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Inchiesta Formazione, Chiarà Schirò completamente libera dopo due anni. Il legale Favazzo loda i giudici e bacchetta indirettamente quelli che mantengono in carcere il marito Francantonio Genovese

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Francantonio Genovese e Nino Favazzo

Francantonio Genovese e Nino Favazzo

La seconda sezione penale del Tribunale di Messina libera Chiarà Schirò, moglie dell’onorevole Francantonio Genovese, da ogni misura cautelare e il legale Nino Favazzo loda i giudici che la compongono. Nell’occasione, pur senza fare nomi e cognomi, bacchetta indirettamente quelli del Tribunale del Riesame che hanno respinto le sue istanze di scarcerazione dell’ex leader del Pd, recluso nel carcere di Gazzi dal 15 gennaio 2015, dopo 8 mesi di arresti domiciliari.

I coniugi sono sotto processo nell’ambito dell’inchiesta “Corsi d’oro” sui fondi regionali destinati alla formazione e, invece, usati per comprare immobili.

Non dovrà dunque più recarsi a firmare dai carabinieri, Chiara Schirò. La moglie dell’onorevole potrà attendere l’esito del processo, imputata di truffa, libera da qualsivoglia misura cautelare.

Era stata messa a i domiciliari alla vigilia dell’estate del 2013. Dopo otto mesi è stata posta in libertà, successivamente gli è stata prima irrogata la misura dell’obbligo di dimora e poi di firma.

FAVAZZO DIXIT

Il responso, firmato dai giudici Rosa Calabrò, Valeria Curatolo e Claudia Misale, è stato accolto con grande soddisfazione dal legale Nino Favazzo che non ha lesinato pubbliche attestazione di elogio nei confronti dei tre giudici: “Si tratta di un provvedimento che si segnala per il corretto utilizzo dello strumento cautelare da parte dei Giudici della Seconda Sezione Penale del Tribunale di Messina, che hanno saputo graduare progressivamente la misura, via via adeguandola rispetto alle esigenze cautelari del momento”, ha commentato Favazzo.

Il legale ha pure approfittato della (ghiotta) occasione per togliersi qualche pietruzza dalle scarpe: “Alla misura cautelare è stata, così, restituita la sua tipica funzione preventiva, in linea con i più elementari principi costituzionali, senza assecondarne una distorta e, purtroppo, sempre più diffusa applicazione quale vera e propria anticipazione di una pena che non si sa ancora, se ed in che misura, dovrà essere espiata”, ha detto con un chiaro riferimento a quei giudici che invece non “hanno – mutuando la sua espressione – utilizzato correttamente lo strumento cautelare”.

Dal 15 gennaio 2015, giorno in cui Genovese fu arrestato, per due volte il Tribunale della Libertà ha rigettato l’istanza di scarcerazione avanzata dallo stesso Favazzo. L’avvocato nei ricorsi ha cercato in tutti i modi di sostenere che non sussistessero le esigenze cautelari nei confronti di Genovese. La Procura per bocca dell’aggiunto Sebastiano Ardita si è fermamente opposta.

Nel primo caso il collegio era presieduto da Nunzio Trovato, nel secondo da Antonino Genovese.

L’ex sindaco di Messina nonostante sia finito sotto processo e in carcere ha mantenuto lo scranno alla Camera dei deputati.

Nell’inchiesta Corsi d’oro Genovese, oltre che da Favazzo, era difeso dall’avvocato romano Carlo Paliero. Quest’ultimo dopo alcuni mesi ha lasciato l’incarico per contrasti nella strategia difensiva.

Secondo alcune accreditate indiscrezioni, Genovese a seguito degli ultimi insuccessi giudiziari ha contattato alcuni noti legali di livello nazionale.

Genovese, la protervia di un potente e il mercimonio delle funzioni pubbliche

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Si è costituito. Ha varcato il portone del carcere di Gazzi qualche ora dopo che la Camera dei deputati aveva concesso l’autorizzazione a procedere. Francantonio Genovese, l’uomo più potente di Messina, è in carcere. Il suo arresto è l’immagine di una città “corrotta”, sull’orlo del baratro, in cui l’attività imprenditoriale più in voga sono la truffa, l’evasione fiscale e contributiva.

Insieme al Supremo in carcere finiscono idealmente tutti coloro che negli anni hanno foraggiato il suo potere; hanno fatto la fila nell’anticamera della sua segreteria; si sono sottomessi ai suoi voleri in cambio di un posto di lavoro; hanno ostentato (e usato) la sua amicizia, talvolta coltivata a colpi di aperitivo; non hanno controllato e denunciato (politicamente o solo giornalisticamente) le perversioni su cui poggiava il suo potere e i suoi conflitti di interesse.

Vedere una persona entrare in carcere è un evento che intristisce e colpisce chiunque abbia un minimo di coscienza e sensibilità.  A maggior ragione se l’indagato ci entra senza aver subito un processo. Ma ciò vale sia se si tratta di un potente, che arriva al carcere in Suv accompagnato da un elegantissimo avvocato, e dovrebbe valere ancora di più quando dietro le sbarre ci finisce un immigrato, un tossicodipendente o un ladro di rame: ovvero il 90% della popolazione carceraria.

Perché il deputato del Pd è pur sempre un privilegiato.  Ha uno stuolo di avvocati a sua disposizione. E in carcere non è stato recluso in otto metri quadri insieme ad altri tre, quattro o cinque compagni di avventura, come capita a chi è accusato di reati molto meno gravi e non ha il titolo di onorevole.

Francantonio Genovese finisce in carcere non tanto e non solo perché ci sono gravi indizi di colpevolezza a  suo carico e sussistono le esigenze cautelari del pericolo di reiterazione del reato (di quelli già contestati e di altri della stessa natura).

Il deputato del Pd finisce dietro le sbarre per la sua protervia, il senso di impunità, il delirio di onnipotenza e la certezza, fondata su anni e anni di esperienza politica e di flirt con giornalisti e funzionari pubblici, di poter comprare tutti senza (il più delle volte) pagare nessuno. Sapeva di essere nel mirino della magistratura e ha continuato a fare ciò che faceva come se nulla fosse.

L’esponente politico figlio e nipote d’arte si è difeso davanti ai colleghi della Camera gridando al complotto, dicendosi vittima della persecuzione della Procura e di un Giudice per l’indagini preliminari che ha accolto la richiesta di arresto: l’unico motivo, il fumus persecutionis, che può fondare il rigetto della richiesta di autorizzazione agli arresti per un parlamentare. Il Parlamento non può sindacare la fondatezza delle esigenze cautelari, né tantomeno si può sostenere, come qualche commentatore (sprovveduto) ha fatto che poiché dal momento della richiesta di autorizzazione alla Camera al momento della decisione Genovese non è fuggito, non ha inquinato le prove e non ha commesso altri reati allora le esigenze cautelari non ci sono più. Sarebbe come dire che i parlamentari oltre che privilegiati sono sottratti alle misure cautelari.

