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Estorsione aggravata dal metodo mafioso, Carmelo Bisognano a giudizio per un altro reato commesso mentre era collaboratore di giustizia. Tutti i guai dell’ex capo della mafia di Barcellona, privo della rete del programma di protezione e di recente condannato a 13 anni di reclusione. Mentre il suo legale Fabio Repici continua ad evocare i complotti

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Carmelo Bisognano

Carmelo Bisognano

Estorsione aggravata dal metodo mafioso, commessa mentre lo Stato gli assicurava la protezione e diversi benefici economici, compresa l’assistenza di due legali.

E’ questa l’ultima accusa da cui si dovrà difendere Carmelo Bisognano.

L’ex capo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto, dal 2010 collaboratore di giustizia, è stato rinviato a giudizio dal giudice per le indagini preliminari di Messina Maria Militello.

Il processo inizierà il prossimo 13 maggio davanti al Tribunale di Barcellona.

L’estorsione che gli viene ora contestata, in realtà, è un fatto di (ipotetico) reato emerso nell’ambito dell’inchiesta Vecchia Maniera, che il 18 maggio del 2016 portò in carcere l’ex capomafia, il suo uomo fidato, Angelo Lorisco, e l’imprenditore di Gioiosa Marea, Tindaro Marino.

Il fatto delittuoso era sfuggito ai sostituti della direzione distrettuale antimafia Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo che dopo averne gestito per anni la collaborazione furono costretti in tutta fretta a chiedere la misura cautelare più rigorosa.

Gli inquirenti del commissariato di Barcellona guidati da Mario Ceraolo, infatti, avevano scoperto che Bisognano dalla località protetta, usando Lorisco, aveva costituito una società e aveva iniziato l’attività di imprenditore, sotto mentite spoglie, grazie all’aiuto dell’imprenditore Tindaro Marino, sottoposto anch’egli alla misura di prevenzione patrimoniale e già condannato all’epoca in secondo grado per concorso esterno alla mafia.

Per tornare operativo, poi – secondo gli accertamenti investigativi – Bisognano tramite Lorisco, strumentalizzando il ruolo di collaboratore, aveva preso di mira i membri della famiglia Torre, titolari di un’azienda: nei loro cantieri cominciò a presentarsi assiduamente Lorisco, che spendendo il nome di Bisognano e minacciando dichiarazioni sul loro conto chiedeva utilità di varia natura.

La Procura, oltre all’intestazione fittizia di beni, infatti, a Bisognano e Lorisco aveva contestato il tentativo di estorsione, consistito nell’aver preteso di far lavorare i propri mezzi negli appalti che i Torre avevano in corso di esecuzione.

Il processo, tenuto a Barcellona, si è concluso il 27 settembre del 2017 con la condanna di Bisognano a 5 anni di reclusione, Marino a 2 anni. Lorisco in abbreviato ha avuto tre anni.

Per Lorisco c’è stata già la conferma della condanna nel grado di appello.

Il giudizio di secondo grado per Bisognano e Marino non si è ancora tenuto.

Nel condannare Lorisco, è stato proprio il Gup di Barcellona Fabio Gugliotta a disporre la trasmissione degli atti alla Procura perché valutasse la sussistenza a carico dello stesso Lorisco e di Bisognano e  di un’ulteriore ipotesi di estorsione, questa volta consumata.

L’ultima estorsione

Specificamente, di aver costretto i Torre ad acquistare da loro dei pneumatici per camion di cui non avevano alcun bisogno.

Infatti, i fratelli Torre, Giuseppe e Giovanni, oltre a raccontare che Lorisco, perfettamente informato sull’andamento aziendale, chiedeva insistentemente di poter partecipare ai loro lavori, avevano riferito che erano stati costretti a comprare 5 grossi pneumatici, peraltro di misura diversa da quella adeguata ai loro mezzi.

In sostanza, a parte la discrasia sul numero dei pneumatici, tra il capo di imputazione e quanto dicono i Torre,  è questa l’accusa che ha mosso il sostituto procuratore della Dda Fabrizio Monaco, ottenendo l’avallo del Gup Militello.

Il giovane giudice ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso (che importa un aumento di pena da un terzo alla metà).

L’aggravante…. resuscitata

Il gup Militello l’ha pensata allo stesso modo del collega Gup di Barcellona, Salvatore Pugliese.

Era stato infatti davanti a quest’ultimo giudice che la procura di Barcellona aveva chiesto il rinvio a giudizio ipotizzando l’estorsione consumata ma non aggravata dal metodo mafioso. Pugliese ha, invece, osservato che il reato è chiaramente aggravato dal metodo mafioso perché i Torre si sono convinti a comprare i pneumatici che non servivano per la condizione di assoggettamento determinata dal trovarsi al cospetto di un capomafia.

Così la competenza è tornata alla direzione distrettuale antimafia di Messina, che ha esercitato l’azione penale davanti al Gip distrettuale, Maria Militello appunto.

Il legale Repici, aveva impugnato  la sentenza di Pugliese davanti alla Cassazione, ma è stato bocciato dai giudici con l’ermellino che non sono comunque entrati nel merito.

Le sue argomentazioni non hanno convinto neppure la Militello.

Tutti i nodi vengono al pettine

Carmelo Bisognano, la cui collaborazione ha permesso di mettere alla sbarra vari esponenti della mafia del Longano e di fare luce su diversi delitti, è pure sotto processo a Roma per accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio

Sempre dalle indagini del commissario di Barcellona era pure emerso che due degli agenti (Domenico Tagliente e Enrico Abbina) che dovevano proteggerlo e controllarlo, avevano intessuto con il collaboratore un rapporto di complicità che consentiva a quest’ultimo di muoversi e incontrarsi a suo piacimento, anche con altri collaboratori di giustizia, in violazione di ogni norma regolamentare e, soprattutto, di avere libero accesso al sistema informatico della polizia.

La procura di Roma, guidata da Giuseppe Pignatone, a cui erano stati trasmessi gli atti per competenza territoriale, ha declinato l’accusa in termini di violazione abusiva dei sistemi informatici e di violazione del segreto d’ufficio e ha chiesto la misura del carcere accolta dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Chiara Gallo, ed eseguita il 7 luglio 2017.

Dichiarazioni di favore…forse si…forse no

Le intercettazioni hanno disvelato in maniera chiara che Bisognano in cambio dell’aiuto economico di Tindaro Marino, si era impegnato nell’ambito di indagini difensive a fare nuove e diverse dichiarazioni favorevoli all’imprenditore di Gioiosa Marea, in modo da alleggerirne la posizione in vista del giudizio della Cassazione per concorso esterno alla mafia e di quello diretto al sequestro di tutti i beni nel procedimento di prevenzione patrimoniale pendente in appello.

Dapprima, al momento della richiesta di misura cautelare, i due sostituti Di Giorgio e Cavallo dopo aver confrontato le dichiarazioni rese da Bisognano in precedenza sul conto di Marino con quelle rese il 30 settembre del 2015 al difensore di Marino, Salvatore Silvestro, presenti i difensori del collaboratore Fabio Repici e Mariella Cicero, si erano convinti che questi avesse cambiato effettivamente le dichiarazioni, depositate effettivamente in Cassazione e nel giudizio di prevenzione dal legale di Marino.

Dello stesso avviso il gip Monica Marino, che accolse la richiesta di misure cautelari.

E’ stato lo stesso collaboratore nell’interrogatorio di garanzia ad ammettere: “Mi sono messo d’accordo per modificare le dichiarazioni, ma poi non l’ho fatto”

Proprio a seguito di questa giustificazione, i due magistrati hanno controllato e hanno cambiato idea chiedendo per questo capo di accusa l’archiviazione.

Il Gip Monica Marino è rimasta della sua idea. Ha rigettato e ordinato l’imputazione coattiva: “Le dichiarazioni sono state cambiate per interessi economici”, ha scritto il Gip Marino dopo aver messo ancora una volta a confronto le dichiarazioni.

Tre mesi dopo, il 17 novembre del 2017, un altro Gip del Tribunale di Messina Simona Finocchiaro ha accolto la richiesta di archiviazione ribadita dai due sostituti della Dda.

Tirando le fila, a seguire le conclusioni dell’inchiesta su questa imputazione, Bisognano ha raggirato il suo “socio finanziatore” Marino.

La revoca del programma di protezione

Benché – come hanno mostrato le indagini del commissariato di Barcellona e come lo stesso Bisognano ha ammesso nel corso dell’interrogatorio di garanzia subito dopo l’arresto del 16 maggio del 2017  – si sia reso protagonista di gravi violazione del regolamento imposto a pena di revoca (a prescindere dalla responsabilità penale), Bisognano è rimasto nel programma di protezione sino all’estate del 2017, per oltre un anno e due mesi.

Il 26 maggio del 2017 Il Tribunale di Barcellona (che poi lo ha condannato) su richiesta del suo difensore Repici lo ha scarcerato, anche sulla base della considerazione che il programma di protezione non fosse stato revocato.

Il programma di protezione è stato revocato il primo agosto del 2017, qualche giorno dopo gli arresti ordinati dal Gip di Roma.

Tre mesi prima, il 10 maggio del 2017, il senatore del M5Stelle, Luigi Gaetti, aveva presentato un’interrogazione parlamentare ai ministri della Giustizia e dell’Interno chiedendo spiegazioni sul trattamento di favore che l’ex boss aveva ricevuto e stava ricevendo. L’allora vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, ora sottosegretario di Stato agli Interni, due giorni dopo, però, l’ha ritirata: “Mi è stato detto fosse fondata su dati inesatti”, si è giustificato. “La ripresento appena avrò controllato”, promise.

I dati invece erano veri, ma Gaetti l’interrogazione non l’ha più ripresentata, né ha mai spiegato chi lo avesse indotto a ritirarla.

I legali di Bisognano per contestare la decisione della Commissione centrale si sono rivolti al Tribunale amministrativo del Lazio e poi al Consiglio di Stato.

I giudici amministrativi di primo e secondo grado hanno però ritenuto, almeno nella fase cautelare, legittima la revoca del programma di protezione in quanto giustificata da “gravi e reiterate violazione delle regole imposte ad un collaboratore”.

Di professione… complottista

Tuttavia, per il legale Fabio Repici che, insieme alla collega di studio Mariella Cicero, sin dall’inizio della collaborazione lo ha assistito, Bisognano è vittima di un complotto ordito dal commissario Ceraolo, dall’avvocato Ugo Colonna, da Saro Cattafi, l’avvocato di Barcellona accusato da Bisognano di essere stato il capo della mafia di Barcellona sino al 2012, e dal legale di quest’ultimo, Salvatore Silvestro.

