Archive for Giugno 2017

Bancarotta Italsea group, pesanti condanne per i membri della famiglia Cozza proprietaria della Spa di servizi di trasporto di Catania. 10 mesi all’ex direttore dell’agenzia delle Entrate di Messina Altomare che aveva rinunciato alla prescrizione

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Luigi Salvatore Cozza

Luigi Salvatore Cozza

Il reato di abuso di ufficio che gli veniva contestato era ormai prescritto da due anni, ma ha rinunciato ad avvalersene ritenendosi innocente.

Salvatore Altomare, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate di Messina, è stato così condannato in primo grado a 10 mesi di reclusione.

Il Tribunale di Messina, presieduto da Silvana Grasso, ha irrogato pene molto più pesanti ai proprietari e agli amministratori di Italsea Group Spa, società di trasporto con sede a Taormina (poi trasferita a Catania), dichiarata fallita nel 2012, accusati di bancarotta documentale, bancarotta per distrazione ed evasione fiscale.

Le pene sono state più severe di quelle chieste nella requisitoria dal pubblico ministero Francesco Massara.

Nello specifico, a nove anni di reclusione è stato condannato Salvatore Luigi Cozza, a 5 anni e 2 mesi i figli Pamela Cozza e Luigi Cozza,  a 4 anni e 7 mesi Giuseppa Pistorio, moglie e madre dei primi tre: erano accusati di aver esposto in bilancio passività inesistenti per milioni di euro mediante emissione di fatture da parte di società inconsapevoli; di avere distratto liquidità della società ai danni dei creditori mediante l’acquisto di beni immobili rimasti nella piena disponibilità dei membri della famiglia e di evasione fiscale, ritenuta comunque prescritta.

Claudio Reinhold D’arrigo e Francesco Altomare sono stati condannati a 7 anni e 2 mesi; Giuseppe Basile a 6 anni: si tratta dei collaboratori della famiglia Cozza a cui di volta in volta sono stati attribuiti compiti di amministratore o di direttore generale delle società del gruppo e che comunque hanno concorso nei reati di cui erano accusati i membri della famiglia Cozza.

La rinuncia alla prescrizione

Francesco Altomare è il fratello delll’ex direttore dell’Agenzia delle entrate provinciale di Messina.

La sua presenza nella compagine societaria della famiglia Cozza  è costata il coinvolgimento nell’inchiesta di Salvatore Altomare: all’epoca direttore dell’Agenzia delle entrate di Taormina.

Secondo l’accusa, l’Agenzia ha riconosciuto una detrazione di Iva per 244 mila euro relativa all’anno 2004 sulla base di documentazione in parte palesemente falsa e in parte relativa a mezzi di altre società.

L’accertamento con adesione era stato materialmente effettuato da Aldo Corrrado Pittari e Guido Schiavoni, due funzionari dell’Agenzia (su istigazione di Pamela Cozza) ai quali veniva contestato l’abuso d’ufficio in concorso con Altomare, che – secondo l’accusa – ha avallato l’operazione: al contrario di quest’ultimo, però, i due funzionari non hanno rinunciato alla prescrizione e sono andati esenti da pena.

Effetto boomerang

L’inchiesta è decollata dopo una denuncia presentata nel 2007 ai carabinieri (su istigazione di Luigi Salvatore e Pamela Cozza) da parte di Claudio Reinhold D’arrigo.

Questi aveva infatti denunciato il  furto della documentazione contabile mentre veniva portata dalla vecchia sede alla nuova sede.

Gli uomini della Finanza hanno scoperto che si trattava solo di un modo per impedire gli accertamenti degli organi inquirenti e creare le condizioni per impedire la ricostruzione delle movimentazioni societarie: infatti, il trasloco neppure ci poteva essere stato, considerato che la nuova sede era all’epoca della denuncia sottoposta a sequestro.

Fallimento Pesce, arrivano le condanne di primo grado per l’imprenditore, il notaio Quagliata, e gli ex dipendenti Inferrera e Restuccia. Assolti gli altri sei 6 imputati

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Sandro Pesce

Sandro Pesce

Nove anni di reclusione per Sandro Pesce; sei anni per Vittorio Quagliata; 4 anni per Gaetana Inferrera, un anno e 6 mesi per Giancarlo Restuccia.

Assolti invece, David Remedios, Rosa Maria Zocca, Maria Ferrara, Giuseppe Leoni, Margherita Bagnoli e Luigi Giannetto

 

E’ questo l’esito del processo di primo grado nato dal fallimento delle aziende del noto imprenditore Sandro Pesce, proprietario di alcuni dei negozi più frequentati di abbigliamento della città di Messina (Acquarius e Semplice, tra questi), che erano arrivati ad impiegare circa 80 dipendenti.