Si. Il giudice Giovanni De Marco, se gli insegnamenti di Piero Calamandrei non fossero sconosciuti ai magistrati e alla cultura giuridica, non avrebbe mai dovuto decidere sugli arresti di Genovese e dei familiari di quest’ultimo.

La moglie di De Marco è stata assunta (insieme ad altre 15 persone) all’Ato di Messina, senza concorso e grazie ad una stabilizzazione (benedetta dall’allora sindaco Genovese) in zona Cesarini che fece gridare allo scandalo giornali locali e nazionali (e non perché se n’era avvantaggiata la moglie di un magistrato, neanche citata, salva una sola eccezione, dalle cronache). E il fratello della moglie del magistrato nel periodo delle indagini lavorava nella segreteria dell’assessore alla Formazione Mario Centorrino, uomo di Genovese.

Giovanni De Marco non avrebbe mai dovuto occuparsi del caso Formazione/Genovese e non tanto perché un giudice debba essere imparziale ma perché deve anche apparire di esserlo.Cosa sarebbe accaduto se al contrario non avesse accolto le misure cautelari prima richieste per i familiari di Genovese e poi per il deputato?  Non si sarebbe detto: ecco il solito giudice amico che protegge il potente?

Ma invece di gridare allo scandalo sui giornali, attraverso veline non firmate, perché i legali di Genovese non hanno presentato un’istanza di ricusazione di quel giudice?

La tesi di vittima che Genovese ha cercato fumosamente di veicolare, fuori dai confini della Sicilia non poteva mai fare breccia: quale collega deputato poteva credere che Genovese fosse perseguitato da un giudice non imparziale perché “suo amico”?

Il Genovese imprenditore subirà un processo e qualsiasi cittadino, specie le migliaia che l’hanno votato, deve augurarsi che sia assolto. Ma il Genovese politico ha perso ogni legittimazione a farsi portatore in futuro degli interessi collettivi.

Le carte dell’inchiesta “Corsi d’oro” mostrano che il leader politico ha asservito il potere che i cittadini gli hanno delegato per fare business privato, ha usato i soldi della formazione per comprarsi i palazzi, per ampliare i suoi possedimenti. Evidenziano che lui che fa parte di un partito che fa della lotta all’evasione fiscale uno dei cavalli di battaglia, stacca fatture di comodo per abbattere gli utili delle sue società e non pagare tasse.

Gli atti di indagine dimostrano che pretendeva di piazzare i suoi fidatissimi uomini nei punti nevralgici della macchina amministrativa o a capo degli assessorati per orientare le decisioni nel senso favorevole ai suoi personalissimi interessi. Com’è accaduto con Salvatore La Macchia, con il dirigente generale Ludovico Albert; e con l’assessore alla Formazione Mario Centorrino.

L’economista nelle interviste (finte) che ha rilasciato nei giorni scorsi ha preso le distanze da Genovese e ha difeso il suo operato di assessore giurando e spergiurando di averlo svolto in assoluta autonomia. Le risultanze delle indagini  e le intercettazioni dicono, però, altro.

 

Genovese, affari in formazione. Il deputato e leader del Pd siciliano rischia l’arresto. Le tappe dell’inchiesta

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Francantonio Genovese

MESSINA. La procura di Messina ha chiesto gli arresti in carcere per il deputato nazionale Francantonio Genovese. Dopo il vaglio positivo del Giudice per le indagini preliminari Giovanni De Marco sarà la Giunta per le autorizzazioni della Camera, nelle prossime settimane, a dire se le convinzioni che si è fatto il pool di magistrati guidati dall’aggiunto Sebastiano Ardita sono fondate. E cioè che l’ex sindaco di Messina sia il regista principe di un sistema messo su per drenare a proprio vantaggio le risorse pubbliche destinate alla formazione professionale. Un settore, quello della Formazione siciliana, che ha sperperato milioni di euro, distribuito migliaia di posti di lavoro ma non ha facilitato l’entrata nel mondo del lavoro di alcun disoccupato. La procura ha invece chiesto ed già ottenuto gli arresti domiciliari per Stefano Galletti, il commercialista del gruppo imprenditoriale facente capo al recordman delle preferenze in Sicilia e di Salvatore La Macchia, uomo di fiducia di Genovese e per questo beneficato negli anni di vari incarichi di sottogoverno: tra cui capo della segreteria tecnica dell’assessore alla Formazione del governo di Raffaele Lombardo, Mario Centorrino. Che la Procura “puntasse” Genovese, dopo aver messo agli arresti domiciliari la scorsa estate la moglie Chiara Schirò e il braccio destro Elio Sauta, La Macchia e soprattutto Galletti era emerso già dall’esame della carte della prima tranche dell’inchiesta sfociata nei primi arresti. In realtà, nell’ordinanza di custodia cautelare per Genovese non c’è nulla che già non ci fosse già nelle carte dell’inchiesta già al momento degli arresti del luglio scorso. Era già emerso il sistema di sovrafatturazione (favorito dalla legge)  ideato da Genovese e Sauta per impadronirsi di risorse pubbliche. C’erano già i 600mila euro che Genovese aveva incassato dalle società del suo gruppo per consulenze senza che a monte vi fosse un contratto. C’era lo shopping vorace di enti. C’era il ruolo del commercialista di fiducia. C’era l’assunzione di tutti i congiunti, e dei parenti dei congiunti.

I mesi successivi sono serviti agli inquirenti, visto il calibro dell’indagato, a puntellare l’impianto accusatorio, in ciò favoriti da alcuni autogol della stessa difesa dell’esponente politico. E a dimostrare che all’apice di tutto il perverso sistema ci fosse proprio il figlio di Luigi Genovese e il nipote di Nino Gullotti, democristiani di lungo corso.

Eppure, nonostante fosse chiara quantomeno la responsabilità etica e politica del leader del Pd, il potere di Genovese in questi 8 mesi è rimasto intatto. Nessuno ne ha chiesto le dimissioni e la corte, popolata anche da chi oggi dalla colonne dei giornali scrive indignato, non si è ristretta, anche se c’è chi da tempo aveva preso le distanze. Cosa c’è adesso di più facile che tirare un calcio a chi è già per terra agonizzante?

