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Fallimento ex Vigilnot Sicilia, la Corte d’appello condanna Daniela e Cristina Corio e Antonino Romano per bancarotta. La società nel 2007 fu usata per “svuotare” Il Detective, lo storico istituto di vigilanza di Messina fallito nel 2011

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foto giustizia

Rimaste minoranza nella società di famiglia, prima che l’assemblea dei soci li estromettesse dalla dirigenza, ne comprarono un’altra a cui trasferirono in affitto (a prezzo irrisorio) l’azienda (e soprattutto tutti gli appalti in essere pari a 8 milioni di euro annui), in modo da mantenerne così la gestione.

La spericolata operazione di svuotamento della società di vigilanza “Il Detective Srl” non solo non ha realizzato, se non per qualche settimana, l’obiettivo che si erano prefissato, essendo stata bloccata all’epoca dal Tribunale civile di Messina, ma è costata alle protagoniste come effetto collaterale una dura condanna.

Daniela Corio e Cristina Corio, due delle 4 figlie del fondatore della storica azienda che arrivò nel 2006 ad avere 100 dipendenti, sono state condannate dalla Corte d’appello di Messina a 3 anni e 6 mesi di reclusione per bancarotta documentale e fraudolenta.

La stessa pena è stata irrogata ad Antonino Romano.

I tre sono stati alla guida della società Vigilnot Sicilia srl (poi denominata Corio Srl) tra il 2007 e il 2008.

Vigilnot Sicilia Srl fu lo strumento attraverso cui fu realizzato lo svuotamento de “Il Detective”, al centro di una guerra intestina per il controllo scoppiata alla morte di Antonia Privitera, avvenuta il 4 maggio del 2007. Protagoniste le 4 figlie, Antonella e Natala oltre a Cristina e Daniela, con Enzo Savasta, da sempre uomo fidato prima del fondatore Antonino Corio e poi della moglie, ago della bilancia nella contesa in quanto titolare del 5% delle quote.

Le imputazioni di bancarotta

Quando fu acquistata, il 30 ottobre del 2007, Vigilnot si trovava in stato di decozione: aveva infatti 222 mila euro di debiti.

Le due sorelle si impegnarono ad ripianare i debiti e ad aumentare il capitale sociale. Lo fecero solo in parte e, dopo pochi giorni, si ripresero con la complicità dell’amministratore  Romano una porzione di quelli versati, 60 mila euro. Da qui l’ accusa di Bancarotta fraudolenta. Nel 2009 Vigilnot Sicilia srl fu dichiarata fallita.

I tre rispondevano pure di bancarotta documentale per aver tenuto le scritture contabili della società in maniera irregolare tanto da non rendere possibile la ricostruzione delle movimentazioni.

Nel processo era imputato anche Domenico Macrì, imprenditore calabrese che il 6 giugno del 2008 acquistò la maggioranza del capitale di una società la Corio Srl (ex Vigilnot Srl) priva di commesse e con soli debiti.

Macrì ci rimise 67 mila euro e l’imputazione di bancarotta documentale, in concorso con Daniela e Cristina Corio e Antonino Romano.

In primo grado era stato condannato a due anni. La Corte d’appello l’ha assolto.

Domenico Macrì dopo l’avventura nella società di vigilanza acquistò e gestì per un periodo a cavallo tra il 2010 e il 2012 il bar Select, ubicato a due passi dal Tribunale.

Operazione svuotamento a in…castro

L’affitto a prezzi irrisori dell’azienda Il Detective allora in buonissima salute a Vigilnot Sicilia fu effettuato mentre presidente del Cda Corrado Emanuele Galizia, ex agente dei servizi segreti in pensione che in tutta la guerra societaria è stato sempre accanto a Daniela Corio.

Come mostrarono le intercettazioni telefoniche, fu il legale Andrea Lo Castro a suggerire a Daniela Corio e alla sorella Cristina Corio di effettuare l’operazione di svuotamento della società.

