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Caso Bisognano, il Gip Monica Marino boccia i sostituti Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo e ordina l’imputazione coattiva per il collaboratore di giustizia: “Per interessi economici ha cambiato le dichiarazioni su Tindaro Marino”. Tutti i guai dell’ex boss, arrestato dalla Procura di Roma il 7 luglio scorso e sotto processo a Barcellona

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I sostituti della Dda Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio

I sostituti della Dda Angelo Cavallo e Vito Di Giorgio

 

I sostituti della Direzione distrettuale antimafia, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, avevano cambiato idea e chiesto l’archiviazione.

Il Giudice per le indagini preliminari invece è rimasto fermo sulla sua convinzione.

Per il magistrato Monica Marino il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano, ex capo della mafia di Barcellona, non solo ha intavolato trattative con l’imprenditore Tindaro Marino per rilasciare nuove e diverse dichiarazioni che ne alleggerissero la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello della Corte d’appello diretto al sequestro di tutti i beni, ma queste dichiarazioni di favore il 30 settembre del 2015, in presenza dei suoi difensori, Mariella Cicero e Fabio Repici, e del difensore di Marino, Salvatore Silvestro, le ha pure rese.

Il giudice Marino ha così ordinato alla Procura di disporre l’imputazione coattiva nei confronti di Carmelo Bisognano, di Tindaro Marino e di Angelo Lorisco, ovvero colui che teneva i rapporti tra Bisognano, in località protetta dal momento dell’inizio della collaborazione avvenuta nel 2010, e Marino, all’epoca agli arresti domiciliari.

Il reato contestato è di False dichiarazioni al difensore rilasciate nell’ambito delle investigazioni difensive.

 

La strumentalizzazione del ruolo di collaboratore

 

Era stata proprio il Gip Marino il 18 maggio del 2016 a ordinare gli arresti del collaboratore di giustizia per una serie di ipotesi di reato emerse nell’ambito dell’inchiesta “Vecchia Maniera”, condotta dal commissariato di Barcellona pozzo di Gotto diretto da Mario Ceraolo.

Nell’ordinanza di custodia cautelare, a Bisognano veniva contestata l’intestazione fittizia di beni, la tentata estorsione e soprattutto di aver stretto, tramite il suo uomo di fiducia Lorisco, un vero e proprio pactum sceleris con Tindaro Marino, in forza del quale il collaboratore avrebbe dovuto fare dichiarazioni di favore e Marino lo avrebbe aiutato a rilanciare l’attività di un’azienda, la Ldm Costruzioni Srl che Bisognano attraverso dei prestanome aveva costituito già nel 2013.

La richiesta di misura cautelare era stata avanzata qualche giorno prima proprio da Cavallo e Di Giorgio, i due sostituti che ne avevano gestito sin dall’inizio la collaborazione, determinante per mandare in carcere e a processo una serie di esponenti della mafia di Barcellona.

I due pm si erano fatti delle convinzioni salde sull’esistenza del pactum sceleris e sull’attuazione dello stesso e avevano convinto il Gip Marino.

C’erano infatti molteplici intercettazioni telefoniche e ambientali che attestavano le trattative tra Bisognano e Marino.

E c’era la diversità tra il verbale riassuntivo delle dichiarazioni rese il 30 settembre del 2015 e i verbali di quelle rese negli precedenti da Bisognano e che avevano contribuito alla condanna in appello di Marino (vedi ampio servizio sulla vicenda).

 

La ammissioni di Bisognano….e la tesi difensiva

 

Il collaboratore di giustizia, un mese dopo gli arresti, ha chiesto e ottenuto di essere interrogato dai due pm Di Giorgio e Cavallo: “Ammetto di aver fatto il patto con Marino e che questi in cambio ha acconsentito entrare come socio occulto nella società Ldm Costruzioni Srl dietro la condizione che facessi nuove dichiarazioni sul suo conto. E’ stato un grave errore e una violazione delle regole che mi imponeva il programma di protezione. Tuttavia, non ho detto il falso né ho cambiato versione rispetto a quanto avessi dichiarato prima“, ha dichiarato in sintesi ai due pm.