Di seguito saranno pubblicati gli articoli (con richiamo in formato pdf) a firma Michele Schinella pubblicati dal settimanale Centonove (di cui è dipendente, l’unico a non essere mai stato socio), sulla vicenda giudiziaria della formazione.

Gli articoli del 18 ottobre del 2013, “Bancomat Formazione” e “Galletti alla griglia” che preconizzano gli sviluppi di ora, sono gli ultimi in senso assoluto. Dopo di allora, Michele Schinella non ha scritto neanche un rigo, come si evince dalla circostanza che in calce agli articoli apparsi nelle settimane successive su Centonove, è scomparsa la sua firma (imposta ai giornalisti dal codice deontologico e dal rispetto dei lettori).

Per iniziare viene (ri) pubblicato un corsivo, a firma Michele Schinella, dal Titolo: “Il leader senza ali”, scritto il 19 luglio del 2013, all’indomani dei primi arresti. Poi saranno pubblicati gli ultimi e a seguire, in ordine cronologico quelli scritti da giugno, quando furono notificati gli avvisi di garanzia, al 18 ottobre.

 

La sconfitta di un leader senza ali

QUANDO NEL 2005 fu eletto sindaco di Messina la gente scese in massa per strada festante, come accade quando arriva il profumo e il tepore di primavera dopo un inverno buio di malgoverno. Si disse: visto che è ricco di famiglia e non ha parenti da sistemare nè patrimonio da rimpinguare metterà le sue energie unicamente al servizio della collettività. Nipote di Nino Gullotti, democristiano 8 volte ministro della prima Repubblica; sindaco a 37 anni; deputato nazionale recordman di preferenze; rais del Pd siciliano; alle spalle un patrimonio economico notevole, Francantonio Genovese sembrava proiettato a ricoprire funzioni di Governo nazionale. Invece, non è riuscito a spiccare il volo. Le ali, però, non gli sono state tarpate, come pure certa dietrologia insinua, dalla magistratura al servizio di eminenze politiche avversarie. Eʼ stato Genovese a tarparsi le ali, incapace, come ha mostrato, di liberarsi dalla logica clientelare e familista che attanaglia come un cappa la città di Messina e di tenere fede alle speranze di chi lo sosteneva. Al di là della responsabilità penale, da accertare celebrando un processo vero e non quello mediatico ravvivato da conferenze stampa ad uso e consumo di magistrati in cerca di (vana) gloria, la vicenda giudiziaria in cui è incappato Genovese pone un tema di etica politica. Mettiamo, per ipotesi, che Genovese e company dimostrassero che il sistema perverso disvelato dalle indagini fosse penalmente irrilevante. E’ eticamente accettabile che chi ha avuto il consenso per fare gli interessi della collettività diventi proprietario di palazzi usando i soldi pubblici? Eʼ eticamente accettabile che il leader di un partito che sostiene il Governo regionale designi un assessore (Mario Centorrino) che poi deve porre rimedio alle storture di un sistema, quello della formazione, di cui lo stesso politico/imprenditore si avvantaggia? Le responsabilità penali si accertano nella aule del Palazzo di giustizia. Nello stadio dellʼetica, però, Genovese è già risultato sconfitto. (M.S.)

 

L’INCHIESTA.

BANCOMAT FORMAZIONE

Gli enti non hanno formato nessuno ma hanno permesso assunzioni senza concorso. E di rubare denaro attraverso le fatturazioni di comodo: una truffa “legalizzata”

 

MESSINA. Cʼè chi si è comprato i palazzi. Chi ha finanziato lʼattività imprenditoriale privata. Chi si è concesso lʼauto di lusso. Chi ha regalato i gioielli alla moglie. Che la formazione siciliana, fatta di 8mila addetti e una miriade di onlus, fosse uno strumento per foraggiare con risorse pubbliche le clientele elettorali e dare una sistemazione lavorativa ai propri parenti e stretti congiunti, ci voleva poco a capirlo: bastava recarsi allʼanagrafe usando come indizio di partenza lʼomonimia. Eʼ stato sufficiente mettere il naso nei conti degli enti per scoprire che la formazione, che secondo una relazione della Commissione dʼinchiesta  Ars non ha formato nessuno pur ingoiando ogni anno 400milioni di euro, è diventato un bancomat: nella disponibilità dei vertici degli enti e dal facile uso, come hanno dimostrato prima le indagini della Procura di Messina che hanno messo nei guai illeader del Pd in Sicilia Francantonio Genovese; e ora di quella di Catania, che ha squarciato il velo che coprivano gli enti formazione in qualche modo riconducibili ex presidente della regione Raffaele Lombardo.

Franco Rinaldi

PASSWORD. La password si chiama fatturazione di comodo, falsa o gonfiata attraverso società di interposizione, per spese generali rimborsate, regolamento alla mano, a piè di lista dalla regione Sicilia, come quelle per il personale. Ad esempio, comprando prima unʼimmobile e poi affittando lo stesso ai propri enti di formazione ad un prezzo fuori mercato, come hanno fatto secondo lʼaccusa Genovese e Franco Rinaldi, il cognato deputato regionale ed Elio Sauta,consigliere comunale del Pd. Ludovico Albert lʼex dirigente generale dellʼassessorato alla Formazione, chiamato nel 2011 dal Piemonte in Sicilia dallʼex assessore Mario Centorrino, per riformare un sistema marcio, davanti agli inquirenti della Procura di Messina ha aperto le braccia: «Non è possibile acquisitare gli immobili o le attrezzature. Si possono fare solo gli affitti. Non è vietato affittare immobili di proprietà per fare attività di formazione nè noleggiare le attrezzature da società di cui si è soci. Certo non si possono gonfiare i prezzi», ha concluso il dirigente. Che, dal canto suo non ha mai pensato di modificare queste norme che agevolano le truffe. Così come lʼidea non è venuta a nessun deputato regionale membro della Commissione di inchiesta sulla formazione. Presieduta da Filippo Panarello, la Commissione ha tracciato una fotografia fallimentare del settore, soprattutto al confronto con altre regioni, in cui la formazione non si fa negli immobili affittati a prezzi dʼoro ma direttamente nelle aziende.