Repici ha indicato una delle possibili finalità del complotto: “E’ stata un’operazione tesa a fare conseguire a Cattafi l’impunità”, ha ripetuto più volte, anche sfidando la logica, senza offrire né fatti, né elementi di prove. Che invece indicano chiaramente come Bisognano autonomamente da collaboratore intraprenda attività e tenga condotte declinate in termini di reati penali da diversi pubblici ministeri e giudici (anche amministrativi) di differenti Tribunali d’Italia.

La cronologia smentisce la dietrologia

Le dichiarazioni di Bisognano su Cattafi, sono state ritenute non riscontrate né credibili dalla Corte d’appello di Messina che riformando la condanna di primo grado ha assolto Cattafi dall’accusa di essere stato non solo capo della mafia ma anche semplice affiliato dal 2000 in poi.

La sentenza della Corte d’appello, che successivamente ha avuto l’avallo della Corte di Cassazione, è del 24 novembre del 2015, 7 mesi prima che Bisognano fosse arrestato nell’ambito di Vecchia Maniera e si conoscessero le imprese che realizzava mentre era collaboratore di giustizia.

 

Obiettivo libertà

La revoca del programma di protezione significa in concreto non solo la perdita dei benefici economici, ma anche l’impossibilità di accedere alle misure alternative al carcere, ovvero a vivere pressoché liberi e protetti benché riconosciuti colpevoli di efferati delitti, obiettivo principale dei collaboratori di giustizia.

Bisognano, salvo che il programma non venga ripristinato o dai giudici amministrativi o per effetto di nuove e inedite dichiarazioni dello stesso collaboratore, dovrà scontare le pene in carcere.

Di recente, è stato condannato con sentenza definitiva a 13 anni di reclusione nell’ambito del processo Gotha 1 per associazione mafiosa e un omicidio, commessi prima di iniziare la collaborazione.

Bisognano, rimasto senza programma di protezione e recluso quindi in carcere, ha continuato a collaborare.

Il ministero degli Interni a tutela della sua incolumità gli garantisce la scorta e speciali misure di protezione.

 

 

 

Inchiesta Terzo Livello, assolta la moglie dell’ex consigliere comunale Giuseppe Chiarella. Il Gip Leanza aveva escluso qualsivoglia indizio di colpevolezza ma la Procura ha tirato dritto chiedendo il rinvio a giudizio. Già a processo Emilia Barrile e gli altri indagati. Ecco le accuse

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Il Giudice per le indagini preliminari aveva seccamente rigettato la misura cautelare degli arresti domiciliari chiesta nell’ambito dell’inchiesta Terzo livello, ma la Procura di Messina, sulla scorta dello stesso identico materiale probatorio, ha comunque insistito per il rinvio a giudizio.

Questa mattina Angela Costa è stata assolta “per non aver commesso il fatto” dal Gup Monia De Francesco.

L’accusa per lei era di aver fatto parte dell’associazione per delinquere capeggiata – secondo gli inquirenti – dall’ex presidente del Consiglio comunale Emilia Barrile.

Angela Costa è la moglie di Giuseppe Chiarella, ex consigliere comunale di Messina e candidato alle ultime elezioni amministrative del giugno del 2018 con la lista Leali della Barrile.

Il gip Tiziana Leanza nel rigettare la misura aveva osservato che pur essendo la donna socia di una coop riconducibile alla Barrile, non sussisteva a suo carico alcun indizio di colpevolezza dell’appartenenza all’associazione per delinquere.

Angela Costa, assistita dal legale Salvatore Silvestro, a fronte dell’insistenza della Procura aveva così domandato il giudizio abbreviato che si è celebrato oggi.

L’inchiesta Terzo Livello è deflagrata il 2 agosto del 2018 con gli arresti dell’esponente politico e di una serie di collaboratori e imprenditori.

Caccia notturna…. ai criminali

 

Benché il giudizio del magistrato Leanza su Angela Costa fosse stato chiaramente liberatorio, il giorno degli arresti degli altri indagati, alle 4 di mattina, nel cuore della notte, alcuni uomini della Dia hanno suonato al campanello di casa sua, svegliando tutti.

Gli agenti, su ordine della Procura, hanno effettuato una perquisizione che non ha determinato alcun esito, se non uno stato di paura e agitazione per i giovanissimi  figli.

Di livello…ma non tanto

 

Tutti le altre persone coinvolte in Terzo livello sono stati rinviati a giudizio, tranne Sergio Bommarito, il patron della Fire spa, la società di recupero crediti di livello nazionale.

In sintesi, la Barrile è accusata di aver creato, insieme al suo mentore e socio Marco Ardizzone, un sistema clientelare fondato su patronati e cooperative e su favori ottenuti grazie al suo peso politico a una serie di imprenditori o manager, che la ripagavano con assunzioni di persone a lei vicine e altre utilità, il tutto al fine di alimentare il suo bacino di consensi elettorali.

A giudizio insieme a Barrile e Ardizzone, il loro luogotenente Carmelo Pullia, lo stretto collaboratore Giovanni Luciano, l’amico di sempre della Barrile nonché imprenditore Francesco Clemente: sono accusati di associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie di reati contro la pubblica amministrazione.

Reati declinati nel reato di Traffico di influenze illecite.

A giudizio anche l’ex presidente dell’Amam Leonardo Termini; l’ex direttore amministrativo dell’Atm Daniele De Almagro; gli imprenditori Antonio Fiorino, Angelo e Giuseppe Pernicone; Vincenzo Pergolizzi e i suoi figli Sonia e Stefania, il genero Michele Adige, la sorella Teresa Pergolizzi, il suo uomo di fiducia Elio Cordaro, la dipendente storica Vincenza Merlino.

Lavoro di pubblica utilità

 

Sergio Bommarito, invece, ha chiesto e ottenuto la sospensione del procedimento penale attraverso l’accesso all’istituto della messa alla prova: nel caso di superamento positivo del trattamento rieducativo che consiste nello svolgimento di un’attività di utilità sociale il reato che gli viene contestato di Traffico di influenze illecito verrà dichiarato estinto.

Era accusato, in specie, di aver chiesto alla Barrile il disbrigo di alcune pratiche al Comune e di intercedere su Leonardo Termini in modo da favorire il pagamento di una fattura milionaria a favore della Fire che l’Amam riteneva non fosse del tutto dovuta.

In cambio, sempre secondo l’impianto accusatorio, ha fatto donazioni di denaro ad alcune società sportive e alcune assunzioni.

Imprenditori intraprendenti

Tony Fiorino, titolare della Despar di Messina, alla Barrile chiese aiuto per ottenere il via libera alla costruzione di un centro commerciale a Sperone e per avere dagli uffici comunali informazioni riservate su suoi concorrenti. In cambio, operava assunzioni e prometteva lavoro nella eventuale costruzione dello stesso centro commerciale.

Angelo e Giuseppe Pernicone, padre e figlio, sotto inchiesta nel processo Matassa per Associazione per delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni, alla Barrile chiesero intercessione per ottenere la concessione dello stadio San Filippo per il concerto dei Pooh, nell’ambito del quale avrebbe dovuto lavorare la loro cooperativa, in cambio di un coinvolgimento pure della cooperativa dell’esponente politico.

Vincenzo Pergolizzi, l’imprenditore noto a Messina per aver costruito il complesso Aralia su Montepiselli, finisce nell’inchiesta sulla Barrile e poi in custodia cautelare in carcere perché – secondo la Procura – si rivolge all’ex presidente del Consiglio e a Clemente per ottenere lo sblocco di alcune pratiche per la costruzione di un’abitazione su via Bisazza in cambio della promessa di commesse negli eventuali lavori.

Dalle indagini è però pure emerso che Pergolizzi aveva appena effettuato una serie di operazioni di cessione delle sue quote societarie, oggetto qualche anno prima di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, annullato successivamente dalla Cassazione, a favore dei suoi stretti collaboratori o congiunti.

Le operazioni societarie sono state considerate illecite della Procura che le ha inquadrate nel reato di Trasferimento fraudolento di valori: sono state effettuate infatti mentre pende a Reggio calabria il giudizio di prevenzione dopo la sentenza di annullamento con rinvio della Cassazione.

Per la Procura sono state fatte proprio per eludere il possibile nuovo sequestro preventivo.

Manager operosi

Leonardo Termini deve difendersi dall’accusa di Turbativa d’asta per aver favorito nel 2015 una coop riconducibile alla Barrile nell’aggiudicazione di un appalto all’Amam.

De Almagro, in cambio del sostegno della Barrile,  necessario per la sua riconferma nell’azienda dei trasporti, ha determinato – secondo la Procura –  l’assunzione temporanea come autista di persona segnalata dallo stesso esponente politico: fatto declinato nel reato di Induzione indebita a dare o promettere utilità.

 

Guerra di potere nell’Associazione nazionale familiari vittime della strada, Pina Cassaniti non è presidente da anni ma continua ad agire come se lo fosse. Anche nei processi per omicidio stradale. Il balletto delle dimissioni e il ruolo del figlio Marcello Mastrojeni, direttore dell’Inps di Messina

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Pina Cassaniti con l'assessote Carlotta Previti il giorno del

Pina Cassaniti con l’assessore comunale Carlotta Previti il 18 novembre del 2018 nella giornata in ricordo delle vittime della strada

Quando è parso evidente, visto l’imprevisto cambiamento dei consensi, che da lì a qualche ora l’assemblea dei soci l’avrebbe sostituita si è dimessa da presidente dell’Associazione nazionale familiari vittime della strada.

E un attimo dopo ha abbandonato la presidenza del consesso tenuto a Roma il 27 aprile del 2013 il figlio.

Ma i lavori dell’assemblea sono continuati egualmente e così è stato eletto il nuovo presidente e il nuovo consiglio direttivo.

Pina Cassaniti Mastrojeni non è presidente dell’Associazione nazionale familiari vittime della strada Onlus da quel giorno di quasi 5 anni, come ha riconosciuto un lodo arbitrale risalente al 2 settembre del 2017 e chiaro nel dichiarare presidente dell’associazione Alberto Pallotti, un attivista veronese.

Tuttavia, la professoressa di Messina non si è data per vinta.