Insomma – seguendo il ragionamento di Bisognano – Marino  in cambio del suo aiuto economico voleva dal collaboratore delle dichiarazioni di favore; Bisognano ha acceatto la proposta “scellerata”; Marino ha chiesto al suo difensore di sentire Bisognano; questi però poi queste dichiarazioni di favore non le ha fatte; tuttavia, il legale di Marino le ha depositate in Cassazione e in Corte d’appello e Marino stesso è entrato lo stesso in società con Bisognano, offrendo il suo apporto economico per l’attività di Ldm Costruzioni Srl.

In conclusione, Marino – a seguire la tesi difensiva – è stato in qualche modo raggirato da Bisognano.

 

Folgorati sulla via di Damasco

 

Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato la registrazione integrale delle dichiarazioni rese il 30 settembre del 2015 con quelle rese in precedenza, hanno sposato la tesi di Bisognano: “Nelle linee essenziali, le dichiarazioni di Bisognano su Marino non sono cambiate”, hanno scritto nella richiesta di archiviazione.

 

Se il Gip studia…. e non condivide

 

Lo stesso lavoro di confronto tra le dichiarazioni del 30 settembre del 2015 e quelle precedenti lo ha fatto il Gip Marino, che è giunto senza esitazioni a conclusioni invece diametralmente opposte a quelle dei due pm.

“Conclusivamente, può senz’altro sostenersi che Carmelo Bisognano, in ossequio ad accordi presi in precedenza con Tindaro Marino, abbia rilasciato false dichiarazioni sullo stesso Marino, in quanto oggettivamente diverse da quelle rese in precedenza, assolutamente più favorevoli in quanto ne attenuano non poco la sua responsabilità penale e ciò al fine di conseguire un’utilità e un vantaggio di non poco rilievo: poter iniziare a svolgere una nuova e lucrosa attività imprenditoriale al riparo da occhi indiscreti”, ha scritto il Gip Marino.

 

I guai non finiscono mai

 

Per la costituzione della società LDM Costruzioni srl, intestata a teste di legno, Bisognano è sotto processo davanti al Tribunale di Barcellona per il reato di intestazione fittizia di beni.

Di fronte allo stesso Tribunale sta rispondendo anche del reato di Tentata estorsione commessa  i confronti di Giuseppe Torre, titolare della società Torre Srl, che – secondo l’accusa – Bisognano voleva costringere a cedergli dei lavori prospettando la possibilità di fare dichiarazioni accusatorie che coinvolgessero esponenti della famiglia Torre.

Nell’inchiesta Vecchia Maniera è emerso che il collaboratore non solo tesseva la sua trama volta a tornare a operare economicamente, ma grazie alla complicità degli uomini della scorta si muoveva a suo piacimento in località protetta, incontrando persone di Barcellona e altri collaboratori di giustizia. E soprattutto aveva accesso alla banca data della polizia.

La Procura di Roma per quest’ultima condotta, declinata in termini di Violazione del segreto d’ufficio venerdì 7 luglio 2017 ha chiesto e ottenuto gli arresti in carcere per Bisognano. Ai domiciliari sono finiti due carabinieri della scorta (vedi articolo)

Solo un mese e mezzo prima, a distanza di un anno esatto dagli arresti, il Tribunale di Barcellona aveva ordinato la scarcerazione del collaboratore, rilevando tra i motivi per per cui non ci fossero più esigenze cautelari, il fatto che “al collaboratore non fosse stato mai revocato il programma di protezione” (leggi articolo).

Bisognano infatti è rimasto nel programma di protezione benché – come hanno mostrato le indagini del commissariato di Barcellona e come lui stesso ha ammesso – si sia reso protagonista di gravi violazione del regolamento imposto ai collaboratori, a pena di revoca in caso di violazioni.

 

Notizie riservate dall’avvocato, accesso alla Banca dati delle Forze dell’Ordine, incontri a piacimento in località protetta: nella carte dell’inchiesta ecco come il collaboratore di giustizia Bisognano si faceva beffa dello Stato e tesseva le sue trame

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

 

“… il Giudice Salamone gli ha fatto fare la relazione che Stefano Rottino parlava con lei … … cioè proprio ha chiamato il Carabiniere… questa cosa … ora lei mi fa una cortesia, esce tra un poco, cinque minuti e si viene a sedere anche con i Carabinieri dove ci sono io … così se Stefano Rottino viene qua e parla io gli dico: “lei se ne deve andare è una mattinata che ci rompe i coglioni”

E’ il 16 febbraio del 2016. Il procuratore generale Maurizio Salomone vedendolo liberamente colloquiare nel Tribunale di Messina con Stefano Rottino, fresco di condanna per mafia, chiede al carabiniere presente di fare una relazione di servizio.