A MACCHIA DʼOLIO. Poichè, dunque, le truffe sono agevolate dalla normativa regionale, fatta dagli stessi politici che avevano interessi negli enti di formazione, la mannaia giudiziaria promette di coinvolgere altre decine di enti di formazione. “Lʼiceberg di un fenomeno di proporzioni gigantesche di cui”, per usare le parole di Sebastiano Ardita, lʼaggiunto della Procura che ha condotto lʼinchiesta Corsi dʼoro, “si è intravista solo la punta”, minaccia di emergere del tutto e sconquassare il sistema politico che la formazione ha alimentato. La procura di Messina ha chiesto e ottenuto il giudizio immediato per gli imputati del processo Corsi dʼoro, il cui processo inizierà il 17 dicembre del 2013, ma non ha smesso le attività di indagine. Nelle scorse settimana gli ufficiali di polizia giudiziaria hanno sequestrato nuova copiosa documentazione. Nel mirino ci sono altri enti importanti della città, su cui già in precedenza erano state aperte indagini. Acquisizioni di documenti contabili sono avvenute nelle sedi di enti di formazione della provincia di Enna e Caltanissetta. E lo stesso procuratore capo di Catania Giovanni Salvi ha annunciato “nuovi e clamorosi sviluppi”.

FUTURO. Le inchieste penali però non hanno dato alcun aiuto a risolvere il problema degli 9mila addetti rimasti senza lavoro dopo che il governo guidato da Rosario Crocetta, ha deciso di dare uno stop. Il governatore ha garantito: «Basta con questi enti mangiasoldi che rubano ildenaro ai siciliani. Gli operatori della formazione li salveremo tutti». Come? «Ancora non lo ha capito nessuno», dice uno degli operatori del settore. Lʼidea che si è fatta largo in assessorato prevede di far transitare tutte queste persone al Ciapi (Centro di addestramento professionale) di Priolo che dovrebbe diventare una sorta di Agenzia per la formazione regionale.

RITORNO AL PASSATO. Lʼomologo Ciapi di Palermo è stato al centro di unʼinchiesta che ha portato in carcere Fausto Giacchetto, il mago della comunicazione, e una serie di funzionari e politici regionali. La Procura ha scoperto che milioni di euro di risorse comunitarie venivano distribuite a concessionari di pubblicità e a giornali per campagne pagate a peso dʼoro utili solo alle loro casse. E a quelle di Giacchetto.

di Michele Schinella, Centonove 18 ottobre 2013

 

 

RETROSCENA. Nelle dichiarazioni di Natoli e Lo Presti le accuse al commercialista di fiducia

GALLETTI ALLO SPIEDO

Gli amministratori delle società che secondo gli inquirenti hanno confezionato fatture di comodo puntano l’indice sul mago dei conti. «Ci fidavamo di lui. Era sempre in contatto con Sauta»

 

Elio Sauta

MESSINA. “Eravamo teste di legno. facevamo ciò che ci veniva detto. Ci fidavamo del commercialista Stefano Galletti». Salvatore Natoli, consigliere comunale di Acquedolci, lo ha detto chiaro e tondo nel corso di un interrogatorio richiesto appositamente per vuotare il sacco che gli è valso la separazione della sua posizione processuale da quella di tutti gli altri. Natale Lo Presti, invece, è stato “costretto” ad ammetterlo nel corso dellʼinterrogatorio di garanzia incalzato dalle domande del giudice che ne aveva disposto la misura cautelare e del pubblico ministero. I due sono stati soci di Sicilia Service Srl, la società che secondo lʼaccusa, era usata dallʼAram di Elio Sauta come strumento di interposizione per gonfiare lʼaffitto degli immobili, scaricato poi sulla regione. Natoli è stato anche amministratore di Elfi immobiliare, altra società di interposizione. Lo Presti era anche il rappresentante legale di Na. Pi. Service e Plain Assistance la società di servizi, che sempre secondo lʼaccusa faceva forniture con prezzi gonfiati agli enti di formazione della galassia Sauta e Genovese. Entrambi accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa e al peculato, per allegerire la loro posizione hanno raccontato la loro storia professionale e il perchè sono diventati protagonisti della truffa. Le loro dichiarazioni rischiano di mettere nei guai Stefano Galletti (che non risulta indagato), nel cui studio hanno sede una serie di società finite nel vortice dellʼinchiesta. Il commercialista, molto noto in città, non di rado nominato come consulente dalla Procura e dal Tribunale, è indicato come colui che tesseva le fila di tutte (o quasi) le operazioni di cui loro sono accusati. Lo stesso Gip, Giovanni De Marco, nellʼordinanza di misure cautelare aveva sottolineato che il materiale probatorio imponeva una qualche verifica sullʼoperato del commercialista del gruppo.

NATOLI ACCUSA. Salvatore Natoli, ha dichiarato: «Ero un praticante commercialista del suo studio. Al termine del praticantato mi propose di rimanere a lavorare. Dapprima divenni lʼamministratore di Sicilia service. Per accendere il conto mi recai in banca insieme al dottor Galletti. Tutte le incombenze che relative alla società le sottoponevo al dottor Stefano Galletti. Successivamente Galletti mi chiamò nel suo studio e mi disse che bisognava costituire unʼaltra società che sarebbe stata chiamata Elfi immobiliare, di cui divenni amministratore. Non ho mai percepito un euro come compenso per questa attività. Dopo la costituzione di questa società cominciò a frequentare assiduamente lo studio Elio Sauta. Dal 2008, in coincidenza con il mandato politico diradai la mia presenza allo studio e mi dimisi dalle società». Il consigliere comunale di Acquedolci nel corso dellʼinterrogatorio ha disconosciuto la firma su una serie di contratti di locazione e sublocazione: «Non mi sono mai occupato della contabilità delle società perchè avevo piena fiducia in Galletti. Il rapporto di fiducia si è incrinato man man che sono vedevo che le indagini andavano avanti con acquisiszioni di documenti. «Un giorno nello studio Galletti ebbi un duro scontro con Natale Lo Presti (che gli era subentrato in Sicilia servizi). Lui si lamentò del mio atteggiamento di distacco nei suoi confronti e a fronte della mia risposta risentita disse che non era lui il responsabile di quanto mi stava accadendo, ma che dovevo prendermela con altre persone».

LO PRESTI… IL NOME? «Nel 2008 Galletti, il cui studio seguiva la Na.pi. Srl mi cedette il 10% di Sicilia Service», dice Lo Presti. “Ripreso” dal gip Giovanni De Marco: «Cedute? Regalate vuole dire. Lei era il prestanome, dunque». «Non ho pagato nulla, è vero», ha ammesso Lo Presti. «Non ho mai visto un documento di questa società. Il commercialista mi disse: “Natale, tranquillo la documentazione ce lʼho io, la tengo io», ha precisato Lo Presti. Che davanti allʼincalzare del giudice ha ammesso: «Sbagghiai, signor giudice, in questa situazione io con la Sicilia Service, ho sbagliato da quel maledetto giorno che gli ho detto si». Il Giudice, però, ha rincarato la dose: «E pure con la Napi non è che ha fatto molto meglio…eh». Alla contestazione del giudice Natale Lo Presti ha sottolineato: «No, io con la Napi mi prendo tutte le mie responsabilità, tutte, se ho sbagliato, perchè era unʼazienda nuova».