L’avvocato Lo Castro, molto noto a Messina e per anni componente del collegio di difesa della Provincia regionale di Messina, è finito sotto processo per concorso esterno all’associazione mafiosa.

Secondo la Procura e il Giudice per le indagini preliminari attraverso una serie di consigli giuridici (tra cui quelli di affitto di azienda) ha favorito il clan capeggiato a Messina da Enzo Romeo, nipote del boss Nitto Santapaola.

Denunce a orologeria

L’inchiesta che è sfociata nella sentenza d’appello, comunque non definitiva, è una costola accessoria dell’inchiesta madre nata dalle denunce che presentò la stessa Daniela Corio alla Procura di Messina proprio mentre organizzava e portava a termine l’operazione di svuotamento della società di famiglia.

La Corio denunciò una serie di fatti che accusavano coloro che in quel momento avevano di fatto la guida della società e da li a breve, dopo l’assemblea dei soci, l’avrebbero guidata: le sorelle Antonella e Natala e Enzo Savasta.

Le denunce penali e la guerra societaria combattuta in sede civile portarono nel 2011 Il Detective al fallimento.

Assunzioni di favore e inquirenti port a porter

Le indagini, coordinate dai sostituto Adriana Sciglio e Antonino Anastasi, furono affidate alla sezione di polizia giudiziaria diretta da Diego Arena.

Fu il luogotenente Giuseppe Smedile a svolgere quasi tutti gli accertamenti. Questi mentre indagava sulle persone denunciate da Daniela Corio, la riceveva quotidianamente negli uffici di via Monsignor D’arrigo, dove veniva accompagnata dall’ex agente dei servizi segreti Galizia.

Nello stesso tempo Daniela Corio diede un posto di lavoro al padre del nipotino dello stesso ufficiale, ovvero al compagno della figlia,  assumendolo proprio alla ex Vigilnot Sicilia Srl.

Primi responsi ed effetti boomerang

Al termine delle indagini, nel 2011 la Procura chiese e ottenne il rinvio a giudizio di 19 persone per 65 capi di imputazione.

Il processo in corso di svolgimento davanti alla prima sezione penale del Tribunale presieduta da Mario Samperi ha avuto il 17 maggio del 2017 un primo responso.

Tredici dei diciannove imputati sono stati assolti per prescrizione (Processo Detective, fioccano le prescrizioni).

Daniela Corio è alla terza condanna rimediata nell’ambito delle indagini sulle inchieste connesse alla sua denuncia.

E’ stata in precedenza condannata con sentenza passata in giudicato a 8 mesi di reclusione per rivelazione del segreto d’ufficio e, in primo grado, per calunnia ai danni di Salvatore Formisano, generale della Guardia di finanza in pensione, per un periodo amministratore de Il Detective in rappresentanza della maggioranza avversa a Daniela Corio. E’ stata assolta per prescrizione dai diversi capi di imputazione di cui doveva rispondere nel processo davanti alla prima sezione penale.

 

Processo “Il Detective”, fioccano le prescrizioni. Escono di scena 13 imputati. Il processo, nato dalla guerra intestina per il controllo della storica società di vigilanza, continua per gli altri sei

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Il Tribunale di Messina

Il Tribunale di Messina

All’inizio del giudizio di primo grado, nel 2012, i capi di imputazione erano 65. In piedi, dopo 4 anni, nel 2017,  ne sono rimasti 9.

Il processo cosiddetto Il Dectective, nato dalla guerra intestina scoppiata nel 2007 per il controllo della società di vigilanza fondata da Antonino Corio, ha avuto un primo responso.

Il Tribunale di Messina, presieduto da Mario Samperi, nel tardo pomeriggio di oggi ha dichiarato l’avvenuta prescrizione per il decorso del tempo di 56 capi di imputazione.

Sotto processo sono rimasti sei imputati.