La sentenza è stata emessa dalla seconda sezione penale, presieduta da Silvana Grasso, nel primo pomeriggio di oggi.

Sandro Pesce, in sostanza, era accusato di aver svuotato le società di cui era titolare distraendo a suo favore ingenti risorse che poi ha usato per compiere altre attività: da qui le accuse di bancarotta fraudolenta, riciclaggio, impiego di denaro di provenienza illecita ed evasione fiscale.

La società cassaforte del gruppo, la “Margan Srl”, era stata dichiarata fallita nel 2009.

Nel compiere questa attività – secondo l’accusa – si era servito del notaio (peraltro, cognato) Vittorio Quagliata e di Gaetana Inferrera, dipendente di Pesce.

Giancarlo Restuccia, altro ex dipendente di Pesce, invece, era accusato di favoreggiamento personale.

Sandro Pesce, nell’ambito dell’inchiesta fu arrestato e mentre era in carcere chiese attraverso la sorella a Restuccia di occultare parte della documentazione contabile.

 

 

Il CASO: Vendita privilegiata, gli amministratori giudiziari dei beni confiscati a Sarino Bonaffini cedono una casa a un loro consulente. Il prezzo? La metà di quello praticato agli altri. Le giustificazioni dell’amministratore Giuffrida e dell’acquirente

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Il crystal residence

Il Crystal residence

 

Gli appartamenti del complesso immobiliare “Falcone” che ha preso il posto dell’ex grissinificio omonimo, sulla strada statale, a Contesse, erano stati venduti a mille e 400 euro a metro quadro.

Invece, l’ultimo appartamento rimasto invenduto del complesso Crystal residence, che sorge a cento metri di distanza, in direzione del centro città, sempre sulla strada statale, l’hanno venduto più meno a metà prezzo.

Centodieci metri quadri di abitazione, più 70 metri quadri di terrazza, rifiniture di alto livello, vista sullo Stretto di Messina. E in più, un box auto coperto.

L’avvocato Raffaele Maccari e i commercialisti Pippo Giuffrida e Antonino Barbagallo, i tre amministratori giudiziari dei beni confiscati nel 2011 a Sarino Bonaffini, noto imprenditore del pesce con grossi interessi nel settore immobiliare ritenuto vicino alla cosche mafiose locali, hanno ceduto quest’appartamento (di proprietà dello Stato) per 95 mila euro.

L’acquirente?

Un loro consulente: l’architetto, Saverio Carbonaro, assunto tre anni prima, nel 2013 (a duemila euro netti al mese), proprio per curare gli aspetti tecnici relativi alla vendita degli immobili passati da Bonaffini al patrimonio dello Stato.

Facendo due calcoli, considerato che la terrazza è calcolata per un terzo e che il prezzo include il box auto coperto, Saverio Carbonaro ha comprato a poco meno di 700 euro a metro quadro.

 

Questione di prezzo e di conti che non tornano

 

Il prezzo è nettamente più basso di quello fissato nel 2009 nel compromesso di vendita dello stesso appartamento stipulato con atto scritto tra Metropoli srl, la società immobiliare della famiglia di Bonaffini, e un privato: 230 mila euro, più o meno 2 mila euro a metro quadro (quasi tre volte il prezzo a cui è stato ceduto ora a Carbonaro).

Uno dei tre amministratori giudiziari, Pippo Giuffrida, commercialista catanese, spiega: “L’architetto Carbonaro ci ha fatto la proposta di acquisto. Io l’ho ritenuta congrua ed equa sulla base di una serie di valutazioni e di dati”.

La differenza notevole di prezzo?

“Il prezzo del compromesso si riferisce al 2009. Poi c’è stato un crollo del settore immobiliare e i prezzi sono nettamente calati”, precisa Giuffrida.

Ma di quanto sono calati?

“In effetti, il calo c’è stato. Nel 2016 in quella zona si è venduto a mille e 500 euro/ mille e 400 euro a metro quadro. Non di meno”, spiega un agente di una delle società immobiliari più grosse del settore.

Ma è lo stesso Saverio Carbonaro a confermare che il prezzo di vendita di immobili nuovi in quella zona si aggira sui 1400/ 1500 euro al metro quadro e che gli stessi amministratori si sono attenuti a questo prezzo.