CAMBIO DELLA GUARDIA. Natale Lo Presti è subentrato in Sicilia Servizi a Salvatore Natoli nel 2008: «Mi sono trovato una serie di contratti di affitto di immobili stipulati in precedenza. Ho chiesto lumi a Stefano Galletti. Mi ha risposto testualmente: “Io sono un commercialista, mi sono occupato sempre della contabilità di Sicilia Service, non ho mai curato altro. Se vuoi delle informazioni del genere ti devi rivolgere al cliente, dottor Sauta». Il giudice lo ha incalzato: «Dunque lei mi sta dicendo che il Galletti gestiva per conto di Sauta?». Salvatore Lo Presti ha risposto: «Io oggi ne sono cosciente di tutto… oggi lo poso dichiarare che sicuramente, e maledetto chi mi ha messo in questa condizione, non lo doveva fare perchè comunque io ero estraneo a tutta questa situazione. Alla fine vado dal dottore Sauta per chiedergli conto di questi contratti: «Sauta mi dice: “Non sono cose che ti riguardano non eri socio dellʼazienda. Sono situazioni del 2008 che vedrò io con il commercialista Galletti e con Natoli».

di Michele Schinella, Centonove 18 ottobre 2013

 

 

INCHIESTA. L’esponente politico del Pd indagato con l’accusa di aver usato soldi pubblici a fini personali

FORMAZIONE ALLA GENOVESE

Nell’inchiesta finisce anche il cognato Franco Rinaldi, deputato dell’Ars ed Elio Sauta, ex consigliere comunale. Nel mirino della Procura la rendicontazione delle spese generali degli enti di proprietà

 MESSINA. Franco Rinaldi, mister preferenze, il più votato alle ultime elezioni per il rinnovo dellʼArs, cognato di Francantonio Genovese, il leader del Pd siciliano e deputato nazionale, aveva ammesso con sfontatezza davanti alle telecamere di Report che “gli enti di formazione” che i due esponenti politici controllano direttamente e indirettamente mediante prestanomi e familiari “sono dei bacini clientelari”. La Procura della Repubblica di Messina si è fatta lʼidea che oltre a servire per dare lavoro e raccogliere, quindi i voti, gli enti sono serviti tra il 2007 e il marzo del 2013 per drenare, attraverso raggiri ed artifici, risorse pubbliche destinate alla formazione e usate poi a fini personali.

Sebastiano Ardita

Sebastiano Ardita

Unʼidea che è un ipotesi di reato, tutta da verificare e riscontrare con elementi di prova, a cui lavora un pool di magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Sebastiano Ardita. Sul registro degli indagati con lʼipotesi di associazione per delinquere finalizzata alla truffa e al peculato continuati sono finiti i due esponenti politici, le rispettive mogli, il nipote di Genovese, e alcuni stretti collaboratori tra cui spiccano i nomi di Concetta Cannavò e Graziella Feliciotto. Nomi pesanti che consentono di comprendere meglio come e dove sono indirizzate le indagini.

NELLA RETE. La prima, oltre ad essere la segretaria di Francantonio Genovese, figura come con incarichi di amministratrice in una serie di società della galassia Genovese, che ha interesse nel campo immobiliare, dell ʻedilizia e della navigazione. Ma è anche Tesoriere del Pd provinciale: fu nominata, da ultimo, nel 2010 dal segretario provinciale Nino Bartolotta, ora assessore regionale alle Infrastrutture e ai Trasporti del governo Crocetta. La seconda è la moglie di Elio Sauta, consigliere comunale uscente del Pd, presidente dellʼAram di Messina, un altro ente di formazione ritenuto della galassia del deputato nazionale. Sauta, che Genovese quando fu sindaco, tra il 2006 e il 2007, mise alla guida dellʼIstituzione per i servizi sociali, non figura nellʼavviso di garanzia notificato ai due esponenti politici, tuttavia è indagato nel medesimo procedimento penale. Il procedimento penale (aperto nel 2011), anzi, ha preso le mosse dallʼiscrizione del suo nome sul registro degli indagati. Tutti gli altri sono stati iscritti il 13 novembre del 2012 quando sono emersi elementi nuovi. Nello stesso periodo in Procura si è presentato il legale Nicola Bozzo che ha fatto il nome di Francantonio Genovese  come lʼesponente politico che attraverso dei sofisticati strumenti giuridici elaborati nellʼassessorato alla Formazione allora guidato da Mario Centorrino, voluto da Genovese, ha posto le basi per lo shopping di enti di formazione. «Una circolare firmata dal dirigente generale Ludovico Albert gli ha consentito di comprarne alcuni», ha accusato Bozzo, chiamato a patrocinare alcuni enti.

INSAZIABILE. Lʼesponente del Pd, nipote del potentissimo democristiano Nino Gullotti, otto volte ministro, tra il 2011 e il 2012, non pago di tutti gli enti di formazione che controllava, ha proceduto allʼacquisizione di due tra quelli con il maggior budget: lʼEnfap, lʼente della Uil e lo Ial, lʼente di formazione della Cisl. Il costo dellʼoperazione? Top secret.

Nonostante la regione avesse tagliato i budget e fossero stati licenziati mille e duecento operatori (degli oltre 8mila impiegati nel settore), Genovese ha proceduto in questi nuovi enti ad alcune assunzioni: tra questi quella di Giandomenico La Fauci, il suo autista personale.

SPESE GONFIATE. Dagli ambienti investigativi non filtrano notizie ma lʼimpressione è che gli investigatori hanno toccato con mano quello che tutti gli addetti ai lavori sussurrano ma su cui nessuno riesce a fare luce: la rendicontazione e il rimborso a piè di lista delle spese di gestione. La regione Sicilia, infatti, non solo paga solo tutta la spesa per il personale necessario per effettuare i corsi ma anche, nel limite di 24 euro per ogni ora corso, tutte le spese (per lʼaffitto della sede, il materiale didattico, le spese generali, la diaria agli studenti) che sono rendicontate con allegata fattura o ricevuta. Basta farsi fare, magari da società satellite, fatture di comodo gonfiate, e la truffa è servita: senza neanche faticare molto.

DIFESA. «Le indagini mostreranno che gli enti di formazione sono stati gestiti in maniera corretta», sottolinea, attraverso i legali, Genovese. Che già ha toccato con mano gli effetti pratici dellʼinchiesta giudiziaria: era stato proposto dal Pd per fare il Segretario della Camera dei deputati ma la candidatura è stata messa in frigorifero.