I restanti tredici, infatti, hanno beneficiato della sentenza di non doversi procedere per il decorso massimo del tempo dai fatti contestati.

I fatti oggetto delle ipotesi di reato erano stati commessi nel 2007.

Escono dal processo Daniela Corio, figlia dei proprietari della società di vigilanza, e Pietro Cacace, il marito; la figlia Federica Cacace; Cristina Corio e Natala Corio le altre due sorelle figlie dei proprietari de Il Detective; Corrado Emanuele Galizia, ex agente dei servizi segreti, per un periodo amministratore de Il Detective, consigliere e braccio destro di Daniela Corio; Giuseppe Giammillaro, marito di Cristina Corio; Antonino Lo Giudice, avvocato e consulente della società; Pietro Sofia e Massimiliano Morabito, guardie giurate; Pietro Previte e Massimiliano Carrozza, titolari di ditte che avevano lavorato per il Detective; Maria Gabriella Ciriago, funzionaria della Prefettura di Messina.

I reati contestati e dichiarati prescritti andavano dalla turbativa d’asta, all’appropriazione indebita, alla falsa testimonianza, alla truffa attraverso false fatturazioni, alla circonvenzione di persona incapace, alla rivelazione del segreto d’ufficio.

Non verrà così mai accertato in un processo penale se e quali di questi imputati fossero o meno colpevoli dei reati di cui erano accusati.

 

Il processo continua per le accuse di estorsione

 

Sono rimasti in piedi i capi di imputazione con cui la Procura ha contestato l’estorsione, reato con tempo di prescrizione più lungo.

Specificamente, sono accusati di estorsione, Antonella Corio e il marito Marco Lenci: secondo l’accusa hanno minacciato la mamma (e suocera) Antonia Privitera, proprietaria de Il Detective di non farle più vedere il proprio figlio, se non avesse trasferito alla figlia una polizza vita, che aveva come beneficiaria la stessa Antonella.

La tesi difensiva, sostenuta dal legale Nunzio Rosso, si basa, tra l’altro, su quest’ultimo dato.

 

Lo straordinario fuori busta

 

Rimangono sotto processo, anch’essi accusati di estorsione in concorso Enzo Savasta, uomo di fiducia prima di Antonino Corio e poi, dopo la sua morte, avvenuta nel 1999, della moglie Antonia Privitera; Salvatore Privitera, fratello di quest’ultima, e Mariella Russo, sorella (non germana) del fondatore Antonino Corio:  in qualità dipendenti amministrativi sono accusati di aver obbligato alcuni dipendenti ad accettare pagamenti in nero dello straordinario e in misura minore al dovuto, attraverso la minaccia  di licenziamento.

Teste principale dell’accusa per questo capo di imputazione è Salvatore Di Natale, sindacalista aziendale della Cgil, che sentito in fase di indagine ha fatto delle dichiarazioni di accusa nette ai tre imputati.

Proprio la prossima udienza fissata per il 17 ottobre 2017 è dedicata all’esame del sindacalista.

In realtà, Di Natale, costituito parte civile, era stato citato per l’udienza di oggi ma non si è presentato così come non si è presentato il suo legale, Saverio Arena.

All’udienza precedente, dopo aver risposto alle domande del pubblico ministero in maniera serena e decisa, incalzato dal legale di Savasta, Salvatore Saccà, che aveva iniziato a dare lettura di alcune intercettazione da cui emergeva la sua posizione di sindacalista tutt’altro che neutra rispetto alla guerra intestina societaria, ha lamentato un malore che ha costretto il Tribunale a rinviare l’esame.

La tesi difensiva – emersa nel corso del dibattimento – è che non ci fu alcuna minaccia, nè avesse motivo di esserci: i dipendenti che hanno lamentato di aver avuto corrisposto lo straordinario in nero (6 su 100) erano guardie che mensilmente facevano più straordinario di quanto la legge consentisse.