Il suo avvocato, Mariella Cicero, si allarma, e gli telefona sul cellulare consigliandogli cosa fare per dare una giustificazione (di comodo) ex post allo strano colloquiare di un collaboratore di giustizia con chi era stato un affiliato al clan che capeggiava prima di “pentirsi”.

A Carmelo Bisognano, 51 anni, i contribuenti italiani pagavano la scorta, due avvocati, la casa, i viaggi e un assegno mensile di 1600 euro.

Lui, boss della mafia di Barcellona e autore di decine di delitti, oltre a girare libero e scortato per i Tribunali della Sicilia a puntare l’indice a destra e a manca, consentendo una serie di operazioni di polizia che hanno decapitato i vertici della mafia del Longano, teneva contatti con esponenti dei clan mafiosi impartendo loro istruzioni; svolgeva attività imprenditoriale sotto mentite spoglie, si incontrava a suo piacimento nella località protetta (anche con altri collaboratori di giustizia) e, soprattutto, concordava dichiarazioni assolutorie con condannati per mafia o minacciava di fare dichiarazioni che aveva omesso al fine di ottenere vantaggi economici.

L’inchiesta “Alla Vecchia maniera”, condotta dagli uomini del commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto ha portato il 18 maggio del 2016 Bisognano dalla casa in cui viveva sotto protezione alle celle del carcere e ha mostrato come Bisognano si sia fatto beffa delle Istituzioni e della legge e, in realtà, – secondo gli investigatori – non avesse alcuna intenzione di abdicare definitivamente al suo ruolo di boss mafioso per percorrere la via della legalità.

Le stesse indagini, fatte di intercettazioni e di appostamenti, hanno però portato gli investigatori al convincimento, ora rimesso alla valutazione della Procura di Messina, che tutto ciò sia stato possibile grazie alla complicità di coloro che avrebbero dovuto assicurare la sua incolumità o offrigli assistenza legale: gli uomini della scorta e uno dei suoi avvocati. L’operato di Mariella Cicero, storico collega di studio dell’altro legale di Bisognano, Fabio Repici, infatti, non ha convinto per nulla il dirigente del Commissariato di Barcellona, Mario Ceraolo.

Il vice questore Mario Ceraolo

Il vice questore Mario Ceraolo

 

AVVOCATI NEL MIRINO

Secondo il vice questore, infatti, “Bisognano ha avuto la possibilità di accedere ad informazioni, anche coperte dal segreto istruttorio che quasi quotidianamente gli vengono fornite dal suo difensore Maria Rita Cicero con condotte che non rappresentano soltanto una evidente violazione dei doveri deontologici ma configurano precisi reati penali e che consentono al Bisognano di meglio operare nel comprensorio della provincia di Messina”. Il dirigente Ceraolo evidenzia ai magistrati della Procura di Messina come “I rapporti che intercorrono tra il legale ed il collaboratore di giustizia, come emerso in diverse altre intercettazioni, sono caratterizzati da uno scambio di informazioni a volte anche riservate che sembrano essere estranee al mandato difensivo”. Di più, ha insistito Ceraolo: “Carmelo Bisognano gode di informazioni privilegiate, ed a volte riservate, provenienti dal suo difensore  Maria Rita Cicero, che il collaboratore utilizza per meglio realizzare i suoi disegni criminosi”

Carmelo Bisognano, aveva pure la possibilità di accedere alle banche dati interforze (SDI) “strumento investigativo di grandi potenzialità specie se ne nelle mani di un mafioso e conseguentemente dei suoi complici”, come scrivono gli inquirentiimpegnati ora a dare risposta ad una serie di domande inquietanti.

INQUIETANTI DOMANDE.

Chi gli consentiva l’accesso allo SDI e ottenere informazioni riservate su persone e mezzi è stato lo stesso collaboratore a raccontarlo a magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Messina, nel corso di un lungo e teso interrogatorio avvenuto 15 giorno dopo gli arresti.