PARENTOPOLI. Una commissione di inchiesta dellʼArs presieduta dallʼesponente messinese del Pd, Filippo Panarello, ha stabilito che la formazione in Sicilia è “funzionale solo alle esigente occupazionali dei dipendenti degli enti”. «Non è vero che tutta la formazione è inutile. Ci sono dei corsi fatti bene che formano seriamente e altri che sono inutili. Parentopoli? Negli enti di formazione sono stati assunti i parenti di tutti: giornalisti , magistrati, politici e sindacalisti», ha dichiarato Elio Sauta.

di Michele Schinella, Centonove 28 giugno 2013

 

GENOVESE, FORMAZIONE ARDITA

Su richiesta dell’aggiunto della Procura agli arresti i vertici degli enti vicini al leader del Pd. L’accusa: «Creato un sistema illecito di arricchimento ai danni dell casse pubbliche». Ai domiciliari la moglie Chiara Schirò, la segretaria Cannavò e altri stretti collaboratori

 

MESSINA. Vuoi diventare proprietario di un palazzo a costo zero? Facile. Anticipa i soldi necessari a comprarlo attraverso una società appositamente costituita, crea un ente di formazione e affittaglielo per i corsi ad un canone gonfiato che norme alla mano paga a piè di lista la regione Sicilia. Vuoi invece fare la cresta su tutte le spese per pulizia, noleggio di apparecchiature e materiale didattico necessario ai corsi? Idem. Che il mondo della formazione siciliano fatto di 3mila e 200 enti, di 9mila addetti e di 400milioni di euro allʼanno di budget, non fosse solo un luogo dove assumere senza concorso e a carico delle pubbliche casse parenti, amici e fare così clientela tra gli addetti ai lavori era un dato conosciuto da anni.

Lʼinchiesta della Procura di Messina che ha portato agli arresti le mogli dei due esponenti politici più importanti della storia politica di Messina degli ultimi 15 anni, entrambi sindaci della città, lo ha fatto venire con clamore alla luce, come la punta di un iceberg tutto ancora da scandagliare.

Il Giudice per le indagini preliminari, Giovanni De Marco, nel firmare la misura arresti per Chiara Schirò, moglie del deputato nazionale Francantonio Genovese, leader del Pd in Sicilia, e Daniela DʼUrso, moglie di Giuseppe Buzzanca, sino ad agosto del 2012 primo cittadino e deputato regionale, non ha avuto remore a scrivere che “se ci fossero i controlli, le illecità negli affitti degli immobili e nel noleggio delle apparecchiature, divenute occasione di facile spreco di denaro pubblico e talora di arricchimento privato, si individuerebbe in gran parte degli enti di formazione”.

Le indagini per il momento si sono concentrate sulla galassia degli enti di formazione riconducibili a Genovese, Lumen ed Aram, di cui però il vero motore è Elio Sauta, ex consigliere comunale del Pd uomo di fiducia del deputato e sullʼAncol guidato da Melino Capone, ex assessore della Giunta di Buzzanca, la cui consorte è stata a lungo direttrice regionale. Nellʼinchiesta risultano indagati lo stesso Genovese; il cognato Franco Rinaldi, deputato regionale; la moglie Elena Schirò, per la quale era stata chiesta la misura cautelare, però, rigettata. Alla conferenza stampa per illustrare lʼoperazione che ha privato della libertà 10 persone ai vertici dei due enti o di società satelliti, cʼera il capo della Procura,Guido Lo Forte, in lotta per essere nominato capo della Procura nazionale antimafia, un aggiunto, Sebastiano Ardita e tre sostituti. La tenuta dellʼinchiesta però, a leggere lʼordinanza di misura cautelare, si fonda per gran parte dei 54 capi di imputazione sul lavoro di due consulenti, Giuseppe Barreca, commercialista, cui è stato affidato il compito di spulciare i bilanci e i conti degli enti e delle società che fornivano servizi, e Dario Megna, ingegnere, cui è stato dato assegnato lʼincarico di valutare la congruita di affitti, e sulle conclusioni cui sono arrivati al termine di un lavoro fatto quasi esclusivamente di esame di documenti contabili e di contratti: le intercettazioni telefoniche ed ambientali, infatti, poco o nulla hanno aggiunto alle risultanze investigative.

IL SISTEMA. «Le tecniche impiegate per la truffa sono per nulla sofisticate», ha osservato il gip De Marco nellʼordinanza. «Gli affitti e il noleggio di attrezzature sono stati effettuati a prezzi fuori mercato presso ditte riconducibili ai medesimi amministratori di enti, tavola attraverso interposizioni di altre società dello stesso gruppo, con intrecci di interessi sconcertanti, tanto più clamorosi in quanto trascurati dagli enti di controllo», ha sintetizzato De Marco, bacchettando gli uffici della regione Sicilia che per anni nulla hanno avuto da obiettare, provvedendo alla liquidazione delle spese rendicontate. La prassi “perversa”, fatta anche di consulenze per progettazioni ritenute dagli inquirenti “fittizie”, è stata declinata dalla Procura nei reati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa e al peculato.

ESEMPI MIRABILI… Dove svolge lʼattività formativa lʼAram presieduta da Sauta? E la Lumen di Elena Schirò? Nel palazzo di via Principe Umberto, accanto allʼIstituto Cristo re, a Messina. Chi ne è il proprietario? La società Centro servizi 2000 Srl. Chi ne detiene le quote sociali? Sauta e la moglie Graziella Feliciotto, Genovese e Rinaldi. Gli amministratori? Prima Feliciotto e poi, sino allʼaprile del 2010, Chiara Schirò. Il canone? 130mila euro allʼanno (157mila dal 2012) per lʼAram e 50mila per la Lumen. «Il canone secondo i prezzi di mercato rilevabili dallʼosservatorio del Mercato immobiliare doveva essere rispettivamente di 50mila e di 16mila euro», ha scritto il consulente, «Ogni anno vi era un distrazione di soldi pubblici di 120mila euro». Fatti due conti, nei 6 anni dal 2006 al 2012, Centro servizi 2000 Srl di affitti dai due enti ha incassato un milione e 328mila euro: esattamente quanto la società ha speso per comprare e ristrutturare lʼimmobile. Lʼimmobile, infatti, rilevato dai Padri Rogazionisti , è costato 671mila euro. Ma lo si è dovuto ristrutturare. Chi ha fatto i lavori per 652mila euro? La Ge. Imm Srl. Ovvero la società di costruzioni di Rinaldi e Genovese. «I lavori – hanno osservato i magistrati – sono finiti nel 2008 ma la struttura è stata adibita a centro di formazione già nel 2006. Comʼè possibile?». Non solo. «La struttura ancora oggi manca di certificato di agibilità e mai è stato rilasciato il certificato di prevenzione antincendio, tuttavia ha ottenuto egualmente i finanziamenti regionali».

