Caso Bisognano: Il Tribunale amministrativo del Lazio avalla la revoca del programma di protezione e “condanna” l’ex boss di Barcellona a rimanere in carcere. Da collaboratore di giustizia si faceva beffa dello Stato e commetteva reati. Per il suo legale Fabio Repici è però vittima di un complotto

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Carmelo Bisognano

Il suo legale Fabio Repici, al contempo legale di varie associazioni e di familiari di vittime della mafia, denuncia da anni a destra e manca sia stato vittima di un complotto.

Ma anche per il Tribunale amministrativo regionale del Lazio Carmelo Bisognano, il boss della mafia di Barcellona, autore di crimini efferati, dal 2010 collaboratore di giustizia, deve rimanere in carcere.

Più specificamente, l’organo di giustizia amministrativa di primo grado con sentenza depositata il 18 gennaio 2021 ha ritenuto giustificata e legittima la revoca del programma di protezione.

Questo, infatti, in concreto significa per il collaboratore di giustizia non poter godere dei benefici economici e delle misure alternative al carcere (ovvero a vivere pressoché libero e protetto benché riconosciuto colpevole di efferati delitti), obiettivo principale di chi, sicuro di essere condannato a lunghissimi periodi di detenzione, decide di “pentirsi” .

Bisognano, infatti, sta scontando una condanna passata in giudicato a 13 anni di reclusione rimediata nell’ambito del processo Gotha per omicidio e associazione mafiosa. E attende l’esito di altri processi che lo vedono imputato di reati molto gravi, alcuni commessi mentre da collaboratore di giustizia godeva di stipendio e protezione dello Stato, che gli pagava pure i due legali.

Una revoca ritardata

La revoca del programma di protezione fu decisa dalla Commissione centrale su richiesta della Direzione nazionale e della Direzione distrettuale antimafia di Messina l’1 agosto del 2017, a distanza di quasi un anno mezzo dagli arresti scattati il 16 maggio del 2016.

Bisognano, invece, era stato arrestato su richiesta degli stessi magistrati della direzione distrettuale antimafia, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, che ne curarono sin dall’inizio la collaborazione importante per fare luce su delitti rimasti impuniti e mettere alla sbarra decine di affiliati al clan.

Era indiziato dei gravissimi reati di intestazione fittizia di beni, di tentata estorsione, di accesso abusivo al sistema informatico, violazione del segreto d’ufficio false dichiarazioni ai difensori nell’ambito di indagini difensive.

Tuttavia, dal giorno degli arresti e per 15 mesi Bisognano mantenne il programma di protezione nonostante per legge la semplice violazione degli obblighi di condotta assunti dal collaboratore ne debba determinare la revoca, anche se gli inadempimenti dello stesso non sfocino in reati penali.

I giudici del Tribunale amministrativo in un passaggio della sentenza spiegano: “Ciò che appare accertato, e non contestabile, è che le condotte poste in essere dal ricorrente integrano fatti di rilevante gravità (…) Non vi è dubbio che sia imputabile al ricorrente il venire meno, reiteratamente, agli obblighi assunti, perseverando in condotte criminali anche nella vigenza di un programma di protezione che rappresenta un costo elevato per la comunità sia in termini economici che di impiego di personale, oltre a metterne a rischio la sicurezza“.

In precedenza, lo stesso Tar e il Consiglio di Stato avevano rigettato l’istanza cautelare degli avvocati di Bisognano, Biagio Parmaliana e dello stesso Repici.

Bisognano, rimasto senza programma di protezione e recluso quindi in carcere, in attesa che si pronunciassero i giudici penali e amministrativi, ha continuato a collaborare.

Il ministero degli Interni, a tutela della sua incolumità gli garantisce la scorta e speciali misure di protezione.

 

Incastrato alla Vecchia Maniera

Tra il 2015 e il 2016, gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo scoprirono che Bisognano dalla località protetta, in cui peraltro si muoveva a suo piacimento, usando il fidato collaboratore Angelo Lorisco, aveva costituito una società e, sotto mentite spoglie, aveva ripreso l’attività di impresa, grazie all’aiuto di Tindaro Marino. Quest’ultimo,imprenditore di Gioiosa Marea era sottoposto anch’egli alla misura di prevenzione patrimoniale ed era già condannato in secondo grado per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo poi – secondo gli accertamenti investigativi – Bisognano, tramite lo stesso Lorisco, strumentalizzando il ruolo di collaboratore, aveva preso di mira i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda: nei loro cantieri cominciò a presentarsi assiduamente Lorisco, che spendendo il nome di Bisognano e minacciando dichiarazioni sul loro conto chiedeva utilità di varia natura.

La Procura, oltre all’intestazione fittizia di beni, infatti, a Bisognano e Lorisco contestò il tentativo di estorsione, consistito nell’aver preteso di far lavorare i propri mezzi negli appalti che i Torre avevano in corso di esecuzione.

Qualche tempo dopo Bisognano è stato riconosciuto colpevole del reato di intestazione fittizia di beni e di tentata estorsione in primo e secondo grado e condannato a 5 anni di reclusione: attende di giocarsi le ultime carte in Cassazione.