Invece, se si provasse che in effetti da parte dell’avvocato Cicero siano state divulgate notizie riservate, sul tavolo dei magistrati della Direzione distrettuale ci sarebbero a cascata altre domande: chi forniva le informazioni riservate all’avvocato Maria Rita Cicero che poi le girava a Bisognano? E, ancora, perché l’avvocato Cicero dava queste informazioni a Bisognano? E perché, lo stesso avvocato si intratteneva in lunghe telefonate con il  collaboratore “estranee” – secondo gli inquirenti – al mandato difensivo e si preoccupava di coprirne gli scivoloni, come il colloquio con Rottino?

 

DIFFAMAZIONE STRISCIANTE

Scrive ancora Mario Ceraolo, in un altro passaggio di comunicazioni inviate alla Procura: In generale va evidenziata l’evidente, quanto preoccupante, inopportunità  delle diffamatorie propalazioni del legale che manifesta una disinvolta tendenza a fornire al collaboratore di giustizia rappresentazioni negative e fuorvianti di appartenenti alle istituzioni”.

E’ lo stesso Ceraolo a rilevare che ad un certo punto, a marzo del 2016, improvvisamente Bisognano si fa molto prudente al telefono. “in questo momento non ce né telefono e né niente, ordina a un suo uomo.

Allo stesso modo e contemporaneamente si trasformano in telegrafici i lunghi colloqui con il difensore Cicero, “la quale – rileva il dirigente Mario Ceraolo – nelle ultime settimane ha evitato – a differenza di quanto accadeva prima – di dilungarsi nelle conversazioni telefoniche intrattenute con il suo assistito limitandosi a brevi comunicazioni di “servizio” “.

Mariella Cicero

Mariella Cicero

 

LA REPLICA DELLA CICERO

L’avvocato Mariella Cicero raggiunta telefonicamente nella tarda serata di venerdì 24 giugno, spiega: “Ho la coscienza apposto di chi ha fatto il proprio lavoro per bene. Non ho nulla da rimproverarmi, se non di aver esperito ogni goccia di energia in questa attività di assistenza. Escludo di aver instaurato con il collaboratore un rapporto di eccessiva confidenza. Nessuna leggerezza c’è stata da parte mia”.

Entrambi i legali di Bisognano, Repici e Cicero, erano presenti quando il collaboratore, tenendo fede all’accordo con l’imprenditore Tindaro Marino, intessuto tramite Lorisco e registrato in presa diretta dagli inquirenti, rilascia le nuove dichiarazioni che alleggeriscono la posizione dell’imprenditore di Brolo.

 

DICHIARAZIONI “ADDOMESTICATE” …

Secondo gli accertamenti del commissariato di Polizia di Barcellona Pozzo di Gotto, fatti di intercettazioni telefoniche, Carmelo Bisognano tramite il fidato Angelo Lorisco, finito anch’egli in carcere, nel 2015 è entrato in contatto con Tindaro Marino, imprenditore di Gioiosa Marea, all’epoca agli arresti domiciliari e in attesa dell’esito del ricorso per Cassazione avverso la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa e del procedimento di appello di confisca del suo patrimonio.

Nel corso dell’estate del 2015, i contatti tra Bisognano e Lorisco sono stati frenetici. Così come quelli tra Lorisco e Marino.

Le intercettazioni – secondo gli inquirenti – hanno evidenziato che, in cambio del denaro necessario a svolgere attività imprenditoriali all’estero attraverso una società intestata a teste di legno, il collaboratore si è impegnato a modificare le dichiarazioni rese in precedenza contro l’imprenditore.

“….Vi interessa poi a tutti e due, in base a quello che ha detto lui ….”, dice Lorisco a Bisognano. Che ribatte: “Ah,mi potrebbe pure interessare a me, per dire… Perché sono più cose che riguardano di più a lui, che a me”. “Certo, lui esce tranquillo… E se liberano, quelli che liberano il cinquanta per cento è tuoCome ha parlato lui… eh se lui è come dice lui che esce tranquillo, sono tanti … perciò vi potete sistemate tutti e due!”, conclude Lorisco.

Promesso, fatto.

 

FATIDICO GIORNO

E’ il 30 settembre del 2015 quando Bisognano assistito dai suoi due legali Fabio Repici e Mariella Cicero risponde alle domande che gli pone nell’ambito di indagini difensive il legale di Marino, Salvatore Silvestro.

Il verbale riepilogativo viene depositato in Cassazione, dove pende il ricorso e, soprattutto, ciò che più interessa Marino, nel procedimento per la confisca dei beni dello stesso imprenditore.