Decisa a prolungare ancora la guida dell’Associazione, di cui prese le redini nel 2001, ha continuato sino all’altro ieri a presentarsi come presidente di una delle Onlus più potenti d’Italia in tutte le sedi: nei processi penali per omicidio stradale o colposo in cui c’era da costituirsi parte civile (per esempio, nel processo per l’omicidio stradale di Lorena Mangano tenuto al Tribunale di Messina), negli interventi a convegni, negli incontri istituzionali (da ultimo il 18 novembre 2018 a Messina nella giornata dedicata al ricordo delle vittime della strada), nelle interviste.

Per la mamma di Valeria Mastrojanni, la ragazza la cui vita fu falciata a 17 anni nel 1997 da un automobilista killer nel centro di Messina, neppure il lodo arbitrale emesso dall’avvocato Carlo Affinito, nominato dal presidente del Tribunale di Roma, ha alcun valore, benché il codice civile dica cose opposte.

Il lodo immediatamente vincolante, che stabilisce “l’obbligo della Cassaniti di cessare ogni condotta volta a ostacolare la gestione da parte del legittimo presidente”, pur impugnato per una serie di vizi procedurali e formali davanti al Tribunale di Roma dove pende il relativo giudizio, ma per la professoressa di Messina è come se non esistesse.

Ne è derivato un conflitto gravissimo, una vera e propria guerra senza quartiere, fatta di denunce penali, controversie civili e accuse via facebook, tra il presidente Pallotti e la sedicente presidente Cassaniti, tra i sostenitori del primo e i fedelissimi della seconda.

Una guerra per nulla favorevole ai familiari delle vittime della strada e alla stessa autorevolezza dell’associazione.

Effetti collaterali

E’ così capitato, da ultimo, solo per fare un esempio, che all’udienza preliminare del 13 dicembre 2018 del processo per la strage di un gruppo di studenti ungheresi, avvenuta nella notte del 20 gennaio 2017, quando un  autobus di ritorno da una gita in Francia si schiantò contro un pilone dell’autostrada Serenissima, l’Associazione ha domandato di costituirsi con due avvocati diversi, delegati da due presidenti diversi: uno da Pallotti, l’altro da Cassaniti.

Quest’ultimo ha chiesto l’estromissione dell’Associazione rappresentata da Pallotti, già costituita in un’udienza precedente.

Il Gup di Verona, Luciano Gorra, non ha potuto fare altro che stabilire l’efficacia vincolante del lodo arbitrale firmato da Affinito e consentire la costituzione della Associazione con legale rappresentante Pallotti, escludendo quella con (sedicente) presidente Cassaniti.

Due presidenti….nessun presidente

In tempi precedenti al lodo, c’è chi come il Tribunale di Parma di fronte a due presidenti che si sono presentati come legittimi rappresentanti della Onlus è stato salomonico: ha escluso tout court l’associazione trasmettendo gli atti alla procura della Repubblica perché verificasse la sussistenza del reato di sostituzione di persona.

E’ accaduto il 3 marzo del 2017 al Tribunale di Parma, nel processo per accertare eventuali responsabilità nell’incidente che il 23 giugno del 2012 costò la vita a tre persone: la ventisettenne di Parma Fiorentina Zoto, che precipitò da un cavalcavia e spezzò anche la vita di due settantenni milanesi, Giacomo Carrera e la cognata Concetta Aleo, che percorrevano in quel momento l’autostrada sottostante.

L’assemblea della discordia

 

L’assemblea dei soci è stata convocata per il 27 aprile 2013 a Roma, in via Casilina. Diversi i punti all’ordine del giorno, tra cui il rinnovo delle cariche sociali.

Pina Cassaniti è la “presidentissima” dell’Associazione da 12 anni.

La mamma di Valeria è sicura dell’ennesima riconferma, benché da tempo all’interno dell’associazione si sia formato un ampio e forte dissenso sul suo modo autocratico e personalistico di guidare l’Onlus.

La Cassaniti non si cura delle critiche e infatti a presiedere l’assemblea viene posto il proprio figlio Marcello Mastrojeni, attuale direttore dell’Inps di Messina.

Nel corso dei lavori vengono sollevati dubbi sulla trasparenza, democrazia interna e gestione contabile e preoccupazioni per la perdita di bilancio di circa 50 mila euro; vengono fatte le pulci ad alcune spese e viene evocato il possesso della Cassaniti di una serie di deleghe in bianco da parte di ignari soci  da usare nelle votazioni previste per quella giornata.

L’assemblea si divide tra i sostenitori della Cassaniti e un gruppo di agguerriti attivisti coagulati attorno alla figura di Pallotti.

Rimestare la melma….

 

Volano parole grosse e accuse reciproche.

Solo per dare il senso del livello del confronto, Pallotti accusa la Cassaniti di aver usato i soldi dell’associazione per rimborsi spese non dovuti al figlio e per avere donato denaro dell’associazione a una socia sua alleata che l’ha usati per scopi diversi da quelli sociali.

Cassaniti, a sua volta, accusa Pallotti di aver acquistato, in qualità di presidente di una sede, con denaro dell’associazione beni per 9 mila euro da ditte riconducibili a propri stretti familiari.

La disfida degli autobus

 

Nel corso della mattinata diventa ulteriore motivo di scontro l’arrivo di un bus da Potenza, con a bordo una trentina di soci, 15 dei quali studenti, schierati dalla parte della Cassaniti.

L’opposizione insorge: “Non sanno neppure perché sono venuti sino a quà”, accusano in molti.

In un clima di contrapposizione e batti e ribatti, si arriva all’ora di pranzo e si va in pausa.

Intorno alle 16, d’improvviso, a sparigliare i giochi, giungono a sorpresa due pullman gran turismo dalla Campania. Questa volta portano soci e voti a sostegno del gruppo Pallotti.

L’arrivo dei tre autobus ribalta la maggioranza. Prevedere l’esito delle successive votazioni diventa facile.

Il colpo di scena

 

Alla ripresa dei lavori, alle 17, la professoressa Cassaniti prende la parola e con voce ferma e serena afferma: “Io ho portato avanti un’associazione diversa da questa. L’associazione non risponde più a criteri su cui l’ho guidata. E’ cambiata. Non mi sento di rappresentare un’associazione come questa, di un livello che calpesta la dignità della persona. Pertanto, lascio la presidenza. Siccome l’esigenza di cambiamento voi la sentite, gestitevela. Vi saluto, buonasera e buona continuazione. L’unica cosa che vi dico è: non fate abbassare il livello dell’associazione“, ha concluso, ricevendo gli applausi compiaciuti da parte degli oppositori.

A ruota, il figlio lascia la presidenza dell’assemblea. I due si allontanano dalla sala.

Tuttavia, gli altri soci, per nulla intenzionati a tornarsene a casa, dopo aver sostituito il presidente e aver preso atto delle dimissioni della Cassaniti, vanno avanti.

Marcello Mastrojeni quasi si meraviglia. Così torna nella sala e prende la parola interrompendo i lavori: “Nel momento in cui mi sono ritirato assieme a mia madre, l’assemblea è sciolta e nessuna efficacia hanno le deliberazioni“, precisa, così disvelando quale fosse lo scopo delle dimissioni.

La sortita di Mastrojeni non ha effetto alcuno: i soci discutono e deliberano. Tra questi, alcuni vicini alla stessa Cassaniti. Si procede a verbalizzazione. Vengono eletti i nuovi vertici.

The day after

 

La professoressa Cassaniti e il figlio, un passato da dottorando di diritto penale, però, non si rassegnano.

L’obiettivo diventa porre nel nulla le deliberazioni dell’assemblea di qualche giorno prima.

L’ormai ex presidente qualche giorno dopo invia su carta intestata della presidenza un avviso: “In assenza delle condizioni minime di sicurezza il presidente dell’assemblea è stato costretto a chiudere i lavori di assemblea. Nessuna deliberazione è stata assunta“, ha scritto.

Nei giorni successivi Il figlio redige un verbale della assemblea molto preciso e dettagliato  che avvalora la tesi dei tumulti, della violenza e delle minacce: “La presidente rilevata l’impossibilità di rilevare in quell’adunata tumultuosa lo spirito dell’associazione annuncia l’intenzione di fare un passo indietro ed esce dalla sala. Si riesce, in tal modo, a garantire che i numerosi soci che si sono sentiti minacciati possano abbandonare la sala in condizioni di sicurezza“, scrive l’attuale direttore dell’Inps di Messina.

Che di questo clima di violenza e minacce nessun cenno aveva fatto – come emerge dalla registrazione audio –  duranti i lavori, né prima né dopo le dimissioni della mamma.

Tesi ballerine

Secondo la Cassaniti e il figlio, dunque, le dimissioni non hanno valore perché frutto del clima di violenza che si era determinato e della necessità di evitare guai peggiori.

Così, allo stesso modo, non hanno alcuna efficacia le deliberazioni adottate successivamente perché l’abbandono dell’assemblea da parte di madre e figlio aveva come effetto giuridico lo scioglimento della stessa.

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L’arbitro boccia mamma e figlio

L’arbitro Affinito però non ha creduto al verbale redatto dal direttore dell’Inps di Messina, anche la registrazione audio la smentisce: “La verbalizzazione redatta da Mastrojeni è ricca di valutazioni ultronee, nonché di descrizioni di sensazioni personali per fatti di cui non v’è traccia nelle registrazioni“, sottolinea l’arbitro. Che nelle 108 pagine del lodo ha concluso.”Può senz’altro escludersi qualsiasi turbativa violenta della libertà delle persone intervenute nell’assemblea“,

Dunque, la volontà della Cassaniti non è stata coartata e le dimissioni sono valide.

Sotto il profilo giuridico risulta “del tutto infondata – secondo l’avvocato Affinito –  la tesi secondo cui l’abbandono del presidente dell’assemblea determini lo scioglimento della stessa prima che si proceda alla votazioni dei punti all’ordine del giorno”.

Dunque, l’assemblea del 27 aprile 2013 era pienamente valida e così il rinnovo della cariche sociali. E per contro, illegittime tutte le attività svolte da quel momento in poi in qualità di presidente dalla Cassaniti, per la quale però non solo l’assemblea che l’ha sostituita ma pure il lodo continua a valere zero.

Epurazioni

Tra le attività illegittime l’espulsione di Alberto Pallotti (il vero presidente) e di diversi soci che avevano contribuito a cambiare i vertici dell’associazione.