Il legale dei coniugi Genovese, Alberto Gullino, anticipando la linea difensiva, domanda: «Come fa un perito a dire in maniera astratta se un canone è congruo?». Ma a Chiara Schirò e alla sorella Elena viene pure contestato il noleggio da parte della Lumen di apparecchiature della società Centro servizi 2000 Srl, ad un canone superiore negli anni compresi tra il 2005 e il 2011 di oltre il 50% rispetto a quello sostenuto dalla società della loro stessa galassia secondo le fatture per acquistarlo. Il Gip De Marco tuttavia ha già ridimensionato lʼipotesi accusatoria: «Il reato è configurabile solo dal 2005 e il 2008. Chiara Schirò ha sottoscritto solo il contratto di noleggio di questʼultimo anno».

TRUFFA LEGALIZZATA. Ludovico Albert ex dirigente generale del Dipartimento regionale Formazione interrogato dagli inquirenti ha spiegato: «Lʼaffitto di immobili da società degli stessi amministratori degli enti di formazione non è vietato così come non è imposta con rigorosità una gara informale per la fornitura di servizi. Naturalmente i costi devono essere reali per servizi effettivamente resi», ha sottolineato il dirigente piemontese, offrendo così una ciambella di salvataggio agli indagati.

di Michele Schinella, Centonove 19 luglio 2013

 

IL CASO. Il presidente dell’Aram descritto come motore del sistema fraudolento

LA CRESTA TARGATA SAUTA

L’ex consigliere comunale indagato di 33 reati ha evitato il carcere per il rotto della cuffia. Il Gip: «Ha tentato di ostacolare le indagini consigliando di non dare le carte ai magistrati»

MESSINA. Lʼavviso di garanzia ricevuto unitamente alla moglie Graziella Feliciotto nonostante le gravi imputazioni non aveva per nulla scalfito la sua proverbiale verve. «Eʼ tutto in perfettamente in regola», aveva assicurato. Parentopoli? «Negli enti sono stati assunti tutti: i nostri parenti, quelli dei sindacalisti e dei politici ma anche di esponenti delle forze dellʼordine e dei magistrati», aveva attaccato. Elio Sauta, 53 anni, ex consigliere comunale, delle 15 persone di cui è stata chiesta la misura cautelare dalla Procura di Messina è lʼunico ad aver rischiato di finire in carcere.

Il motivo lo ha spiegato il giudice De Marco nellʼordinanza di misure cautelari: «Lʼestrema gravità delle condotte ascrivibili al Sauta, con il corollario di atteggiamenti volti ad ostacolare le indagini meriterebbe la più grave misura della custodia in carcere. Tuttavia allo stato non vi sono elementi per ritenere la misura degli arresti domiciliari non sufficiente a soddisfare le esigenze cautelari», ha scritto il magistrato. Intercettato sul telefono e nel suo ufficio, lʼuomo che il sindaco Genovese nel 2006 volle alla guida dellʼIstituzione per i servizi sociali, risulta agli inquirenti il vero motore del sistema perverso creato ad arte per fare la cresta sulla formazione e per realizzare lʼarricchimento personale. Sauta, indagato per 33 dei 53 capi di imputazione complessivi, insieme alla moglie ha creato una girandola di società, Trinacria 2001 Srl, El Fi. Immobiliare Srl, Sicilia Service Srl, che hanno finito per avere un oggetto sociale esclusivo: fornire servizi e affittare immobili al suo ente di formazione, a prezzi finali che secondo i consulenti della Procura sono gonfiati. E così, per fare degli esempi, Sauta non si limita secondo lʼaccusa, come fa con Centro servizi 2000 Srl ad affittare ad un prezzo esorbitante il palazzo di via Principe Umberto (vicenda che coinvolge Genovese e la moglie Chiara, Rinaldi e moglie Elena), ma per conto proprio, con la complicità della moglie e di Natale Lo Presti e Salvatore Natoli, realizza un sistema di sovraffatturazioni di affitto mediante interposizione. In parole semplici, in varie città siciliane, sedi di corsi dellʼAram, affittava un immobile con una società intestata a prestanomi suoi complici per una somma e poi lasubaffittava ad un prezzo doppio o triplo alla “sua” Aram, scaricato sulle casse pubbliche, appropriandosi così della differenza valutata in centinaia di migliaia di euro dai due consulenti. Elio Sauta è accusato di aver simulato lʼacquisto per conto dellʼAram di un immobile. La ragione? Intascare 232mila euro di soldi dellʼente di formazione. Il modo? Da presidente dellʼAram ha versato, come caparra, nelle casse dellʼEl.Fi. Srl società di sua proprietà, 232mila euro per acquistare un immobile in via Pascoli, di cui El-Fi. Srl era titolare. Lʼimmobile, in cui lʼAram effettuava corsi, non è mai passato di proprietà e anzi lʼente ha continuato a pagare la pigione pure maggiorata – secondo i consulenti – di 40mila euro allʼanno. La stessa El.Fi Srl è stata usata, secondo gli investigatori, da Sauta per comprare unʼ Audi A8 per 60mila euro che è stata poi affittata a 29mila euro allʼanno allʼAram: rendicontata e dunque pagata con i fondi della regione Sicilia come se fosse funzionale alla formazione è stata usata per le esigenze personali e familiari. Dallʼesame dei movimenti bancari i consulenti hanno rintracciato lʼuso di fondi dellʼAram per pagare gioielli per 23mila euro. Quando nel 2011 sono partite le indagini e la Polizia ha chiesto documentazione, Sauta, ad un suo collaboratore ha consigliato: “Un mio amico della Finanza mi ha detto di non parlare, di prendere tempo, di dire non ricordo, non ce lʼho presente, non so …Così da fari impazzire a iddi (…) Tanto non capiscono niente”, ha concluso con sicumera. Sottovalutando che i magistrati si potevano servire dellʼausilio di consulenti. Che lo hanno per il momento messo in croce.

di Michele Schinella, Centonove 19 luglio 2013

 

 

COMPLICITA’ IN FORMAZIONE.