E’ destinato a passare al vaglio di giudici che nulla sanno di cosa avesse detto Bisognano di Marino 5 anni prima. Ma qualcosa va storto. Perché gli sviluppi del patto scellerato sono seguiti in presa diretta dagli inquirenti.

Dal confronto delle dichiarazioni – secondo i magistrati della direzione distrettuale antimafia, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, che anni prima avevano raccolte tutte le dichiarazioni di Bisognano, poi usate nei processi, e il giudice Monica Marino – emergono delle differenze notevoli: Bisognano che aveva dipinto Marino come associato alle organizzazioni e come imprenditore che si è avvalso dei suoi rapporti con la stessa organizzazione per ampliare i suoi affari, lo dipinge 5 anni dopo, a processi fatti, come estraneo alla mafia e vittima.

Il confronto tra le dichiarazioni fatte nel 2010 sul conto di Marino e quelle fatte e contenute nel verbale riassuntivo il 30 settembre del 2015 mostrano – a leggere l’ordinanza di misure cautelari – un virata di rotta clamorosa. Non solo.

Il collaboratore si è dimenticato completamente che 5 anni prima lo aveva indicato come persona che aveva curato per conto dei clan la latitanza di boss di vertice del clan palermitano Lo Piccolo in provincia di Messina.

“Può senz’altro sostenersi che Bisognano in osservanza di accordi precedentemente rese abbia rilasciato su Marino dichiarazioni più favorevoli in quanto ne attenuavano non poco la sua responsabilità penale”, ha scritto il Gip Marino nell’ordinanza di misure cautelari.

ASSISTENZA SILENTE

I legali di Bisognano assistono alla deposizione senza nulla eccepire e senza dimostrare nel corso della stessa alcuna sorpresa. L’avvocato Cicero mentre il collaboratore risponde alle domande sul suo pc scorre i verbali di interrogatorio che Bisognano aveva fatto anni prima sul conto di Marino. L’avvocato Silvestro invece sottolinea che questi verbali lui non li ha mai visti. Il verbale è firmato da tutti i legali e da Bisognano. L’interrogatorio è stato registrato su supporto audio.

“L’interrogatorio di Bisognano – sostiene l’avvocato Cicero – è stato più complesso di quanto il verbale riassuntivo (il solo preso in esame dagli inquirenti) dica. Non appena sarà disponibile il file audio tutto sarà più chiaro. Credo ci sia stato un difetto nelle indagini”.

E gli accordi a monte con Marino e tutta l’attività delittuosa di Bisognano? “Non ne so nulla. Se ci sono stati questi accordi non lo so. Bisogna chiedere a Bisognano, a Marino e alla Procura. Io e il mio collega non ci siamo accorti di nessun cambio di rotta su Marino”.

I due legali non si accorgono del cambio di rotta di Bisognano, benché l’avvocato Cicero quando viene contattata dall’avvocato Salvatore Silvestro che le comunica la richiesta di esame di Bisognano si allarma, temendo un’imboscata da parte di chi (Silvestro) è difensore anche di Saro Cattafi, “nemico” storico di Cicero, Repici e dell’ex presidente della commissione parlamentare antimafia europea Sonia Alfano, della cui famiglia Repici è legale.

In quel momento, infatti, il processo d’appello nei confronti di Cattafi è alle battute finali. Sulla condanna in primo grado con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona sono pesate come macigni le dichiarazioni di Bisognano.

L’avvocato chiama subito Bisognano per sapere se lui sa già di questa iniziativa e per raccomandargli di non prestare il fianco a possibili autogol. Quest’ultimo, prima fa finta di non saperne nulla, poi ammette: “si..si io so tutto…sono chiaroveggente io so tutto e non so..lei lo sa…“, infine, la tranquillizza: “Non si allarmi”. La Cicero lo incalza: “perchè io di questo se devo dire la verità, mi sono preoccupata …“. “No…no…dico io faccio il chiaroveggente poi ognuno può dire quello che vuole…“, ribadisce Bisognano. A cui risponde la Cicero: “si l’ho capito io!.. io già lo sapevo che lei faceva il chiaroveggente…

 

“Avevo rappresentato ai magistrati della Procura l’inopportunità di questa iniziativa ritenendo vi fosse un traccheggio per favorire non Marino, ma Cattafi”, rivela Mariella Cicero.