“Di recente gli stessi amministratori giudiziari hanno venduto gli appartamenti del complesso Falcone a mille e 400 euro a metro quadro”, ammette Carbonaro.

 

Giustificazioni con giallo

 

Come mai allora a Carbonaro è stato praticato un prezzo pari alla metà di quello di mercato, cui si sono attenuti in precedenza gli stessi amministratori?

“Credo che il prezzo che ho proposto sia giusto, considerata la situazione del complesso immobiliare”, spiega Carbonaro. Che svela un dato:  “A causa di difformità con il progetto, l’immobile manca certificato di agibilità e di abitabilità”, rivela l’architetto.

Quindi, gli amministratori giudiziari hanno venduto un immobile ( e Carbonaro l’ha comprato) senza le certificazioni necessarie per poterci vivere.

“E’ proprio così”, risponde Carbonaro.

 

L’avallo del giudice e il cuore del problema

 

L’operazione è stata – per come prevede la legge – avallata da un giudice del Tribunale misure di prevenzione che ha messo la sua firma autorizzando la vendita. “L’istanza per la vendita l’abbiamo proposta al presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Messina, Nunzio Trovato. Mi sono convinto che quello è il prezzo equo e l’ho rappresentato al giudice. Quest’ultimo ha condiviso le mie valutazioni e i dati che gli ho esposto, di cui mi assumo tutta la responsabilità”, racconta il commercialista catanese.

In genere, le vendite degli amministratori giudiziari sono preceduti da una perizia di stima.

“Ci dovrebbe essere quella di un’agenzia immobiliare”, dichiara Giuffrida.

Quale è l’ agenzia?

“E’ una cosa riservata. Non me lo ricordo. Ma questo non è importante. Ci sia o meno la perizia, il cuore del problema è un altro. Chiami un esperto e faccia fare una perizia. Se il prezzo che verrà fatto dal suo consulente è più o meno uguale a quello di vendita, io non ho responsabilità”, conclude Giuffrida.

 

Competenza e serietà

 

Saverio Carbonaro, è stato scelto come coadiutore (è questo il termine tecnico) dagli amministratori giudiziari perché “dopo un colloquio, è parso persona seria e competente”, come sottolinea l’amministratore Giuffrida.

E’ lo stesso architetto a escludere “in maniera categorica qualsiasi rapporto di parentela con uno dei tre amministratori”.

 

 

IL COMMENTO: Gettonopoli, quando il processo politico ed etico si fa in un’aula di Tribunale. I consiglieri comunali possono aver ingannato e truffato chi riteneva che la loro condotta fosse lecita?

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gettonopoli
Non era mai capitato, non negli ultimi venti anni, che i consiglieri del Comune di Messina godessero di così poca stima tra i cittadini.

La diretta televisiva dei lavori del Consiglio comunale chiamato alcuni mesi fa a votare sulla sfiducia al sindaco Renato Accorinti, considerato il livello degli interventi (e degli show), che in realtà si potrebbe ammirare ogni giorno facendo una capatina a Palazzo Zanca, l’ha ridotta a zero.

Prima ancora, era stata un’inchiesta della procura di Messina, sfociata in un processo penale ormai alla battute conclusive, ad additarli all’opinione pubblica pure come dei ladri di risorse pubbliche (o meglio dei truffatori): secondo l’accusa incassavano gettoni di presenza per un massimo di 2 mila euro mensili, apponendo una firma di presenza alle sedute della commissioni consiliari e andando via dopo pochi minuti (se non secondi).

Mai inchiesta ebbe tanto clamore mediatico. Mai indignazione della popolazione fu più profonda. Mai si sviluppò tra i cittadini di Messina tanta rabbia giustizialista.

Tuttavia, basta dare una lettura alle carte dell’inchiesta e del processo, al di là delle pesantissime condanne chieste dal pm Francesco Massar, per capire che l’impianto accusatorio non è così solido.

I consiglieri sono eticamente colpevoli. Sono politicamente colpevoli, visto che gran parte di loro ha partecipato alle elezioni al solo scopo di procacciarsi un emolumento mensile sicuro per 5 anni: infatti, si recava a palazzo Zanca a partecipare a commissioni convocate esclusivamente per discutere il nulla, il vero scandalo della vicenda.

Ma la responsabilità penale è un’altra cosa. Si fonda su norme determinate, che disegnano fattispecie precise, entro cui vanno sovrapposti i fatti accertati come commessi da ciascun imputato.