Nelle informative alla le telefonate con i funzionari regionali per agevolare Aram e Lumen. Il ruolo di Salvatore la Macchia, segretario particolare dell’assessore e uomo di Genovese

 

Funzionari dellʼUfficio provinciale del Lavoro e dirigenti e consulenti dellʼassessorato regionale alla Formazione. La cresta sugli affitti e sui noleggi secondo la Procura di Messina l’avevano ideata i vertici degli enti di formazione Aram e Lumen, riconducibili ai deputati Francantonio Genovese e al cognato deputato regionale Franco Rinaldi, e di Ancol, ente della galassia di Melino Capone e Peppino Buzzanca. A rimetterci erano le casse regionali: truffate in 6 anni secondo una prima stima per 6 milioni di euro. Tuttavia, se a volere seguire lʼipotesi della Procura che ha chiesto ed ottenuto la misura cautelare per 10 persone tra cui la moglie di Genovese Chiara Schirò e quella di Buzzanca, Daniela DʼUrso, lʼoperazione era possibile, è stato per la complicità di chi avrebbe dovuto controllare le rendicontazioni o impedire che lʼandazzo continuasse.

Il Giudice per le indagini preliminari, Giovani De Marco, ha duramente censurato lʼoperato del funzionario dellʼUfficio provinciale del lavoro di Messina Massimo Crovini (che non risulta indagato) incaricato di effettuare la revisione delle rendicontazioni dellʼAncol. «Eʼ grave non sia accorto dellʼirregolarità della documentazione e interrogato abbia dichiarato che alcune firme di vidimazione sono di una sua collega che ha delegato a firmare per conto suo», ha scritto il Gip.

Gli inquirenti della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, invece, hanno attentamente monitorato lʼoperato dei funzionari e dei dirigenti dellʼassessorato che nel periodo delle indagini era retto da Mario Centorrino, economista messinese, e dal dirigente generale Ludovico Albert. Lʼipotesi coltivata per mesi dagli inquirenti che però non ha trovato sinora elementi di prova su cui fondarsi era che gli enti di formazione Aram e Lumen, allʼassessorato si potessero avvalere per lubrificare il sistema, ottenere vantaggi nel finanziamento dei corsi e sfuggire ai controlli, dellʼaiuto di uomini considerati vicini a Genovese: proprio a partire da Centorrino, economista dellʼUniversità di Messina assessore della Giunta del sindaco Genovese tra il 2005 e il 2007. Unʼipotesi avvalorata dai contatti frequenti tra Elio Sauta ex consigliere comunale e presidente di Aram, Daniela DʼUrso ed Elena Schirò, moglie di Franco Rinaldi e presidente della Lumen, ed i funzionari del Dipartimento regionale alla Formazione: intercettati e finiti nelle informative che gli inquirenti hanno via via trasmesso ai magistrati titolari delle indagini, Sebastiano Ardita, lʼaggiunto, Camillo Falvo, Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti.

LʼUOMO A LʼAVANA. Ludovico Albert agli inquirenti, su precisa domanda, ha dichiarato: «Lʼassessore Centorrino non ha fatto mai pressioni sulla mia persona per favorire gli enti vicini a Genovese». Tuttavia Genovese a Palermo, allʼassessorato aveva un altro uomo di peso, Salvatore La Macchia, già dirigente esterno presso il Dipartimento Istruzione e Formazione Professionale e segretario particolare dellʼex assessore Formazione, dipendente del Pd. La Macchia diventa punto di riferimento per Elena Schirò ed Sauta ogni volta che cʼè da risolvere qualche problema. Come quando, per fare un esempio, allʼex consigliere comunale presidente di Aram viene annunciata unʼispezione da parte di Deloitte&Touch S.p.a.. Sauta su lamenta con Antonio Giannotta, funzionario del Dipartimento Istruzione e Formazione Professionale, che gli suggerisce di contattare Antonino Di Franco dirigente ad interim presso il Servizio Sistema Formativo e Accreditamento, il quale sarebbe “amico di Salvo”, che per gli inquirenti è appunto La Macchia. Elio Sauta dopo qualche ora prende il telefono e chiama proprio La Macchia: «Il problema è che mi chiedono di fare lʼaccreditamento di una sede che non esiste più», si lamenta Sauta. «Ma tu lʼhai comunicato che non cʼè più», dice La Macchia. «Certo”, risponde Sauta. «Allora non ci sono problemi», assicura il segretario particolare di Centorrino che Genovese agli inizi del 2012 sponsorizza come commissario dellʼArea sviluppo industriale di Messina. Ludovico Albert oltre a salvare Centorrino ha fornito una ciambella agli indagati dellʼoperazione Corsi dʼoro. «Lʼaffitto di immobili da società degli stessi amministratori degli enti di formazione non è vietato così come non è imposta con rigorosità una gara informale per la fornitura di servizi. Naturalmente i costi devono essere reali per servizi effettivamente resi», ha sottolineato il dirigente piemontese.

 

di Michele Schinella, Centonove 26 luglio 2013

 

Presidente dell’Ancol “senza titolo”, Melino Capone a giudizio per truffa

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Capone Melino

MESSINA. Era decaduto sin dal 2008 da commissario dell’Ancol Sicilia ma agiva come legale rappresentante, ingannando così la regione Sicilia che ha continuato ad erogare finanziamenti pubblici destinati alle attività dell’ente di formazione. La tesi del pubblico ministero della Procura di Messina, Camillo Falvo, è stata ritenuta fondata dal Giudice per l’udienza preliminare Massimiliano Micali che al termine dell’udienza preliminare, tenuta oggi 22 novembre 2013, ha disposto il rinvio a giudizio di Melino Capone.

Il Gup Micali ha riunito questo procedimento a carico dell’assessore alla Mobilità della Giunta guidata dall’ex sindaco Giuseppe Buzzanca a quello nato dall’inchiesta Corsi d’oro. L’inizio del processo è fissato per il 19 dicembre del 2013. Vede alla sbarra i vertici degli enti di formazione Aram, Lumen e Ancol, enti della galassia del deputato del Pd ed ex sindaco di Messina Francantonio Genovese e dell’esponente del Pdl Buzzanca. Senza il filtro dell’udienza preliminare, sul presupposto dell’evidenza della prova, oltre allo stesso Capone, sono stati già rinviati a giudizio (immediato) Chiara Schirò, moglie di Genovese; Concetta Cannavò, segretaria del leader politico ed ex tesoriere del Pd a Messina; Daniela D’Urso, moglie di Buzzanca; Elio Sauta, ex consigliere comunale del Pd e presidente dell’Aram; Graziella Feliciotto, moglie di Sauta e operatrice della formazione; Natale Lo Presti, Nicola Bartolone, Natale Capone, fratello di Melino, e Giuseppe Caliri. Sono tutti accusati di aver concorso, attraverso le fatturazioni gonfiate, a far diventare gli enti di formazione degli strumenti per drenare denaro pubblico da usare per fini privati.

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