ALL’INCASSO….

Quattro giorni dopo l’interrogatorio, il 4 ottobre del 2015, Bisognano è al telefono con Lorisco: “Io quello che dovevo fare, per dire per l’affare mio, l’ho fatto, dove sono i soldi? Ma non per me, per fare queste cose”, dice il collaboratore.

Le risorse economiche arrivano qualche giorno dopo.

 

RINUNCIA ALLA DIFESA….MA NON TROPPO

Lo stesso giorno degli arresti, Salvatore Silvestro ha rinunciato all’incarico di difesa di Marino. Mariella Cicero ha aspettato qualche giorno: “Ho rinunciato all’incarico dopo aver letto l’ordinanza e capito che c’è un appendice che può riguardare la mia persona. E io mi devo pure tutelare”, rivela, mettendo così il giornalista alla ricerca delle carte dell’ “appendice”. “Credo – aggiunge il legale – che io abbia delle cose da raccontare come testimone in questa storia e se fossi rimasta legale avrei potuto danneggiare Bisognano”.

La rinuncia all’incarico riguarda solo il procedimento “Alla vecchia maniera”, e non tutti gli altri procedimenti in cui Bisognano è coinvolto come imputato e collaboratore di giustizia ed è difeso pure da Fabio Repici.

E’ quest’ultimo, collega di studio di Mariella Cicero, ad assistere Bisognano nell’inchiesta che gli potrebbe costare la revoca del programma di protezione. E’ con l’assistenza di Repici che Bisognano è stato interrogato dai pm Cavallo e Di Giorgio che gli hanno chiesto conto di una serie di condotte, ma non si sono soffermati neppure un attimo sui rapporti con il suo avvocato.

 

SCORTA… DI COMPLICITA’

Mi controlli se questa persona ha precedenti penali? Mi controlli di chi è questa macchina? Mi controlli se questo mezzo è sotto confisca? Quando Bisognano aveva bisogno di un’informazione riservata gli bastava chiamare Domenico Tagliente (che eseguiva materialmente l’accesso) o Diego Pistelli o Enrico Abbina. Sono tre uomini, carabinieri, del Servizio di Protezione che avrebbero dovuto proteggere Bisognano. Invece, secondo le risultanze delle indagini, avevano instaurato con il collaboratore un rapporto di complicità che sfociava nell’illegalità.

I tre uomini deputati alla protezione di Bisognano, gli consentivano  invece di frequentarsi liberamente, senza che fosse chiesta alcuna autorizzazione, con altri collaboratori di giustizia. E, ancora, consentivano che Bisognano ricevesse visite da parte di Dora Simone, dipendente del comune di Mazzarà “in contatto con diversi soggetti gravitanti in ambienti criminali tra cui lo stesso Lorisco Angelo”, secondo gli inquirenti. Gli inquirenti hanno pure annotato un incontro di Bisognano con Dora Simone al Tribunale di Messina in presenza dell’avvocato Cicero, proprio qualche ora prima che Bisognano rendesse le dichiarazioni che alleggerivano la posizione di Tindaro Marino.

 

IRONIA DELLA SORTE

Il Giudice delle Indagini preliminari Monica Marino, accogliendo la richiesta di arresti avanzata dalla stessa Direzione distrettuale di Messina, che ne aveva curato la collaborazione iniziata sin dall’estate del 2011, è stata molto dura: “Le condotte poste in essere dal collaboratore sono di straordinaria gravità perché da un lato lumeggiano la strumentalizzazione del ruolo di collaboratore di giustizia e dall’altro testimoniano il tentativo posto in essere dallo stesso di reinserirsi nel contesto territoriale di provenienza, non disdegnando per conseguire tali finalità di ricorrere ai metodi illeciti”.

Il Tribunale della Libertà rigettando il ricorso del legali di Bisognano ha condiviso la valutazione molto dura del giudice Marino.

Quest’ultimo giudice, giudicando in abbreviato Saro Cattafi aveva – come ha scritto la Corte d’appello in un passaggio –  “aderito senza riserve al narrato del collaboratore Carmelo Bisognano”, i cui racconti su Cattafi, tendenti ad affermarne l’attualità del ruolo di capo dei capi della mafia di Barcellona, sono stati determinanti per la condanna in primo grado di Cattafi come boss di vertice, ma sono stati ritenuti sguarniti di prova dalla Corte d’appello che, con sentenza emessa prima degli arresti di Bisognano, ha riconosciuto comunque Cattafi colpevole di essere stato sino al 2000 membro dei clan mafiosi, ma come semplice affiliato e non capo dell’organizzazione.

