norma, dal significato chiaro.

Ma tutte queste sono quisquilie, diranno in molti. Quella che conta è la sostanza, poco importa che a decidere questa sostanza sia chi è al potere.

Davanti a un pericolo grave di una diffusione del contagio a Messina chi se ne frega delle competenze? De Luca ha ricevuto dal commissario territoriale Coronavirus, Carmelo Crisicelli, una nota allarmante e quindi fa bene, benissimo a intervenire. Al diavolo le competenze!

E allora giusto perché la gente capisca di cosa si sta parlando è bene riassumere cosa ha scritto il funzionario dell’Asp 5 nella nota datata 6 novembre.

Sbandierata come fosse un trofeo, è stato lo stesso sindaco a sollecitarla.

Scrive Crisicelli:

1) il numero dei contagiati a Messina e provincia aumenta inesorabilmente;

2) le segnalazioni di positività al tampone sono talmente alte da rendere estremamente difficile il tracciamento dei contatti.

Tuttavia, Crisicelli non fornisce numeri per dimostrare la fondatezza di quello che dice.

Ma i numeri ci sono. Sono quelli che l’Asp 5 trasmette quotidianamente alla Regione.

E lo smentiscono.

Secondo questi dati, la provincia di Messina negli ultimi giorni, ha in media circa 120 contagiati in più al giorno, su una popolazione di 650 mila abitanti.

Messina con 250 mila abitanti non supera, a voler essere larghi di manica, i 60 positivi al giorno.

Un positivo, dunque, ogni 4 mila abitanti. La media regionale è di uno ogni 3 e 500 abitanti: una delle più basse d’italia, e comunque più alta di quella di Messina.

Per Crisicelli, però, il numero dei positivi è talmente alto che è nell’impossibilità di tracciare la catena dei possibili contagiati.

Ma è sicuro questo dipenda dal numero “talmente alto” (che,però, alto non è) e non da altri problemi strutturali e organizzativi degli uffici che dirige?

Il funzionario dell’Azienda sanitaria guidata da anni dal manager Paolo La Paglia ha pure scoperto un dato “clamoroso”: la maggior parte dei positivi hanno tra i 20 e i 50 anni, cioè tra le persone che conducono la vita più attiva. Esattamente ciò che succede in tutta Italia, come attestano i dati dell’Istituto superiore di sanità.

E, ancora, sempre Crisicelli, ha accertato che “a macchia di leopardo” ci sono pure positivi collegati alla scuola. A macchia di leopardo: davvero preciso questo dato. Quanti sono? Due, 5, 50, 60? O è allarmante che siano a macchia di leopardo, in una provincia dove il problema più grosso per l’agricoltura sinora si sapeva fosse determinato dai cinghiali?

Crisicelli ha idea di quanti milioni di persone ogni giorno frequentano le scuole in Italia, quante decine di migliaia tra studenti, insegnanti, personale amministrativo e tecnico a Messina?

Secondo i fumosi parametri di Crisicelli, liberamente interpretati da De Luca, tutte le scuole di Italia andrebbero chiuse, anche quelle delle regioni lasciate in zona gialla dal Governo, che hanno dati di contagio molto più alti.

Domani però a rimanere a casa saranno i ragazzi di Messina.

Quelli di Palermo, Pisa o Venezia no. 

Epidemia Covid-19: Rischio elevato? In Sicilia è a convenienza. Il presidente della Regione Nello Musumeci protesta per la “zona arancione”, ma il 24 ottobre per legittimare un’ordinanza coprifuoco condivise un giudizio di pericolo “medio alto”, con metà dei ricoverati e dei positivi di oggi.

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Il presidente Nello Musumeci con l’assessore alla Sanità Ruggero Razza

 

Da quando ha appurato che il Governo nazionale per contenere la nuova ondata di epidemia da Covid 19 aveva inserito la Sicilia in zona arancione, tra le regioni cioè “a rischio alto” e quindi soggetta dal 6 novembre a misure fortemente limitative delle libertà e al contempo dannose per il sistema produttivo, il presidente della regione Nello Musumeci è diventato furioso.

Da 48 ore riempie televisioni e giornali. Protesta indignato. E snocciola dati. Gli offre man forte il suo assessore alla Sanità, Ruggero Razza, da sempre a lui politicamente vicino.

Tuttavia, il bancario prestato (ormai da decenni) alla politica, mostra di avere poca memoria, presupposto fondamentale per tentare di essere coerente e credibile.

Dieci giorni fa, infatti, per legittimare un ordinanza che, dettando misure non previste a livello nazionale, azzerava il diritto all’istruzione e limitava la libertà personale (ma non incideva sulle attività economiche, non sul breve periodo almeno),  aveva condiviso e utilizzato – come si legge nello stesso provvedimento – la valutazione di rischio “medio alto”, affibbiata all’isola dai tecnici del ministero della Salute.

Ma allora il numero dei ricoverati cosiddetti Covid in Sicilia, regione i cui indicatori sanitari mostrano carenze organizzative e strutturali che la cura di Razza – ad occhio e croce – non ha minimamente attenuato, era pari a 648 e i positivi 7850.

Oggi i ricoverati sono il doppio e il doppio sono anche i positivi.

Domanda: se il 24 ottobre la classificazione di regione “a rischio medio alto” a Musumeci stava bene tanto da usarla come fondamenta per un’ordinanza, che prevedeva la chiusura delle scuole superiori e il divieto di uscire fuori di casa tra le 23 e le 5 del mattino, come può oggi, con i numeri raddoppiati, contestare la valutazione “di rischio elevato”?

Forse perché finché si chiudono le scuole e si limita la libertà non si perdono voti e consensi e quando si impediscono le attività economiche si?

Se bisogna terrorizzare la gente, il virus è letale, e se invece bisogna compiacerla cessa di esserlo?

In effetti, Musumeci, oltre a contestare in senso assoluto la valutazione di rischio alto, mette in comparazione i dati delle varie regioni per affermare che la situazione siciliana non è più grave di quella di altri territori italiani, invece lasciati in zona gialla, con minori limitazioni.

Della serie “perché noi si e altri no?” Come direbbe il bambino di scuola elementare bocciato: io sono scarso ma siccome gli altri sono scarsi come me o più di me, allora bisognava bocciare tutti o, in alternativa, promuovere me.

Facciamo pure finta che sia così: cioè la Campania o il Lazio dovevano andare in zona arancione.

E allora? Musumeci ragiona come se in questa vicenda fosse in gioco una semplice promozione alla classe successiva. O una sculacciata data a un figlio si e a un altro no, a parità di responsabilità nella marachella, da un padre non imparziale.

Ma le misure restrittive – nella logica di chi le dispone e della maggioranza dei cittadini che le accettano – non sono tese a tutelare i cittadini dal terribile virus, impedendone la diffusione?

E quindi, se così è, e se  come dice il presidente ci sono regioni i cui cittadini rischiano di più dei siciliani, non dovrebbero i presidenti di quelle regioni protestare, implorando la zona arancione o rossa?

O il terrore è bello solo quando fa audience e determina emergenze in cui la classe politica sguazza?