Per cui questo ulteriore straordinario non poteva essere  per legge inserito nella busta paga,  ma veniva pagato in nero. Il dipendente, in realtà così non solo non veniva danneggiato ma addirittura avvantaggiato: percepiva – dati alla mano – di più per ogni ora di straordinario per così dire “ultra legem”, perchè quanto corrisposto era netto non dovendosi pagare ritenute fiscali e contributive.

 

Il falso in atto pubblico

 

Rimane ancora sotto processo Carmelo Altomonte, dirigente del Comune. E’ accusato di aver autenticato la firma di Antonia Privitera che – secondo l’accusa – mai incontrò di persona, visto che questa mai potè andare al Comune e mai ci andò a causa delle sue condizioni di salute.

La tesi difensiva – esplicitata nel corso del dibattimento – è che fu Altomonte ad andare a domicilio della Privitera per autenticare la firma.

 

Origini interessate e assunzioni di favore 

 

Le indagini coordinate all’epoca dai sostituti Antonino Nastasi e da Adriana Sciglio sono nate dalle denunce di una delle figlie di Antonino Corio e Antonia Privitera, Daniela Corio, presentate un paio di mesi dopo la morte della mamma, avvenuta il 3 maggio del 2007, al termine di una malattia.

Daniela Corio, in quel momento  minoranza nella società di famiglia (dopo alcuni di mesi direttore generale) si presentò in Procura denunciando una serie di fatti che accusavano coloro che in quel momento avevano la guida della società: le sorelle Antonella e Natala e Enzo Savasta, socio con il 5% e amministratore della società,  ago della bilancia nella battaglia tra le 4 sorelle.

Le indagini condotte dalla sezione della polizia giudiziaria della Guardia di Finanza, guidata da Diego Arena, furono caratterizzate – per come è emerso – dai rapporti frequenti tra Daniela Corio e Corrado Emanuele Galizia e il luogotenente Giuseppe Smedile, che di fatto svolgeva le indagini.

L’ufficiale Smedile, con le indagini ancora in corso, si ritrovò assunto il genero da parte di un’altra società di vigilanza, la Corio srl (ex Vigilnot) nel frattempo acquisita da Daniela Corio e Cristina Corio.

Le due sorelle, rimaste minoranza nella società di famiglia ma prinma che un’assemblea dei soci certificasse ciò, avevano affittato a prezzo irrisorio l’azienda de Il Detective proprio a Corio Srl, appena acquistata.

Alla fine, tirando le fila di un’indagine durata tre anni e fatta di intercettazioni telefoniche, la procura contestò reati anche a Daniela Corio e Corrado Emanuele Galizia, commessi secondo la procura proprio nel periodo in cui i due entravano e uscivano dagli uffici della Guardia di Finanza.

Nell’inchiesta rimase invischiata la moglie dell’allora rettore dell’ateneo di Messina Franco Tomasello, Melitta Grasso (deceduta due anni fa), amica di vecchia data di Antonia Privitera: indagata inizialmente per corruzione, la Procura chiese e ottenne per lei l’archiviazione.

 

Effetto boomerang: fallimenti e condanne

 

La società Il detective, che quando iniziarono le indagini della procura aveva 7 milioni di euro di fatturato e 100 dipendenti, nel 2011 è stata dichiarata fallita.

Fallita è stata dichiarata pure la società Corio srl (ex Vigilnot).

Da quest’ultimo fallimento è nato un procedimento penale per bancarotta fraudolenta che al termine del processo di primo grado ha visto condannata tra gli altri Daniela Corio a 4 anni di reclusione e Cristina Corio a tre anni.

Daniela Corio, nell’ambito di un’altra costola dell’inchiesta principale, è stata condannata con sentenza passata in giudicato ad otto mesi di reclusione per rivelazione del segreto d’ufficio: nel corso della guerra societaria aveva chiesto e ottenuto informazioni riservate da impiegati della Prefettura di Messina.