L’ATTENDIBILITA’ SALVATA

I sostituti Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo che ne hanno chiesto gli arresti, hanno sottolineato che l’attendibilità di Bisognano non è messa in discussione dai reati che in ipotesi ha commesso mentre era sotto protezione, visto che le sue dichiarazioni, usate per infliggere condanne pesantissime, sono state sempre puntualmente riscontrate. ll Giudice Monica Marino ha condiviso.

 

 

Cattafi, il capo della mafia di Barcellona ha rischiato di essere ammazzato 2 volte dai sottoposti. Il collaboratore Siracusa irrompe nel processo d’appello. Le incongruenze delle dichiarazioni e il giallo della Smart

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Cattafi foto 2Nel 1993 Carmelo D’amico aveva avuto ordine di ammazzarlo perché ritenuto autore della soffiata che aveva portato alla cattura di Nitto Santapaola. Il killer Mimmo Tramontana tra il 2000 e il 2001 lo voleva ammazzare perché lo riteneva un confidente dell’autorità giudiziaria.

Condannato a 14 anni di reclusione con l’accusa di essere il capo della mafia di Barcellona, Saro Cattafi ha rischiato di morire per mano di due degli uomini più spietati dell’organizzazione di cui era ai vertici.

Dopo il collaboratore di giustizia D’amico, che ha raccontato che Cattafi sfuggì alla morte solo perché egli non riuscì a trovare il momento propizio per eseguire l’ordine che gli diede il boss Sam Di Salvo prima che arrivasse il contrordine, è la volta di Nunziato Siracusa, 45 annni, esponente di rilievo della mafia del Longano e scudiero di Tramontana.

L’ultimo dei collaboratori, detto u cuccu, ha svelato la ferma intenzione di Tramontana non avallata, però, dai boss Sam Di Salvo e Giovanni Rao.

Come D’amico, alla vigilia dell’estate del 1993 nel corso di una mangiata in una masseria aveva saputo che Saro Cattafi era “un amico nostro”, così in un contesto analogo Siracusa, 4 anni dopo, in una stalla ha saputo che Cattafi “era un amico nostro”.

I racconti dell’ultimo collaboratore di giustizia, arrivano nel processo d’appello a carico dell’avvocato di Barcellona, arrestato nell’ambito dell’inchiesta Gotha 3 il 24 luglio del 2012.

Quando l’istruzione dibattimentale sembrava chiusa, la pubblica accusa ha chiesto al presidente della Corte d’appello che il collaboratore sia esaminato. E hanno depositato i verbali e gli accertamenti a riscontro delle sue dichiarazioni.

Tre le vicende narrate: la mangiata “illuminante”; l’intenzione di Tramontana di ucciderlo; l’accoglienza dal carcere di Gazzi riservata nel 2012 a Cattafi.

LA MANGIATA E… LA SMART

La Smart, l’auto a due posti prodotta dalla Mercedes Benz, è stata immessa in commercio per la prima volta nell’ ottobre del 1998. Ma il boss di Barcellona Sam Di salvo a bordo di questa auto si è recato in una stalla di Barcellona di contrada Carmine ad un summit di mafia a cui parteciparono i boss Pippo Gullotti, Giovanni Rao e Saro Cattafi: il fatto è avvenuto prima del 12 febbraio del 1998, quando Gullotti fu arrestato come mandante dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano e dal carcere non è più uscito.

Chi accompagnava Sam Di Salvo ne è sicuro.

Nunziato Siracusa lo ha detto e lo ha ripetuto più volte nel corso dell’interrogatorio reso ai sostituti della Direzione distrettuale antimafia di Messina, Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo.

“Tra il 1997/1998 ci fu una mangiata in una stalla di proprietà di Luigi Crisafulli. Questi era vicino a Sam Di Salvo ma non faceva parte dell’associazione, aveva un fratello che era della Guardia di Finanza. Io ci arrivai con Di Salvo, a bordo di una Smart grigia, l’auto ha due posti. Luigi stava già facendo la carne. Gullotti e Rao arrivarono per conto loro. Poi arrivò una macchina da cui scese Cattafi. L’auto andò via. Di Salvo di Cattafi mi disse: “E’ n’amicu nostru” ”, ha spiegato Siracusa.