 

 

IL CASO (semiserio): Tempostretto ha copiato o il giornalista vittima della novella Gutenberg scambia lucciole per lanterne? La direttrice della testata on line Rosaria Brancato mette in crisi Michele Schinella. Il giudizio ai lettori

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La direttrice di Tempostretto Rosaria Brancato

La direttrice di Tempostretto Rosaria Brancato

 

L’incidente – se così lo si vuole chiamare – invero di poca importanza è nato dalla lettura di un articolo a firma Alessandra Serio dal titolo: “Operazione beta 2, oggi gli interrogatori. Al confronto anche Parlato”, apparso il 30 ottobre del 2018 sulla testata giornalistica on line Tempostretto, in cui si racconta degli arresti di Salvatore Parlato, il funzionario del Comune di Messina accusato di essere stato corrotto dagli esponenti del clan Romeo.

“Per dindirindina – ha pensato il lettore Michele Schinella, per puro caso anche giornalista – quello che leggo specie nella parte centrale mi ricorda ciò che scrissi un anno fa: stesse frasi, stesso stile”.

Un rapido controllo nell’archivio del suo blog www.micheleschinella.it lo ha reso orgoglioso di questa professione: “Una testata così prestigiosa ha copiato e incollato periodi interi di un mio articolo, modificando qualche verbo, forse non ritenuto appropriato”, ha osservato.

Precisamente, si trattava dell’articolo scritto un anno prima, il 27 settembre del 2017, dal titolo: “Le mani della mafia sul risanamento: l’assessore Sergio De Cola impermeabile, l’intermediazione dell’amico Raffaele Cucinotta, la distrazione decisiva dell’architetto Salvatore Parlato. Ecco cosa dicono le carte dell’inchiesta sul clan capeggiato da Enzo Romeo”.

Nel pezzo, quando ancora Parlato non era indagato si mettevano in evidenza i comportamenti “strani” del funzionario del Dipartimento Urbanistica nella vicenda dell’acquisto da parte del Comune di alcuni immobili da destinare ai baraccati di fondo Fucile.

“Che onore! Sono lusingato!”, ha esclamato fra sé e sé Schinella.

Poi ha riflettuto: “Ma i lettori, a favore del cui diritto di essere informati correttamente tale testata si batte coraggiosamente a dispetto delle minacce operate da sindaci liberticidi e da indegni detrattori, non ne dovrebbero essere informati?”.

A questo fine ha scritto una mail alla direttrice Rosaria Brancato e all’amministratore della società editrice Pippo Trimarchi: “Sono onorato che interi brani del mio articolo siano stati copiati e incollati, vi prego però di farlo sapere pure ai lettori”, questa la sintesi della mail inviata giovedì 8 novembre 2018.

La risposta della direttrice Rosaria Brancato giunge due giorno dopo e fa entrare in uno stato di preoccupazione Schinella: “Ho esaminato i testi. Non ho riscontrato alcun copia-incolla da parte della collega. Le parti che risultano uguali infatti sono le trascrizioni delle intercettazioni che fanno parte dei provvedimenti emessi dai magistrati e che, gioco forza, non possono che essere uguali sia rispetto al tuo articolo che a quelli di altri colleghi che se ne sono occupati“, ha risposto la direttrice.

L’amministratore Trimarchi è rimasto silente.

La Brancato ha ammesso che ci sono parti uguali, ma si tratta di trascrizioni di intercettazioni, per loro natura uguali per tutti.

Dunque, Michele Schinella ha visto un copia incolla dove non c’era. Ha scambiato lucciole per lanterne.

E’ superfluo dire che per un giornalista si tratta di una cosa davvero molto grave. E preoccupante: “Non potendo certo pensare che le Sue conclusioni (e quelle dell’editore) siano frutto di mancanza di capacità tecniche o di onestà intellettuale, qualità queste che Le sono riconosciute all’unanimità, per mia tranquillità mi trovo nella necessità di capire se io abbia preso un abbaglio tanto grosso quanto grave“, ha sottolineato Schinella in un’ulteriore mail alla direttrice .

Detto, fatto. Chi più del lettore può togliere il dubbio a Schinella?

La parola ai lettori

Scriveva Schinella il 28 settembre del 2017:

schinella su parlato 1

Riporta Tempostretto il 30 ottobre del 2018, un anno e un mese dopo:

tempostretto copia 1

Per la Brancato le parti uguali dipendono dal fatto che si tratta di un’intercettazione, la cui trascrizione in quanto tale è uguale per tutti i giornalisti.

Tuttavia, la direttrice non sa o, ipotesi assurda, fa finta di non sapere che: il termine suggerire riferito da Schinella a Raffaele Cucinotta e usato pure da Tempostretto nella carte dell’inchiesta non c’è; che gli inquirenti trascrivono il colloquio senza accompagnare lo stesso da verbi dice, aggiunge, afferma, risponde, chiede ecc e alcuni di questi verbi risultano identici nei due testi; che nel caso di specie, Schinella omette alcuni passaggi della breve trascrizione riportata negli atti dell’inchiesta che per puro caso risultano omessi pure dalla giornalista di Tempostretto.

Ma non è certo questo passaggio che da solo ha fatto andare in brodo di giuggiole Schinella, ritenutosi l’ispiratore di Tempostretto.

Scriveva, infatti, Schinella il 27 settembre del 2017:

schinella parlato 2 bis

Riporta Tempostretto a un anno e un mese di distanza, il 30 ottobre del 2018:

tempostretto su parlato 2 bis

Ora, è palese che quanto scrive Schinella non è un’intercettazione, come ha affermato la direttrice Brancato. Né si tratta di valutazioni fatte dagli inquirenti, dai pm o dal Gip.

Si tratta di una ricostruzione di fatti e di una conclusioni cui è giunto autonomamente dopo aver compulsato le carte dell’inchiesta, un anno prima degli arresti di Parlato, quando questi non era neppure indagato.

Eppure, Tempostretto l’ha riportata 13 mesi dopo nella stessa identica formulazione (a parte il verbo vaglio invece di controllo), virgole incluse.

Ma le strane coincidenze continuano.

Scriveva ancora Schinella il 27 settembre del 2017:

schinella su parlato 3

Riporta Tempostretto il 30 ottobre del 2018:
tempostretto su parlato 3 bis

 

Anche in questo caso, non si è in presenza di intercettazioni, né di valutazioni degli inquirenti, ma della sintesi autonoma da parte di Schinella di un lungo interrogatorio cui viene sottoposta la dirigente Canale.

Tempostretto 13 mesi dopo la riporta nell’identica formulazione, virgole e virgolette incluse, con la sola modificazione del verbo sottolineare con quello spiegare che sarà sembrato più appropriato. O forse semplicemente, un modo (maldestro) per camuffare il copia incolla.

Peccato, perché alla giornalista di Tempostretto sfugge che c’era una ripetizione piuttosto evidente nel testo di Schinella (i funzionari preposti al controllo avevano l’obbligo di controllare) maggiormente meritevole di…controllo e di correzione.

Ma non è finita.

Scriveva ancora Schinella il 27 settembre del 2017:

Schinella su parlato 4

Riporta Tempostretto il 30 ottobre del 2018

tempostretto su parlato 4

Neppure in questo passaggio c’è un’intercettazione o una valutazione degli inquirenti. Né questo passaggio lo si trova negli atti dell’inchiesta.

C’è la ricostruzione di un procedimento amministrativo, rilevante più nell’ottica della difesa che della pubblica accusa.

Eppure, a distanza di oltre 12 mesi è riportato da Tempostretto tale e quale, identico.

In questo caso, eccezionalmente, non è stato modificato neppure un verbo.

I verbi in questa occasione hanno superato il severo esame di chi ha regalato a Schinella un attimo di sano ma non serio narcisismo.

 

Calcioscommesse, la palla passa al Gup Tiziana Leanza. La Procura di Messina chiede il rinvio a giudizio per mister Arturo Di Napoli, il vicepresidente Pietro Gugliotta e altre 15 persone tra calciatori e scommettitori. Nel frattempo il Tribunale della Libertà ha salvato a metà l’impianto accusatorio, in precedenza demolito dal Gip Monica Marino

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Il commercialista Pietro Gugliotta

Il commercialista ex vicepresidente del Messina Calcio, Pietro Gugliotta

 

 

L’udienza preliminare è stata fissata per il 21 gennaio 2019.

Quel giorno il giudice Tiziana Leanza dovrà decidere se e chi tra i 17 imputati dell’inchiesta sulle partite truccate del Messina calcio nella stagione 2015/ 2016 deve andare a processo.

Il 17 settembre del 2018 Il sostituto procuratore Francesco Massara titolare delle indagini ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex allenatore del Messina calcio Arturo Di Napoli, il commercialista Pietro Gugliotta vicepresidente della società sportiva e i calciatori  Alessandro Berardi (portiere), Stefano D’Addario, Daniele Frabotta, Andrea De Vito; il manager della Paganese Cosimo D’Eboli; l’allenatore della stessa squadra campana Gianluca Grassadonia e il calciatore Piersilvio Acampora.

Sulla graticola anche un gruppo di scommettitori (alcuni titolari di fatto di agenzie di scommesse) collegati stabilmente in quanto parte di un associazione criminale – secondo l’accusa – con mister Di Napoli, Gugliotta e Berardi: si tratta di Eros Nastasi, Ivan Giuseppe Palmisciano, Fabio Russo, Giuseppe Messina, Alessandro Costa, Halim Abdel Khalifeh, Giovanni Panarello, Andrea De Pasquale.

Associazione per delinquere finalizzata a truccare le partite e a truffare le agenzie di scommesse e una serie di ipotesi di Frode sportiva, tante quanto le partite finite sotto la lente: sono questi i reati contestati.

Sulla base del materiale probatorio raccolto dalla Guardia di Finanza (e fatto di intercettazioni telefoniche, analisi dei tabulati, interrogatori e analisi dei flussi delle giocate), il magistrato Massara è arrivato alla conclusione che Re Artù, il bomber delle stagioni d’oro del Messina in serie A, è colui che ha promosso l’organizzazione criminosa e l’ha diretta sia mentre era allenatore sia successivamente: a febbraio del 2016 fu infatti costretto a lasciare la guida della squadra perché colpito da squalifica per aver truccato da allenatore del Savona la partita della sua squadra con il L’Aquila nella stagione 2014/2015.

Le partite nell’occhio del ciclone

Per gli inquirenti otto sono le partite alterate: Casertana Messina del 21 dicembre del 2015; Messina Paganese del 14 febbraio del 2016; Akragas Messina del 24 aprile del 2016; Messina Martina Franca del 9 gennaio del 2016; Catania Messina del 24 marzo del 2016; Lecce Messina del 5 dicembre del 2016, Messina Benevento del 16 gennaio del 2016; Messina Monopoli del 30 gennaio del 2016.