Senza entrare troppo nei tecnicismi giuridici, nella sostanza, i 16 consiglieri comunali sono accusati di aver ingannato ripetutamente il segretario generale Antonino Le Donne: andavano via pochi minuti dopo la firma o firmavano utilmente a sedute che non si tenevano per mancanza del numero legale e così incassavano il gettone di presenza liquidato proprio dal segretario generale Le Donne.

Ora il punto è che Le Donne ha sempre sostenuto, persino in atti scritti diretti alla regione Sicilia, che ciò che facevano i consiglieri era perfettamente in linea con la legge, o almeno era in linea con l’interpretazione che non poteva  non essere data alla lacunosa legge all’epoca vigente, difatti modificata dall’Ars qualche mese dopo.

Per Le Donne, infatti, la legge regionale e il regolamento comunale consentivano di considerare effettivamente presente, e quindi avente diritto al gettone, sia chi apponeva la firma a sedute di commissione che poi non si tenevano, sia chi firnava e dopo pochisimi minuti andava via.

Tant’è che gli stessi gettoni di presenza nel medesimo modo che forma oggetto delle imputazioni, l’hanno percepiti i consiglieri delle passate legislature con il consapevole avallo dei Segretari generali in carica all’epoca.

Può essere ritenuta “indotta in errore con artifizi e raggiri” (sono questi i requisiti essenziali perché si possa configurare il reato di truffa)  e quindi vittima, una persona che dal canto suo, consapevolmente, ritiene che la condotta dell’ipotetico truffatore è legittima?

Con questa questione di diritto dovrà fare i conti il Tribunale presieduto da Silvana Grasso, che nei prossimi giorni deciderà se condannare o assolvere i 16 consiglieri.

Un altro gruppo di colleghi, praticamente tutti gli altri consiglieri, finiti anch’essi sotto inchiesta per gli stessi motivi, sono stati prosciolti (archiviati) dal Giudice per le indagini preliminari, Salvatore Mastroeni su richiesta del procuratore aggiunto Vincenzo Barbaro e del sostituto Diego Capece Minutolo.

I due sostituti hanno ritenuto  che questi consiglieri si erano distinti dagli altri, quelli più cattivi, perché in commissione c’erano stati qualche secondo in più, comunque più di tre minuti, considerata la soglia limite dai due magistrati, non si è capito, però, in base a quale principio giuridico.

Il Gip Mastroeni, dal canto suo, si è prodotto in un lunghissimo provvedimento di 28 pagine, intriso di valutazioni politiche ed etiche e di dotte citazioni.

Al termine della lettura, ripetuta varie volte, chi si è cimentato (sicuramente per sue carenze) non ha compreso però quali fossero i principi giuridici su cui il provvedimento di archiviazione è fondato.

Gran parte dei consiglieri comunali di Messina non merita di sedere sullo scranno del Consiglio comunale di una qualsiasi città di un posto civile: è condivisibile.

Ma bisognerebbe interrogarsi del perché i cittadini di Messina prima li votano e poi sperano che a farli fuori sia la magistratura.

E’ la storia giudiziaria e politica del paese a dirlo.

Ogni volta che si delega alla magistratura di fare pulizia tra la classe dirigente, il rimedio si rivela peggiore del male e alla mala politica, nella migliore delle ipotesi, si sostituisce il vuoto pneumatico. 

IL GIALLO: Il senatore Luigi Gaetti ritira l’interrogazione sulla gestione “di favore” del collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, sotto processo a Barcellona. Ma afferma: “La ripresento non appena accerto che le segnalazioni che mi hanno consigliato la decisione sono infondate”

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Il senatore Luigi Gaetti

Il senatore Luigi Gaetti

La ripresento non appena avrò accertato che quanto mi è stato segnalato non corrisponde alla verità“.

L’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia e a quello degli Interni, gettava molte ombre sulla gestione della collaborazione con la giustizia dell’ex boss di Barcellona Carmelo Bisognano, domandando ai ministri un’attività di ispezione per diradare i dubbi e spiegare le anomalie.

Ombre che toccano i magistrati della Procura e della Corte d’appello di Messina (e i due legali del collaboratore) che – secondo le ipotesi contenute nell’interrogazione – avrebbero riservato un trattamento di favore e illecito al collaboratore, arrestato il 24 maggio del 2016 con l’accusa di tentata estorsione, favoreggiamento, intestazione fittizia di beni.

Luigi Gaetti, senatore del M5Stelle e vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, però, l’interrogazione l’ha ritirata dieci giorni dopo averla presentata.