Nel frattempo, è finito sotto processo a Barcellona per un’altra ipotesi di estorsione, questa volta consumata, sempre ai danni degli stessi imprenditori Torre e sempre commessa da collaboratore di giustizia. Sfuggita in un primo tempo alla Procura, è oggetto di un giudizio pendente in primo grado.

Ancora, al Tribunale di Rieti Bisognano è alla sbarra per accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio.

Sempre dalle indagini del commissariato di Barcellona emerse che due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento con i suoi due legali Fabio Repici e Mariella Cicero e anche con altri collaboratori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

 

La “truffa” a Tindaro Marino

Le intercettazioni dell’Inchiesta Vecchia Maniera disvelarono che Bisognano in cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, si era impegnato nell’ambito di indagini difensive a fare nuove e diverse dichiarazioni favorevoli all’imprenditore di Gioiosa Marea, in modo da alleggerirne la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Al momento della richiesta di misura cautelare, i due sostituti Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato le dichiarazioni rese da Bisognano in precedenza sul conto di Marino con quelle rese il 30 settembre del 2015 al difensore di Marino, Salvatore Silvestro (presenti i difensori del collaboratore Fabio Repici e la collega di studio Mariella Cicero) si erano convinti che questi avesse cambiato effettivamente le dichiarazioni, depositate effettivamente in Cassazione e nel giudizio di prevenzione dal legale di Marino.

Dello stesso avviso Monica Marino, il Gip che accolse la richiesta di misure cautelari.

E’ stato lo stesso collaboratore di giustizia nell’interrogatorio di garanzia ad ammettere: “Mi sono messo d’accordo per modificare le dichiarazioni, ma poi non l’ho fatto”.

Proprio a seguito di questa giustificazione, i due pubblici ministeri cambiarono idea chiedendo per questo capo di accusa l’archiviazione.

Il Gip Monica Marino rimase della sua idea. Ha rigettato e ordinato l’imputazione coattiva: “Le dichiarazioni sono state cambiate per interessi economici”, scrisse il Gip Marino dopo aver messo ancora una volta a confronto le dichiarazioni.

Tre mesi dopo, il 17 novembre del 2017, un altro Gip del Tribunale di Messina Simona Finocchiaro accolse la richiesta di archiviazione ribadita dai due sostituti della Dda.

In conclusione, a seguire le conclusioni dell’inchiesta su questa imputazione, Bisognano “truffò” il suo “socio finanziatore” Tindaro Marino.

 

In attesa di novità da Reggio Calabria

 

L’ex boss di Barcellona attende pure l’esito del giudizio di appello del processo Sistema, nato dalle dichiarazioni di Maurizio Marchetta, l’imprenditore di Barcellona che nel 2008 inizio a collaborare con gli inquirenti della squadra mobile, spiegando tra le altre cose di essere vittima del clan guidato da Bisognano.

Fu a seguito degli arresti nell’ambito dell’inchiesta Sistema fondata sulle dichiarazioni di Marchetta che Bisognano decise di collaborare con la giustizia. 

In primo grado, Bisognano fu condannato a 8 anni di reclusione in abbreviato. In appello fu assolto in quanto Marchetta fu ritenuto non attendibile.

Ma la Corte di cassazione ritenendo che sul punto della inattendibilità di Marchetta i giudici messinesi non avessero motivato logicamente e adeguatamente, ha annullato con rinvio a Reggio Calabria, dove verrà celebrato il processo d’appello. 

 

Il complottismo da operetta

Tuttavia, per il legale Fabio Repici che, insieme alla collega di studio Mariella Cicero, sin dall’inizio della collaborazione lo ha assistito, Bisognano è vittima di un complotto ordito dal commissario Ceraolo, dall’avvocato Ugo Colonna, da Saro Cattafi, l’avvocato di Barcellona accusato da Bisognano di essere stato il capo della mafia di Barcellona sino al 2012 e tuttavia assolto, e dal legale di quest’ultimo, Salvatore Silvestro.

Il collaboratore – a tirare le fila delle accuse di Repici – violava la legge – come hanno stabilito decine di giudici penali e amministrativi – per fare una cortesia ai protagonisti del complotto. 

Repici ha indicato una delle possibili finalità del complotto: “E’ stata un’operazione tesa a fare conseguire a Cattafi l’impunità”, ha ripetuto più volte, anche sfidando la logica, senza offrire né fatti, né elementi di prove.

 

Il complottismo alla prova della cronologia

Le dichiarazioni accusatorie Bisognano su Cattafi sono state ritenute non riscontrate né credibili dalla Corte d’appello di Messina che, riformando la condanna di primo grado, ha assolto Cattafi dall’accusa di essere stato non solo capo della mafia ma anche semplice affiliato dal 2000 in poi.

La sentenza della Corte d’appello, che successivamente ha avuto l’avallo della Corte di Cassazione, è del 24 novembre del 2015, di 7 mesi prima che Bisognano fosse arrestato nell’ambito di Vecchia Maniera e si conoscessero le imprese che realizzava mentre era collaboratore di giustizia.

 

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