 

RISCONTRI BALLERINI

I pm Di Giorgio e Cavallo hanno chiesto ai Ros dei carabinieri i riscontri alle dichiarazioni di Siracusa. La descrizione del casolare fatta da Siracusa è risultata perfettamente attendibile.

Diverso esito, invece, ha avuta un’altra richiesta dei pm: “Di Salvo in quel periodo avesse la disponibilità, anche indiretta, di un’autovettura Smart?”.

I Ros hanno risposto: “Dai controlli di polizia a carico del pregiudicato, non emerge che lo stesso negli anni negli anni 97/98, sia mia stato controllato a bordo di un’autovettura Mercedes Smart”.

Ma che Sam Di Salvo non potesse viaggiare a bordo di una Smart è dato rinvenibile ad esempio su Wikipedia: “ …. La produzione viene allora interrotta e il lancio, previsto per il marzo 1998, viene posticipato ad ottobre dello stesso anno”.

Non solo, incrociando i periodi di reclusione dei partecipanti alla mangiata è emerso che – come scrivono i Ros – “detto incontro si è potuto tenere solo tra il 3 novembre del 1997 e il 9 febbraio del 1998, periodo in cui  Nunziato Siracusa era agli arresti domiciliari”.

Dunque, quest’ultimo ha potuto incontrare Gullotti, Rao, Di Salvo e Caffafi, solo violando la misura cautelare: circostanza questa a cui non ha fatto alcun cenno nel corso dell’interrogatorio.

CATTAFI CAPO MAFIA E CONFIDENTE

“Intorno al 2000, ero imputato insieme a Tramontano nel processo per l’estorsione a Palano. Tramontano andava spesso in escandescenza. Il processo fu caratterizzato da molte tensioni. Il pm era Olindo Canali. Tramontano vide più volte Cattafi parlare con Canali durante le pause. Era convinto fosse un confidente. “L’amu mazzari a chistu cà, l’amu mazzari”, mi ripetè più volte. Tramontano era uno che poteva decidere di ammazzare una persona, però io ci dicia: “Ciù dicisti a Barcellona?”.

Tramontano un giorno mi disse: “Ciu vo’ dire pi favuri a Rao chi l’avi a mazzari?”. Io lo chiesi prima a Sam di Salvo che osservò: “E’ n’amicu…. e poi sunnu cumpari cu Pippu (Gullotti, ndr)”. Ma mi disse parlane con mio fratello Rao. Rao rispose: “Lassa stari, levici manu, cià diri mi ci leva mani”. “.

Siracusa ha spiegato che in genere quando Tramontano e lui decidevano di fare un omicidio Rao e Di Salvo rispondevano: “Se lo ritenete opportuno … se è necessario …”. Mentre in questo caso le cose erano andate diversamente. “Ah, ndamu a teniri u cunfidenti intra”, commentò Tramontana (ammazzato a giugno del 2011, ndr). Tramontana era convinto fosse un confidente e basta, non mi disse mai che era un componente dell’organizzazione”, ha precisato U Cuccu.

L’ACCOGLIENZA… AL FRESCO

“Quando Cattafi entrò in carcere a luglio 2012 fu messo nella stanza al primo piano nella sezione camerotti con Gaetano Chiofalo: poiché quest’ultimo aveva avuto sempre problemi di convivenza, era nella sezione destinata ai palermitani. Gli associati Mariano Foti e Nicola Cannone, esponente quest’ultimo della mafia degli anni 90, erano in una cella al piano di sopra, riservata ai barcellonesi. Quando io arrivai dal carcere di Larino chiesi a Cannone: “Comu mai non vu nchianastivu supra?”. Cannone mi rispose: “Si è voluto stare sotto così non dà nell’occhio. Essendo che poi lo mettono associato a noi a tutti i barcellonesi, perché i barcellonesi eravamo tutti su”, ha narrato Siracusa.

Su richiesta dei due sostituti, i Ros hanno riscontrato positivamente l’ubicazione di cella e i vari spostamenti all’interno del carcere di Gazzi e tra le carceri descritti da Siracusa.