Tutte sono state contrassegnate da flussi di giocate anomale.

La Frode poco….sportiva

Specificamente, in relazione a tutte le otto partite ipoteticamente truccate, Di Napoli, Gugliotta e Berardi, oltre che di associazione per delinquere, sono anche accusati di Frode in competizione sportiva aggravata “per aver promesso o offerto denaro ed altre utilità o vantaggio a calciatori del Messina e delle altre squadre avversarie al fine di alterare il risultato della partita, o per aver usato altri mezzi fraudolenti”, come si legge nel capo di imputazione,

Un impianto accusatorio dai piedi di argilla

Il giudice Leanza nello stabilire se ci sono elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio nei confronti dei vari imputati e di conseguenza rinviarli a giudizio, si troverà sul tavolo le valutazioni non del tutto positive fatte sull’impianto accusatorio da parte della collega Gip Monica Marino e dei colleghi del Tribunale del Riesame presieduto da Antonino Genovese.

Infatti, il 24 novembre del 2017 il pubblico ministero Massara aveva chiesto una serie di misure cautelari nei confronti degli indagati: il carcere per Di Napoli; gli arresti domiciliari per Gugliotta, Berardi e gli 8  scommettitori strettamente collegati al trio.

Il giudice Marino “boccia” il pm Massara

Tuttavia, il 23 aprile del 2018 il giudice Marino ha rigettato la richiesta di misura per tutti.

Il Gip si è trovato d’accordo con il pm Massara (sia pure parzialmente) sulla ricostruzione dei fatti salienti della vicenda.

Ad avviso della Marino le intercettazioni, i tabulati telefonici e alcune dichiarazioni testimoniali, oltre che i flussi di giocate anomale, permettono di affermare che l’esito di tre delle 8 partite indicate dal pm è stato aggiustato: Casertana Messina del 21 dicembre del 2015; Messina Paganese del 14 febbraio del 2016; Akragas Messina del 24 aprile del 2016.

Così come permettono di sostenere che dopo aver truccato le 3 partite siano state fatte puntate vincenti da persone in contatto con Di Napoli e Gugliotta.

Tuttavia – ha concluso il Gip Marino, che ha rilevato delle carenze investigative – non è stato trovato ed offerto alcun indizio prova della promessa di denaro o altra utilità o della corresponsione della stessa ad individuati calciatori, necessari per configurare il reato di Frode sportiva. Mancando indizi sulla sussistenza dei reato fine dell’associazione non è possibile -secondon il giudice – neppure contestare l’associazione per delinquere.

Il Tribunale del Riesame dixit

Il pm Massara ha fatto appello contro la decisione del Gip Marino, ritenendo non fondate le conclusioni a cui questa era giunta e per contro ben solide le risultanze dell’inchiesta.

L’udienza davanti al tribunale del Riesame si è tenuta il 2 luglio del 2018 ma la decisione con le motivazioni è stata depositata Il 25 ottobre del 2018, dopo che Massara aveva gà chiesto il rinvio a giudizio per tutti i 17 indagati mantenendo fermi i capi di imputazione pure bocciati dal Gip Marino.

Il collegio coordinato dal giudice Genovese ha escluso la sussistenza di indizi di prova dell’associazione per delinquere, come aveva fatto la Marino, ma con argomentazioni diverse: “E’ insostenibile la ricorrenza della fattispecie associativa: difettano elementi indiziari univocamente sintomatici della ricorrenza del pactum sceleris o di un accordo stabile; della predisposizione di un programma delinquenziale, dell’esistenza di una struttura organizzativa, anche se minima e rudimentale; della consapevolezza da parte dei singoli di condividere l’attuazione di un programma criminoso“.

Azzoppata… ma non azzerata

Il Tribunale del Riesame tuttavia, al contrario della Gip Marino, ha “salvato” il reato di Frode in competizione sportiva in riferimento alle due partite considerate truccate, indicando alla pubblica accusa una via: “Se può convenirsi con il Gip che le indagini non hanno accertato offerte o promesse indebite, accordi corruttivi e passaggi di denaro, per configurare il reato è tuttavia sufficiente (secondo la norma e la giurisprudenza di legittimità) la ricorrenza di qualsiasi atto fraudolento. Dunque, è sostenibile sotto il profilo indiziario che Di Napoli e Gugliotta, unitamente a taluni partecipanti alle due gare truccate, siano stati protagonisti di accordi rivolti ad alterarne l’esito”, ha scritto il Tribunale del Riesame.

 

Alla faccia dei tifosi

Le due partite (delle tre partite individuate dal Gip e delle 8 dal pm) sono Casertana Messina del 21 dicembre del 2015; Messina Paganese del 14 febbraio del 2016.

Non a caso le due uniche partite in cui la Procura ha individuato e messo sotto procedimento penale i calciatori che con la loro condotta hanno influito sull’esito della stessa.

Segnatamente, per alterare Casertana Messina finita con la vittoria della squadra di casa per 4 a 1, il trio Di Napoli Gugliotta e Berardi avrebbe “avvicinato” i messinesi D’Addario, De Vito e Frabbotta, autori di una prestazione molto negativa.

Più complessa la combine che nella ricostruzione della Guardia di Finanza ha riguardato Messina Paganese terminata 2 a 2, primo tempo 1 a 0 per la squadra ospite

Secondo gli inquirenti i tre si sono avvalsi dell’aiuto del manager Cosimo D’Eboli, già squalificato per aver truccato partite nell’inchiesta in cui fu coinvolto Di Napoli, e dell’allenatore Grassadonia.

Il manager venne  contattato più volte alla vigilia del match proprio da Di Napoli, con cui non si sentiva quasi mai.

Grassadonia invece ha fatto entrare nel corso della partita il calciatore (quasi mai utilizzato) Piersilvio Acampora autore, qualche minuto dopo, di un clamoroso autogol che ha propiziato il pareggio giallorosso.

Mentre il primo tempo, era stato contrassegnato da un grave errore del portiere Berardi che era costato il vantaggio della squadra ospite.

Gli inquirenti hanno accertato diversi contatti telefonici alla vigilia delle due partite tra Di Napoli e Gugliotta e tra questi e il gruppetto degli scommettitori imputati.

Quest’ultimi hanno proceduto a diverse puntate tutte vincenti.

Casertana Messina risultato esatto 4 a 1 o, in alternativa, 1 risultato finale e over; Messina Paganese primo tempo 2, risultato finale X: hanno fatto felici in molti.

Di Napoli in un intercettazione scottante rivela di essere stato a conoscenza prima del match del parziale e del finale di Messina Paganese:  “Ho provato più volte a rintracciarti..la quota relativa al segno primo tempo 2 era data a 14..“, afferma Di Napoli.

Dall’altra parte del telefono c’è Paolo Mercurio, arrestato successivamente nell’ambito dell’inchiesta Totem e rinviato a giudizio per associazione mafiosa finalizzata alle scommesse clandestine. Che taglia corto: “Vabbè… comunque vedi tu, mi chiami a questo numero e ci vediamo subito quando c’è qualcosa“.

L’inchiesta sportiva

Queste due partite sono state oggetto di indagini da parte della Procura federale sportiva. L’esito è stato opposto a quello cui sono giunti gli inquirenti: archiviazione per tutti i calciatori e i tesserati coinvolti.

Una cordata di ferro

In genere è la società che ingaggia un allenatore. A Messina andò diversamente. Fu Di Napoli infatti che nell’estate del 2015 organizzò la cordata di imprenditori messinesi che rilevarono l’Acr Messina dal catanese Pietro Lo Monaco iscrivendola in extremis al campionato di Lega Pro della stagione 2015/2016.

Arturo Di Napoli si guadagnò così i galloni di allenatore. Il trio Natale Stracuzzi (presidente), Pietro Gugliotta (vice) e Pietro Oliveri non ebbero dubbi ad affidargli la squadra.

Che Di Napoli fosse sotto inchiesta per aver truccato una partita del campionato di Lega pro della stagione calcistica precedente 2014/2015 per loro non ebbe alcuna rilevanza.

 

 

 

 

IL CASO. Sonia Alfano si scaglia in udienza contro il giudice Francesco Alligo “reo” di aver assolto Maurizio Marchetta. La guerra tra l’ex presidente della commissione antimafia europea e l’architetto. Il giornalismo da premio…. legale

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Sonia Alfano

Sonia Alfano

Il giudice non aveva ancora terminato di leggere il dispositivo della sentenza.

Una dura invettiva lo ha costretto a interrompere quello che è l’atto finale di un processo penale: “Questo Tribunale consente a un mafioso di diffamare e rimanere impunito. Ora iniziano i conti. Farò una guerra a questo Tribunale dove accadono cose incredibili”.

La protagonista della scena a cui nei tribunali italiani si poteva talvolta assistere durante gli anni di piombo e, raramente, sempre in passato, nei processi di mafia non è un personaggio qualunque, ma l’ex presidente della Commissione antimafia europea Sonia Alfano.

Figlia del giornalista Beppe Alfano, ucciso a Barcellona l’8 gennaio del 1993 (sono stati riconosciuti colpevoli con sentenza passata in giudicato gli esponenti mafiosi Pippo Gullotti e Antonino Merlino), Sonia Alfano al Tribunale della città del Longano mercoledì 18 ottobre 2018 c’era arrivata con due auto blindate e relativa scorta al seguito.

Era giunta per ascoltare di persona l’epilogo del processo che vedeva imputato di diffamazione ai suoi danni l’imprenditore di Barcellona, Maurizio Marchetta, “il mafioso” secondo l’Alfano.

Il giudice Francesco Alligo però ha assolto quest’ultimo.

Sonia Alfano a quel punto non ha saputo contenere la rabbia.

Preso alla sprovvista dall’inconsueta reazione, il giudice ha dapprima tentato di calmarla: “Se lo faccia spiegare dai suo avvocati....”, si è quasi giustificato.

Ma non c’è stato nulla da fare. Vana è stata pure l’opera del legale Mariella Cicero.

Il giudice Alligo allora non ha potuto fare altro che mettere a verbale quanto era accaduto, indicando come possibili testimoni le persone presenti, tra cui gli uomini della scorta.

Il pubblico ministero, a sua volta, ha chiesto la trasmissione del verbale all’ufficio di Procura per valutare la sussistenza di estremi di reato a carico della Alfano: in ipotesi, Oltraggio al giudice in udienza o Minacce ad un corpo giudiziario.