E’ solo una scelta momentanea, per scrupolo”, afferma il senatore

Il motivo? “Mi è stato segnalato che l’atto ispettivo fosse stato scritto su una conoscenza parziale della documentazione. Mi sono fatto mandare quella mancante e la sto esaminando. Sinora non è emerso nulla che mi faccia pensare che l’interrogazione non fosse fondata“, dichiara il senatore.

Ma chi le ha fatto la segnalazione? “Guardi, a me arrivano tante segnalazioni e con estrema umiltà ne tengo conto“, glissa il vicepresidente della Commissione antimafia.

Dietrologie

L’esistenza dell’interrogazione e il contenuto della stessa sono state più volte evocate dal difensore di Carmelo Bisognano, Fabio Repici, nel processo a carico dell’ex boss, in corso di svolgimento davanti al Tribunale di Barcellona: in specie, durante l’esame di Mariella Cicero, il legale che difendeva unitamente a Repici (di cui è collega di studio) Bisognano sino agli arresti, per poi lasciare l’incarico per l’emergere di intercettazioni con il collaboratore, giudicate dagli inquirenti oltre i limiti del rapporto lecito tra assistito e difensore.

L’avvocato Repici ha, infatti, interrotto il collega Ugo Colonna, difensore di parte civile, che stava ponendo delle domande a Mariella Cicero, chiamata da Repici come teste a difesa di Bisognano, sottolineando:  “Si può frodare il Parlamento, non qui in Tribunale”

Il presidente del Tribunale, Fabio Processo, lo ha invitato ad una condotta rispettosa del collega: “Non usi parole scorrette nei confronti innanzitutto del collega”.

L’avvocato Colonna ha ribattuto: “Qui se c’è qualcuno che froda è un’altra persona, quindi….”

Le ombre 

L’interrogazione di Gaetti, ora messa ora nel congelatore, in sintesi, denunciava che Carmelo Bisognano, collaboratore dal 2010, nel 2015, quando è divenuta definitiva una condanna per mafia, sarebbe dovuto andare in carcere e, invece, in violazione di legge ha ottenuto la sospensione della pena su sollecitazione dei suoi difensori; ancora, che Bisognano, al di là della responsabilità penale in corso di accertamento, da collaboratore di giustizia si è reso protagonista di varie e gravi violazioni degli impegni assunti al momento della collaborazione che a norma di legge avrebbe dovuto condurre alla revoca del programma di protezione, revoca mai adottata.

Il vicepresidente della Commissione antimafia nell’interrogazione ha evidenziato come tutto ciò sia accaduto nonostante dall’esame degli atti processuali emergesse che la collaborazione di Bisognano sia stata contrassegnata da omissioni interessate.

 

Scarcerato Carmelo Bisognano: l’ex boss di Barcellona, dal 2010 collaboratore di giustizia, era stato arrestato a maggio 2016 per tentata estorsione, favoreggiamento e intestazione fittizia di beni. In corso il processo per accertare la responsabilità. La misura sostituita con l’obbligo di dimora

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

Dal 24 maggio del 2016 era detenuto in una struttura carceraria. Arrestato con l’accusa di intestazione fittizia di beni, tentata estorsione e favoreggiamento non gli è stato, però, mai revocato il programma di protezione.

E’ anche per questo motivo che a distanza di un anno l’ex boss della mafia di Barcellona, Carmelo Bisognano, dal 2010 collaboratore di giustizia, torna libero.

O meglio, torna in località protetta, con obbligo di dimora e divieto di uscire dalle 19 di sera alle otto del mattino dall’abitazione che gli ha assegnato il ministero degli Interni, protetto dalla scorta.

Il Tribunale di Barcellona, davanti a cui si celebra il processo a carico di Bisognano per intestazione fittizia di beni e tentata estorsione, ha deciso di accogliere l’istanza avanzata dalla stesso pubblico ministero, che si era pronunciato per la sufficienza dell’obbligo di dimora, e dalla difesa di Bisognano rappresentata da Fabio Repici, che aveva chiesto la revoca o la sostituzione del carcere con gli arresti domiciliari.

“Bisognano è tutt’ora sottoposto a programma di protezione; si avvicina comunque il termine di durata massima delle misure cautelari; tenuto conto dell’attività istruttoria svolta e della condotta nel corso del processo, pur rimanendo i gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati contestati, l’obbligo di dimora con divieto di allontanarsi dalla propria abitazione dalle 19 di sera alle 8 di mattina appare idoneo a soddisfare le residue esigenze cautelari”: queste, in sintesi, le motivazioni del Tribunale presieduto da Fabio Processo.