L’attuale liquidatrice di Tirrenoambiente Spa, la società che gestiva la discarica di Mazzarà Sant’Andrea, non ha risparmiato improperi a Marchetta: “Sei un mafioso. Ti farò la guerra”, ha minacciato, uscendo dal Tribunale.

Sonia e l’architetto: un rapporto difficile

Maurizio Marchetta era accusato di aver diffamato Sonia Alfano in quanto autore di due commenti inviati in forma anonima contemporaneamente a due siti: a quello dell’allora parlamentare europea www.soniaalfano.it e al sito www.enricodigiacomo.org.

Il primo in data 13 aprile del 2011; il secondo in data 10 giugno del 2011.

Nel primo commento, quello del 13 aprile del 2011, era contenuta la ricostruzione – ritenuta dalla Procura di Barcellona diffamatoria – di una serie di fatti e la indicazione di relazioni tra l’onorevole stesso, alcuni avvocati e il giornalista della Gazzetta del sud Leonardo Orlando finalizzati a manipolare il collaboratore di giustizia Carmelo Bisognano.

Dalle indagini è emerso che l‘internet provider da cui è partito il commento era di proprietà della ditta della famiglia di Maurizio Marchetta e tuttavia si trattava di un Ip aperto senza password a cui in teoria si poteva attaccare chiunque fosse nei paraggi e in grado di ricevere il segnale con un pc.

Marchetta, un passato da vicepresidente del Consiglio comunale di Barcellona, avrebbe avuto anche un movente: in quel periodo era stato preso più volte di mira da Sonia Alfano.

La figlia del giornalista lo riteneva un testimone di giustizia falso e aveva spesso contestato attraverso scritti pubblicati sul suo sito che gli venisse garantita la scorta.

L’imprenditore era infatti sotto protezione perché qualche tempo prima aveva denunciato per estorsione i boss della mafia di Barcellona Carmelo Bisognano e Carmelo D’amico.

Fu grazie a queste accuse che i due esponenti di primo livello dell’organizzazione criminale in quel momento praticamente liberi sono stati condannati nell’ambito dell’operazione “Sistema” a pene pesantissime e hanno iniziato la collaborazione con la giustizia.

Il giudice Alligo – da quanto si desume dal dispositivo –  pur ritenendo che l’autore del commento fosse Marchetta lo ha assolto perché il fatto (del reato di diffamazione) non sussiste.

Infatti, il commento era giunto solo alla persona offesa e all’addetta stampa della stessa e dunque la diffamazione non si poteva configurare; successivamente, fu pubblicato su ordine della stessa Alfano e dunque il reato di diffamazione si è consumato ma grazie alla determinante attività della parte offesa.

 

Per il commento identico mandato a www.enricodigiacomo.org la Alfano non aveva sporto querela.

Gli inquirenti invece non hanno mai accertato da quale Internet provider provenisse il commento del 12 giugno 2011, pubblicato dai titolari dei due siti nonostante fosse diffamatorio.

Il giudice Alligo ha così assolto Marchetta per questo post con la formula “per non aver commesso il fatto”.

L’Orlando… furioso

Nello stesso processo Marchetta era accusato di avere diffamato Leonardo Orlando, corrispondente da Barcellona della Gazzetta del sud, sempre attraverso il commento dell’8 aprile del 2011 inviato al sito di Sonia Alfano e di Enrico di Giacomo e proveniente dalla Internet provider della ditta della famiglia Marchetta.

Poiché il commento era stato diffuso e portato a conoscenza di persone diverse dalla  persona offesa e chi l’ha ricevuto l’ha pubblicato, il giudice ha ritenuto che il fatto della diffamazione ai danni di Orlando si potesse configurare e ha condannato Marchetta a 8 mesi di reclusione.

Giornalismo… da premio “legale”

Nel commento diffamatorio oltre all’appartenenza di Orlando alla ipotetica cordata della Alfano, c’erano altre notizie, egualmente diffamatorie, che riguardavano il giornalista di giudiziaria.

Secondo l’anonimo attribuito dal giudice Alligo a Marchetta, Orlando per anni ha abitato nella casa dell’avvocato Giuseppe Lo Presti, uno dei più importanti dell’intera provincia, difensore di vari esponenti mafiosi di primo piano.

Dall’attività istruttoria è emerso che, in effetti, Orlando abitasse a casa del legale e non pagasse affitto, il tutto mentre scriveva sulla Gazzetta del Sud le vicende dei clienti dell’avvocato Lo Presti e di conseguenza dell’attività dello stesso legale.

Sempre secondo lo stesso commento, la sorella di Orlando era stata dall’Aias di Barcellona nel periodo in cui questa fu commissariata dal presidente nazionale Francesco Lo Trovato ed era in corso una guerra giudiziaria tra quest’ultimo e il vecchio presidente Luigi La Rosa, estromesso con l’accusa di aver sottratto fondi, accusa che gli è poi costata una condanna penale.

Anche questo dato è risultato vero.

D’altro canto, nell’informativa di reato dell’inchiesta sull’ente di assistenza agli spastici che ha portato a giudizio lo stesso Lo Trovato, la squadra mobile di Messina aveva messo in rilievo come Orlando – mentre scriveva per la Gazzetta del Sud dell’Aias – intrattenesse relazioni con il padre padrone dell’Aias sino a giungere a prospettare un suo interessamento su magistrati in modo da sbloccare l’impasse giudiziaria a favore di quest’ultimo.

Al contempo aveva segnalato la necessità di un lavoro per la sorella, che infatti fu assunta.

L’ordine dei giornalisti della Sicilia nello stesso periodo del 2011 ha conferito a Orlando il premio Mario Francese, assegnato ogni in memoria del giornalista ucciso dalla mafia.

Il navigato giornalista della Gazzetta del Sud nel processo contro Marchetta è stato difeso dal legale Fabio Repici da sempre impegnato con indomito coraggio a fustigare (anche) i giornalisti che – suo parere – non raccontano la verità in maniera imparziale.

Il “mafioso” Marchetta

Il 23 luglio 2018 Maurizio Marchetta, “il mafioso” secondo Sonia Alfano, è stato assolto dall’accusa di concorso esterno alla mafia dal 1993 al 2011 che gli era stata contestata nel 2017 dalla Procura di Messina.

Specificamente, in abbreviato, il Giudice per l’udienza preliminare Monica Marino ha ritenuto che Marchetta fosse responsabile del reato di concorso esterno alla mafia sino al 2003, ma lo ha assolto per prescrizione; mentre per gli anni successivi al 2003 ha ritenuto non ci fossero prove di un consapevole apporto all’organizzazione criminale e lo ha assolto nel merito.

Il 2003 è l’anno in cui fu arrestato Sam Di Salvo, all’epoca boss di spicco della mafia barcellonese. Con quest’ultimo, che peraltro sin da giovane era stato dipendente della società di famiglia, Marchetta aveva intrattenuto relazioni di amicizia e di affari ritenute penalmente rilevanti benché prescritte.

 

Omicidio di Lorena Mangano, “La gara tra auto c’era: ecco perché”. Nelle motivazioni della Corte d’appello la responsabilità di Giovanni Gugliandolo in competizione con Gaetano Forestiere. Che speronò l’auto condotta dalla studentessa di 23 anni

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Lorena Mangano

Lorena Mangano

 

 

Che la sera del 28 giugno del 2016 Gaetano Forestiere, alla guida dell’Audi TT in stato di ebbrezza, non si sia fermato all’incrocio tra via Garibaldi e via Torrente Trapani al rosso del semaforo e ad una velocità folle abbia speronato una Fiat panda uccidendo la conducente Lorena Mangano di 23 anni e ferendo le altre persone a bordo era un dato provato incontrovertibilmente nel giudizio di primo grado.

Il giudizio di appello doveva risolvere un altro tema controverso: l’agente della guardi di finanza di 32 anni quella sera era impegnato in una gara nel centro città ingaggiata con Giovanni Gugliandolo, 25 anni, alla guida di una Fiat 500 Abarth?

Una domanda di non poco conto soprattutto per Gugliandolo: se gara non c’era allora quest’ultimo non avrebbe dovuto rispondere della morte di Lorena e del ferimento degli altri (a titolo di cooperazione colposa).

In primo grado, Il giudice per l’udienza preliminare, Salvatore Mastroeni alla domanda aveva dato una risposta positiva: ritenendoli entrambi colpevoli di avere cagionato la morte di Lorena Mangano li aveva condannati a 11 anni di reclusione il primo e a 7 anni il secondo.

I difensori di Gugliandolo in appello hanno cercato di confutare la tesi della gara, affidandosi alla consulenza tecnica “negazionista” effettuata per conto del pubblico ministero dall’ingegnere Santi Mangano sulla base dei filmati e tenuta in nessuna considerazione dal giudice Mastroeni, e ad alcune testimonianze “assolutorie”, prime fra tutte quella del conducente di un’Opel Corsa, Marco Giorgianni.

Mastroeni invece aveva considerato sufficienti e determinanti alcune testimonianze di automobilisti che avevano assistito alla scena.

I giudici di appello, a leggere le motivazioni di 42 pagine depositate oggi, hanno ritenuto che la gara ci fosse, usando argomentazioni più ampie.

La Corte d’appello “integra” il gup Salvatore Mastroeni

Infatti, a provare la tesi della gara – secondo i giudici- ci sono non solo alcune testimonianze già utilizzate dal giudice Mastroeni, ma anche uno spezzone del video che riprende le due auto poco prima dell’impatto letale.

“Dal filmato si vede l’auto Fiat 500 abarth che viaggiava al centro della carreggiata leggermente spostata verso sinistra con davanti un motociclo e dietro l’audi TT che si dirigeva, in sorpasso, alla sua destra. Improvvisamente l’auto condotta da Gugliandolo devia verso destra, di fatto impedendo al Forestiere la manovra, tanto da indurlo a deviare, a sua volta, a sinistra ed a sorpassare da tale lato il ciclomotore“, osservano i giudici, che concludono: “Si tratta a ben vedere di manovra per nulla necessaria – in quanto la Fiat 500 Abarth poteva tranquillamente sorpassare il motorino a sinistra, avendone lo spazio – e che può trovare logica spiegazione solo nell’intento di impedire all’Audi TT il sorpasso. Il che si inquadra perfettamente nella competizione tra i due imputati“, motivano i giudici nel passaggio saliente della sentenza d’appello.

 

I giudici d’appello valorizzano anche la testimonianza della fidanzata del conducente dell’Opel corsa, in quei frangenti a bordo della stessa auto, sentita appositamente nel corso del processo di secondo grado: “Si vedeva che c’erano  queste due macchine, c’era questa Audi che correva e questa Abarth che gli andava dietro, quindi comunque era la velocità…se non ci fosse stato questo incidente queste due auto avrebbero continuato con lo stesso andamento”, ha dichiarato  Antonietta Manganaro, che sul punto ha neutralizzato le dichiarazioni del fidanzato Marco Giorgianni. Questi aveva escluso che “le due auto stessero gareggiando“.

I giudici di secondo grado hanno comunque ridotto le pene a 10 anni per Forestiere e a 6 anni per Gugliandolo, ritenendo non applicabile una delle aggravanti addebitate loro in primo grado.

Capo dell’Ispettorato del lavoro e consigliere comunale: per la legge le due cariche non si possono cumulare ma Gaetano Sciacca ha dichiarato che non è incompatibile. Ecco cosa rischia l’esponente del Movimento 5 Stelle. La crociata spuntata di “Diventerà bellissima”, dopo il flop nelle urne

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Gaetano Sciacca con accanto il deputato regionale del M5Stelle Valentina Zafarano

Gaetano Sciacca con accanto il deputato regionale del M5Stelle Valentina Zafarana


Al mattino ordina le ispezioni per verificare il rispetto della normativa a tutela dei lavoratori nei luoghi di lavoro e firma eventuali provvedimenti sanzionatori e denunce in Procura per datori di lavoro; al pomeriggio siede tra gli scranni di Palazzo Zanca e guida l’azione politica del Movimento 5 Stelle.

Un giorno, applicando il principio di imparzialità dell’azione amministrativa coordina le decine di dipendenti dell’ufficio di via Ugo Bassi; il giorno successivo si batte per far passare delibere che risolvano i problemi della città secondo la visione della parte politica che rappresenta.

Su Gaetano Sciacca, candidato perdente a sindaco del Movimento 5 Stelle e consigliere comunale in carica, pende un’azione giudiziaria diretta a stabilire se si potesse o meno candidare e a sancirne nel secondo caso la decadenza.

Tuttavia, il capo dell’Ispettorato del Lavoro di Messina – legge alla mano – dovrebbe essere costretto a scegliere tra il suo incarico dirigenziale e quello di rappresentante dei cittadini messinesi molto prima che gli organi della giustizia si pronuncino.

Anzi, doveva esserlo un attimo dopo aver giurato come consigliere comunale.

Sciacca, il 10 luglio del 2018, ha sottoscritto al pari di tutti gli altri 31 colleghi una dichiarazione con cui ha affermato che non versa in alcuna situazione di incompatibilità.

La legge però lo smentisce.

E lo smentisce la giurisprudenza della Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, competente a vigilare  sull’attuazione del decreto legislativo 39 del 2013 che disciplina la materia dell’ “Inconferibilità e incompatibilità degli incarichi presso le pubbliche amministrazioni”.

Il Genio della legalità

La legge all’articolo 12 sul punto è chiarissima: “Gli incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico di livello regionale sono incompatibili: b) con la carica di componente della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti

L’ex capo del Genio civile è, infatti, un dirigente della regione Sicilia, a cui è stato affidato l’incarico di capo di un ufficio, che peraltro ha competenza anche nel comune in cui svolge le funzioni di consigliere comunale.

Di recente l’Anac (delibera) ha dichiarato incompatibile alla carica di consigliere del comune di Roseto degli abruzzi un dirigente della regione Abruzzo, titolare del Servizio Bilancio del Dipartimento Risorse e Organizzazione, ribadendo un principio più volte enunciato: “Tutti gli incarichi dirigenziali interni ed esterni mediante i quali sia conferita la responsabilità di un servizio/ufficio, sono soggetti alla disciplina del decreto legislativo n. 39 del 2013 in materia di incompatibilità“, ha scritto il presidente Raffaele Cantone.

Una situazione identica a quella in cui versa Sciacca.

L’Ispettorato provinciale del Lavoro di Messina nell’organigramma regionale è configurato come Servizio, precisamente il XVIII del Dipartimento Lavoro dell’Assessorato alle politiche sociali e alla famiglia.

Aut….aut

Secondo la normativa è il Responsabile della prevenzione della corruzione della regione Sicilia, Emanuela Giuliano, a dover contestare l’incompatibilità a Sciacca, diffidandolo ad optare tra i due incarichi entro i 15 giorni successivi alla sua comunicazione.

Se Sciacca non rimuove la situazione di incompatibilità nel termine, allora l’avvocato Giuliano deve risolvere il contratto di responsabile dell’Ispettorato.

In teoria, l’incompatibilità finalizzata alla decadenza da consigliere potrebbe essere anche contestata dal Consiglio comunale, ma come l’esperienza ha anche di recente mostrato le possibilità che accada sono pari allo zero.

 

Dichiarazioni dubbie e sanzioni certe

La rimozione della causa di incompatibilità non salverebbe Sciacca da una sanzione prevista dalla legge per la dichiarazione resa al momento dell”insediamento: “La dichiarazione mendace, accertata dalla stessa amministrazione, nel rispetto del diritto di difesa e del contraddittorio dell’interessato, comporta la inconferibilità di qualsivoglia incarico dirigenziale per un periodo di 5 anni”, stabilisce la legge.

La norma fa salva la responsabilità penale che passa comunque dalla dimostrazione che Sciacca sapeva di essere incompatibile.

La crociata…. e il buco nell’acqua

 

Su altro rispetto a questa palese causa di incompatibilità si fonda l’azione giudiziaria intentata nelle scorse settimane nei confronti di Sciacca e delle liste a lui collegate alle amministrative di Messina.

I ricorsi amministrativo e civile pendenti, infatti, sono volti a dichiarare l’ineleggibilità di Sciacca: sono stati proposti dagli esponenti della lista “Diventerà Bellissima”, riconducibile all’avvocato Ferdinando Croce, capo di gabinetto dell’assessore regionale alla Sanità.

La lista all’ultima tornata elettorale non raggiunse per poco il quorum del 5% necessario per partecipare alla ripartizione dei seggi e con il ricorso vorrebbe rientrare in lizza.

Infatti, l’azione giudiziaria mira non tanto e non solo all’annullamento dell’ammissione di Sciacca alla tornata elettorale ma soprattutto, come effetto a cascata, al successivo annullamento degli 11 mila voti ottenuti dall’unica lista dei Movimento 5 Stelle collegata a Sciacca, in modo che si abbassi il numero dei voti necessari per superare il 5%.

L’ineleggibilità cui sarebbe incorso Sciacca – secondo il legale di Diventerà bellissima Alberto Pappalardo – è di essere “dipendente della regione Sicilia con qualifica non inferiore a direttore o equiparata”, secondo quanto previsto art. 9 della legge regionale 31 del 1986.

Può sostenersi con successo che Sciacca abbia la qualifica di direttore qualifica ad essa equiparata?

La qualifica di direttore è stata eliminata dall’ordinamento giuridico regionale: precisamente 14 anni dopo l’emanazione della legge sull’ineleggibilità degli amministratori, nel 2000, con la legge n. 10.

Poiché le norme in materia di ineleggibilità sono di strettissima interpretazione ed è dunque vietata ogni interpretazione analogica, estensiva o evolutiva delle stesse, l’esser venuta meno la qualifica di direttore dovrebbe depotenziare la causa di ineleggibilità invocata.

Tuttavia, superando questa obiezione in genere insormontabile, si potrebbe sostenere che benché i direttori non ci siano più, una norma di legge abbia attribuitogli stessi poteri, le funzioni e competenze ad altra figura denominata diversamente.

Di conseguenza, l’ineleggibilità riguarderebbe coloro che hanno preso il posto dei direttori nel rispetto di quella che era la ratio della norma: ovvero impedire e sanzionare l’alterazione della par condicio nella competizione elettorale a vantaggio di chi svolgeva rilevanti ruoli apicali nell’amministrazione regionale.

In effetti è cosi.

La legge 10 ha riordinato la dirigenza regionale istituendo tre fasce e nell’abolire la qualifica di direttore ha stabilito che “accedono alla prima fascia dirigenziale il segretario generale, i direttori regionali ed equiparati“.

La stessa legge ha previsto che i dirigenti generali debbano essere nominati solo tra gli appartenenti alla prima fascia dirigenziale.

Dunque, gli ex direttori ed equiparati altri non sono che gli attuali direttori generali o al più i dirigenti di prima fascia.

Gaetano Sciacca è invece dirigente di terza fascia, a cui è stata affidata la responsabilità di un Servizio, il XVIII, da parte del direttore generale del Dipartimento Lavoro, cui è gerarchicamente sottoposto.

Il consigliere comunale dei 5 Stelle ha dunque una qualifica inferiore (e non equiparata, come dovrebbe essere perché fosse ineleggibile) rispetto a coloro che hanno preso il posto dei dipendenti che al tempo in cui fu emanata la legge in cui confida “Diventerà bellissima” erano chiamati direttori.

Ecco perché, difficilmente il ricorso della lista legata al presidente Nello Musumeci verrà accolto.

 

Inchiesta “Terzo livello”, chiuse le indagini. La Procura si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per Emilia Barrile e gli altri protagonisti del sistema clientelare creato dall’ex presidente del Consiglio comunale e dal suo socio Marco Ardizzone

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Emilia Barrile

Emilia Barrile

Gli arresti e le altre misure cautelari sono scattate il 2 agosto scorso.

Un mese e mezzo dopo, la Procura stringe i tempi e tira diritto lungo la strada che porta al giudizio nei confronti dell’ex presidente del Consiglio comunale Emilia Barrile, del suo fidato scudiero Marco Ardizzone, del suo luogotenente Carmelo Pullia, dello stretto collaboratore Giovanni Luciano, dell’amico di sempre nonché imprenditore Francesco Clemente, e dell’amica Angela Costa: i sei devono rispondere di associazione per delinquere finalizzata a commettere reati contro la pubblica amministrazione.

Avviso di conclusione indagini pure per le altre persone coinvolte nell’inchiesta “Terzo livello”:  l’ex presidente dell’Amam Leonardo Termini; il direttore amministrativo dell’Atm Daniele De Almagro; gli imprenditori Antonio Fiorino, Sergio Bommarito, Angelo e Giuseppe Pernicone; Vincenzo Pergolizzi e i suoi figli Sonia e Stefania, il genero Michele Adige, la sorella Teresa Pergolizzi, il suo uomo di fiducia Elio Cordaro, la dipendente storica Vincenza Merlino.

 

Le contesazioni nei fatti per gli indagati rimangono quelle condensate nella richiesta di misure cautelari, ma la Procura – aderendo alla tesi del Gip Tiziana Leanza – ha riqualificato una serie di ipotesi inizialmente configurate di Corruzione in quelle meno gravi sotto il profilo sanzionatorio di Traffico di influenze illecite.

In sintesi, la Barrile è accusata di aver creato, insieme al suo mentore e socio Marco Ardizzone, un sistema clientelare fondato su patronati e cooperative e su favori ottenuti grazie al suo peso politico a una serie di imprenditori o manager, che la ripagavano con assunzioni di persone a lei vicine e altre utilità, il tutto al fine di alimentare il suo bacino di consensi elettorali.

Manager… ma non tanto

Leonardo Termini deve difendersi dall’accusa di Turbativa d’asta per aver favorito nel 2015 una coop riconducibile alla Barrile nell’aggiudicazione di un appalto all’Amam.

De Almagro, in cambio del sostegno della Barrile necessario per la sua riconferma nell’azienda dei trasporti – secondo la Procura – ha determinato  l’assunzione temporanea come autista di persona segnalata dallo stesso esponente politico: fatto declinato nel reato di Induzione indebita a dare o promettere utilità.

Imprenditori sul fondo del Barrile

Bommarito, patron della Fire Spa, azienda nazionale leader nel recupero credito, alla Barrile chiese il disbrigo di alcune pratiche al Comune e di intercedere su Leonardo Termini in modo da favorire il pagamento di una fattura milionaria a favore della Fire che l’Amam riteneva non fosse del tutto dovuta.

In cambio, sempre secondo l’impianto accusatorio, ha fatto donazioni di denaro ad alcune società sportive e alcune assunzioni.

Tony Fiorino, titolare della Despar di Messina, alla Barrile chiese aiuto per ottenere il via libera alla costruzione di un centro commerciale a Sperone e per avere dagli uffici comunali informazioni riservate su suoi concorrenti. In cambio, operava assunzioni e prometteva lavoro nella eventuale costruzione dello stesso centro commerciale.

Angelo e Giuseppe Pernicone, padre e figlio, sotto inchiesta nel processo Matassa per Associazione per delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni, alla Barrile chiesero intercessione per ottenere la concessione dello stadio San Filippo per il concerto dei Pooh, nell’ambito del quale avrebbe dovuto lavorare la loro cooperativa, in cambio di un coinvolgimento pure della cooperativa dell’esponente politico.

Vincenzo Pergolizzi, l’imprenditore noto a Messina per aver costruito il complesso Aralia su Montepiselli, finisce nell’inchiesta sulla Barrile e poi in custodia cautelare in carcere perché – secondo la Procura – si rivolge all’ex presidente del Consiglio e a Clemente per ottenere lo sblocco di alcune pratiche per la costruzione di un’abitazione su via Bisazza in cambio della promessa di commesse negli eventuali lavori.

Dalle indagini è però pure emerso che Pergolizzi aveva appena effettuato una serie di operazioni di cessione delle sue quote societarie, oggetto qualche anno prima di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, annullato successivamente dalla Cassazione, a favore dei suoi stretti collaboratori o congiunti.

Le operazioni societarie sono state declinate in termini di Trasferimento fraudolento di valori: sono state effettuate infatti mentre pende a Reggio calabria il giudizio di prevenzione dopo la sentenza di annullamento con rinvio della Cassazione.

Per la Procura sono state fatte proprio per eludere il possibile nuovo sequestro preventivo.

Gli sviluppi e le misure cautelari

Adesso si apre una fase in cui gli indagati possono chiedere di essere sentiti per chiarire la loro posizione o presentare memorie e documenti nel tentativo di evitare la richiesta di rinvio a giudizio cui l’avviso di conclusioni indagini in genere è propedeutico.

Le indagini sono state chiuse pure per Angela Costa, la moglie di Peppe Chiarella, ex consigliere comunale di Messina e candidato alle ultime elezioni amministrative con la lista Leali di Emilia Barrile.

La Procura aveva chiesto per lei la misura degli arresti domiciliari in quanto socia di una coop riconducibile alla Barrile e ritenuta parte dell’associazione per delinquere capeggiata dalla Barrile e da Marco Ardizzone.

Il Gip Tiziana Leanza ha tuttavia escluso la sussistenza a suo carico dei gravi indizi di colpevolezza dell’appartenenza all’associazione, rigettando la richiesta di misura.

Francesco Clemente, una lunga militanza politica, anch’egli considerato membro dell’associazione per delinquere guidata da Barrile (cui è legato da antica amicizia) e da Ardizzone era finito agli arresti domiciliari.

Il Tribunale della libertà ha nei suoi riguardi annullato la misura: ha così ricevuto la notifica dell’avviso di conclusioni indagini completamente libero.

Ha sostenuto di non aver mai saputo neppure dell’esistenza di Marco Ardizzone e Carmelo Pullia, i membri dell’ipotizzata associazione per delinquere e dunque non potesse essere ritenuto organico di un’associazione di cui non conosce i componenti.

A parte Angela Costa, Francesco Clemente, Leonardo Termini, Sergio Bommarito, tutti gli altri indagati sono sottoposti a misura cautelare.

Vincenzo Pergolizzi è in carcere; la Barrile, Ardizzone, Pullia, Luciano, Adige, Cordaro e Merlino sono ai domiciliari; De Almagro è interdetto dall’esercitare le funzioni di direttore amministrativo; Tony Fiorino ha il divieto di svolgere attività imprenditoriale e di ricoprire cariche nelle società; Sonia e Stefania Pergolizzi hanno l’obbligo di dimora.

In questo procedimento non hanno avuto misure neppure Angelo e Giuseppe Pernicone, ma il primo (padre) è in custodia cautelare in carcere nell’ambito del procedimento Matassa, il secondo (il figlio) è invece libero.

Faida tra “tutori” della legge, un poliziotto e il fratello carabiniere agli arresti domiciliari. Per vendicare la nipote denunciata per furto confezionano contravvenzioni a tavolino nei confronti dei colleghi “troppo rigorosi”. E con il vezzo di guidare motocicli privi di assicurazione

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Le contravvenzioni per guida di motociclo privo di copertura assicurativa con conseguente sequestro del mezzo sono state recapitate a due agenti della polizia di Stato in servizio alla caserma “Calipari” di Messina.

A firmarli un carabiniere, Maurizio Pugliatti, fratello di Francesco Pugliatti, sovrintendente capo della polizia e collega di ufficio dei due destinatari della contravenzione.

Non si è trattato di un caso lodevole di un custode dell’ordine pubblico che non guarda in faccia nessuno e applica la legge nel rispetto del principio di uguaglianza, ma – secondo le conclusioni cui è giunta la Procura al termine di alcuni mesi di indagini – di una vendetta organizzata a tavolino proprio dai fratelli Pugliatti.

Per loro il giudice per le indagini preliminari, Monica Marino, ha disposto la misura cautelare degli arresti domiciliari con le accusa di falso aggravato in atto pubblico e accesso abusivo al sistema informatico.

Il movente della guerra fraticida

Il sovrintendente Maurizio Cisca e il vice Danilo Minissale, i due destinatari delle multe, infatti, qualche settimana prima avevano svolto le indagini e individuato la responsabile di alcuni furti denunciando all’autorità giudiziaria la nipote dei fratelli Pugliatti, Sabrina Alizio.

Ciò ha dapprima suscitato le proteste del loro collega di ufficio e zio della Alizio: “Trattandosi di parente di collega dovevate avvertirmi in modo da trovare il modo di comporre la cosa anche con le persone offese”, ha protestato Francesco Pugliatti, secondo quanto hanno raccontato i due colleghi Cisca e Minissale.

Successivamente, è scattata la vendetta, che ha assunto la forma delle due contravvenzioni confezionate a tavolino.

L’imboscata…. imperfetta

Come hanno evidenziato le indagini, i fratelli Pugliatti attraverso degli accessi alla banca dati in uso alle forze dell’ordine effettuata da un collega (ritenuto dagli inquirenti in buona fede), hanno verificato che gli scooter con cui i colleghi si recavano al lavoro erano privi dell’obbligatoria copertura assicurativa.

Così, qualche giorno dopo, precisamente la mattina del 19 aprile del 2018, Maurizio Pugliatti, in forza al Nucleo radiomobile dei carabinieri, mentre faceva servizio a Piazza Trombetta unitamente al collega Alfredo Grillo (anch’egli indagato) ha attestato nei verbali di contravvenzione e nella relazione di servizio di aver visto passare (più o meno nell’ora in cui si prende servizio alla caserma Calipari), due motocicli che non era riuscito a fermare e di cui aveva però preso le targhe, mezzi che a un controllo successivo erano risultati privi di copertura assicurativa.

Quella che sembrava per i fratelli Pugliatti la più facile delle imboscate si è rivelata un autogol.

Non appena è stata loro notificata, i destinatari delle contravvenzioni hanno denunciato che per andare al lavoro avevano seguito strade diverse da quelle riportate nei verbali da Pugliatti e Grillo: sono così scattate le indagini.

Queste, fondate sull’acquisizione delle immagini delle telecamere della zona, hanno dato loro ragione e smentito quanto attestato nei vari verbali da Maurizio Pugliatti e Alfredo Grillo.

 

Ad applicare la legge…. violando la legge

Cisca e Minissale, che tra i compiti di ufficio hanno anche la repressione delle violazioni al codice della strada, nelle loro denunce non hanno negato di aver usato i mezzi privi di assicurazione né che questi non lo fossero, ma che Pugliatti quella mattina non li ha visti né avrebbe potuti vederli.

D’altronde che fossero privi di assicurazione è un dato documentale; che siano andati al lavoro quella mattina a bordo di quegli scooter lo hanno mostrato le immagini delle telecamere.

Le (solite) fughe di notizie riservate

I fratelli Pugliatti non si sono limitati a congegnare e poi eseguire una maldestra vendetta, ma quando hanno saputo che sul loro conto si stavano svolgendo indagini hanno ancor di più peggiorato la loro situazione.

I due fratelli hanno presentato una denuncia per calunnia nei confronti di Cisca e Minissale.

Dalle denuncia emerge che i due erano a conoscenza del contenuto dell’esposto dei colleghi benché le indagini fossero coperti dal segreto istruttorio.

Chi li ha avvisati?

Il Gip Marino ha valorizzato questa circostanza per motivare la sussistenza del pericolo di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio su cui ha fondato la necessità degli arresti domiciliari.